FOIBE, LA FERITA È APERTA
I massacri contro le popolazioni giuliano-dalmate dopo la seconda guerra mondiale stanno lentamente uscendo dall’oblio. ma la giustizia vorrebbe che le vittime venissero risarcite, anche materialmente. alcuni spunti di riflessione su una ferita che continua a sanguinare.
di Andrea Morigi
Sei anni fa, sul Timone, Paolo De Marchi chiudeva il suo contributo Foibe: il ‘buco nero’ della storia con una domanda, che era più che altro un auspicio e finora ha trovato soltanto parziale risposta: «A quando, sui libri ma soprattutto nelle coscienze, la verità sulle foibe?». Nel frattempo, è stata istituita la ricorrenza nazionale, e la si celebra a partire dal 2005, della Giornata del Ricordo, in memoria dell’inizio ufficiale, per convenzione fissato il 10 febbraio 1947, dell’esodo di 350mila italiani dall’Istria e dalla Dalmazia, occupate dalle truppe jugoslave del maresciallo Josip Broz, detto Tito.
Ebbene, la risposta al quesito si ferma più o meno a una mera presa d’atto della tragedia da parte delle autorità. A tre anni di distanza dal riconoscimento delle stragi compiute contro gli italiani, sugli scaffali delle librerie si trovano poche tracce della vicenda che vide un numero imprecisato, ma quantificabile in oltre diecimila, di persone fucilate, gettate ancora vive nelle profondità della terra e lì lasciate morire in una lenta agonia. Da una parte l’editoria italiana è ferma e non investe sull’argomento, dall’altra la ricerca storica sembra non essere in grado, per ragioni politiche, di proseguire nell’opera di individuazione delle cause del fenomeno. Certamente non tutto è stato chiarito e indagato, soprattutto negli archivi del Partito comunista italiano, che ancora nasconde ciò che potrebbe portare alla luce le responsabilità e i silenzi di tanti “compagni che sbagliarono”.
Ma il passato, anche se sepolto per convenienza politica, tende ad autoriesumarsi e, curiosamente, accanto a chi nega o minimizza gli accadimenti, c’è anche chi da sinistra vorrebbe orgogliosamente rivendicare le efferatezze della storia, magari per riproporle come prassi nel presente e nel futuro. Contrapposto ai numerosi istituti e associazioni formati dagli esuli giuliano-dalmati impegnati a non cancellare le tracce del dramma affinché non abbia a ripetersi, vi è anche il “Centro documentazione Comandante Giacca”, una sorta di progetto politico più che storiografico con l’obiettivo dichiarato, ma non esclusivo, di perpetuare la memoria delle imprese del capo partigiano Mario Toffanin. Nel suo nome, cioè quello dell’autore della strage intrapartigiana di Porzus del 7 febbraio 1945, si attua così il tentativo di affermare una continuità tra la Resistenza e l’attuale insurrezionalismo, uniti dal sangue. Non a caso l’iniziativa, recente, di fondarlo nasce proprio a Padova, la città natale di Toffanin, all’interno del centro sociale Gramigna, noto alle cronache giudiziarie per il coinvolgimento di diversi suoi esponenti nelle inchieste sulle nuove Brigate Rosse.
Per molti militanti dell’area antagonista il riferimento a Giacca non si limita affatto alla sfera ideale, ma è un fatto concreto, di appartenenza materiale e non solo simbolica a una storia, che si è voluto sottolineare con una partecipazione di massa ai funerali di Toffanin, svoltisi in Slovenia, dove aveva vissuto dal dopoguerra fino alla sua morte. Quella che, all’inizio, per il comandante della brigata gappista “13 martiri di Feletto” fu una scelta obbligata di latitanza, dovuta al pericolo che le inchieste giudiziarie sulle stragi partigiane accertassero le sue responsabilità politiche e al timore delle eventuali conseguenze penali, divenne una bandiera dell’internazionalismo comunista quando, dopo che nel 1957 fu condannato a trent’anni di reclusione, fu graziato dal presidente della Repubblica Sandro Pertini. Se Toffanin non rinunciò mai definitivamente alla cittadinanza italiana, probabilmente, fu perché l’Inps aveva provveduto per decenni a versargli fino alla morte, avvenuta il 22 gennaio 1999 a Skofije (già Sesana), un km. oltre il confine italo-sloveno, un assegno vitalizio, tanto per ripagarlo dell’opera compiuta durante la lotta di liberazione dal nazifascismo.
Così come accadde negli anni 1970 con il passaggio delle armi tra partigiani e terroristi rossi, documentato a più riprese da uno dei capi storici delle Br Alberto Franceschini, anche l’area no-global va alla ricerca dei propri “padri fondatori”. Se non li trova, a volte se li costruisce, sempre in nome della stessa rivoluzione proletaria, che giustifica l’utilizzo delle armi per annientare il nemico del popolo. Quel mito tende a ritrovare vigore annualmente, a ogni ricorrenza della Giornata del ricordo, come per il timore che la denuncia dei delitti compiuti da partigiani titini implicasse automaticamente una condanna di tutto quanto è stato compiuto durante la Resistenza. È la tesi sostenuta da chi ritiene di dover sottolineare che, comunque, non si possano nemmeno paragonare per gravità le rispettive responsabilità storiche: perciò la ferocia degli eccidi nazifascisti come la Risiera di San Sabba “deve” rimanere ideologicamente insuperabile rispetto all’orrore delle foibe, tutto da ridimensionare. Su questa stessa distinzione tra i totalitarismi si innesta anche la pretesa dell’attuale nazionalismo di parte slava. Se non avesse saputo di poter contare su un discreto numero di alleati in Italia, il presidente croato Stipe Mesic non avrebbe recentemente osato polemizzare con il capo de-lo Stato italiano, Giorgio Napolitano, accusandolo di revanscismo solo per aver ricordato le sofferenze patite dai nostri connazionali che hanno subito le conseguenze del Trattato di Osimo del 1947, con il quale l’Italia rinunciò a favore della Jugoslavia alla sovranità nazionale sulla zona B, che comprende Fiume, l’Istria e l’isola del Quarnaro, distinta dalla zona A, nome con cui si identificano Gorizia, Trieste e il suo circondario. Non è un dettaglio che, a chi abitava a est della cosiddetta linea Morgan, cioè in quei territori che caddero sotto la dominazione socialcomunista jugoslava, furono confiscate le abitazioni e le proprietà senza che i governi italiani del dopoguerra abbiano mai preteso un risarcimento dalle autorità confinanti. Né, probabilmente, lo chiederanno in futuro perché, chiuso l’incidente diplomatico con Mesic, certamente l’attuale ministro – ex comunista – degli Esteri, Massimo D’Alema, non vorrà riaprire un’altra crisi.
Bibliografia
Gaetano La Perna, Pola Istria Fiume 1943-1945. L’agonia di un embo d’Italia e la tragedia delle foibe, Mursia, 1993.
Guido Rumici, Infoibati [1943-1945]. I nomi, i luoghi, i testimoni, i documenti, Mursia, 2002.
Gianni Oliva, Profughi. Dalle foibe all’esodo: la tragedia degli italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia, Mondadori, 2005.
Marco Girardo, Sopravvissuti e dimenticati. Il dramma delle foibe , e l’esodo dei giuliano-dalmati, Paoline, 2006.
Raoul Pupo, Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Rizzoli, 2005.
IL TIMONE n.62 – Aprile 2007
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