La democrazia e i musulmani
Angelo Panebianco
Corriere della sera 7 agosto 2005
Scegliere in politica parole sbagliate significa sbagliare politica. Lo mostra la storia dell’espressione “islam moderato “. Cominciò a circolare dopo la rivoluzione khomeinista del 1979. Nel linguaggio superficiale ma utile della diplomazia indicava i governi musulmani amici dell’Occidente e che, a differenza del nuovo Iran, non volevano esportare la rivoluzione islamica. La guerra santa di Al Qaeda era ancora di là da venire e le connessioni col mondo islamico erano limitate ai rapporti interstatali e alla geo-economia (il petrolio arabo).
L’11 settembre cambiò tutto. Si scoprì ciò che fino a quel momento era noto solo agli esperti di islam, ossia che dietro le nostre sommarie etichette si nascondono mondi assai complessi.
Si scoprì, per esempio, che la “moderata ” Arabia Saudita, da sempre alleata dell’Occidente e attenta a manipolare con saggezza i rubinetti del petrolio, era un covo di vipere. Da lì veniva la maggior parte degli attentatori dell’11 settembre, da lì partivano i finanziamenti più robusti a Bin Laden. E il fondamentalismo wahhabita dei sauditi era risultato un humus culturale assai fertile per la diffusione dell’ideologia jihadista nel mondo islamico. Si scoprì che la “moderazione ” politico-diplomatica dei governi di società impregnate di fondamentalismo religioso non impedisce a quel fondamentalismo di alimentare l’islamismo radicale.
La stessa guerra che Al Qaeda ha scatenato in Arabia Saudita viene interpretata da non pochi specialisti come frutto di una lotta per il potere fra fazioni della società saudita. Tutto questo, naturalmente, non poteva essere compreso quando ci si limitava ad etichettare come “moderato” (che stava per “amico” e “inoffensivo “) il fondamentalismo wahhabita.
Dopo l’11 settembre occorre tener conto di più livelli. C’è il livello dei rapporti politico-diplomatici per il quale vale, come sempre, la regola amico/nemico: ci si allea con chi più conviene al momento allo scopo di fronteggiare meglio i nemici più pericolosi. Nel caso dei sauditi, ad esempio, non possiamo fare a meno del loro petrolio e, per giunta, ci sono in giro, nel mondo islamico, altri pericoli decisamente più immediati.
Ma il livello “diplomatico ” non esaurisce tutto. Ad un altro livello conta il tipo di islam con cui si ha a che fare. Se, per esempio, una associazione di fondamentalisti, siano essi filiazione del wahhabismo oppure imparentati con i Fratelli Musulmani, dichiara di condannare il terrorismo in Europa possiamo esserne (cautamente) lieti, ma non possiamo abbassare la guardia e precipitarci ad applicare la rassicurante etichetta di “moderati ” a quei fondamentalisti.
Dimenticando che il fondamentalismo, o tradizionalismo, religioso è l’incubatrice culturale dell’estremismo jihadista.
Fuori dall’ambito che gli è proprio, quello della diplomazia, “islam moderato” è dunque espressione sbagliata e fuorviante. Ad essa conviene sostituire la distinzione fra musulmani che, come noi, amano libertà e democrazia (e vogliono quindi conciliare l’islam e la modernità) e musulmani il cui progetto di società è invece inscritto nella sharia, nella legge islamica.
“Moderato”, per Montesquieu, era il governo che tutelava la libertà dei cittadini. In nessun senso il termine può applicarsi all’ideale di società e di governo perseguito dai fondamentalisti islamici.