L’allarme lanciato da quaranta anni è ancora tutto attuale. Il dilagare della droga, ha radici profonde e lontane, ma in questi quarant’anni avremmo potuto mettere in piedi dei capisaldi culturali, legislativi e strutturali. Più che parlare di intervento specifico e mirato tra le sbarre per il tossicodipendente, si dovrebbero prevedere obblighi, impegni, percorsi, strutture educative, come è, ad esempio, la comunità. Bisogna però stare attenti che il bisogno e il diritto ad un aiuto, non diventi un pretesto per continuare a piangersi e a farsi piangere addosso. Il problema è un altro: chiederci per chi e a che cosa serve il carcere. Purtroppo, credo che ormai sulla droga ci si muova solo per questioni ideologiche, da una parte come dall’altra degli schieramenti politici.
Il 13 febbraio scorso la Comunità Incontro ha festeggiato 40 anni di vita. Nel 1963 la tossicodipendenza non era ancora considerata un problema nazionale. Sei stato sicuramente profeta, ma il tuo allarme non è stato preso nella giusta considerazione, non ottenendo i necessari sostegni. Diversamente, non avresti dovuto assistere al dilagare della droga che, in un certo qual senso, ti ha costretto ad aprire ben 236 centri. Chi, in particolare, non ti ha creduto?
Devo dire, innanzitutto, che io non mi sono mai occupato di tossicodipendenza, ma di persone. E quando ci si occupa delle persone si è sempre profeti, perché se uno sa guardare nel cuore dell’emarginato, vede quali saranno i percorsi del disagio, e quali sono le domande non espresse che hanno bisogno di risposte autentiche. Non ci si lascia ingannare dalle apparenze, come succede – ad esempio – quando si cerca di capire il problema della tossicodipendenza studiando il flusso del narcotraffico o dell’uso delle sostanze: quello è un problema di ordine pubblico. Sarebbe come pretendere di capire quali sono i problemi sessuali e famigliari degli italiani, attraverso l’analisi e la lotta al mercato della prostituzione, che pure va fatto. Chiediamoci per chi e a che cosa serve il carcere e, di conseguenza, se la detenzione sia l’unico tipo di pena infliggibile, non solo al tossicodipendente ma ad ogni cittadino che delinqua.
In questo senso, l’allarme che io lancio da quarant’anni è ancora tutto attuale. Sicuramente il dilagare della droga ha radici profonde e lontane, e non avrei certo potuto arrestarlo, ne io ne altri. Ma, è altrettanto vero, che in questi quarant’anni avremmo potuto mettere in piedi dei capisaldi culturali, legislativi e strutturali, che farebbero ben sperare per il futuro prossimo.
E invece, a parte qualche “pilone” (qualche comunità seria, qualche Ser.T. non omologato ideologicamente, qualche politico “attento” per senso di responsabilità e non per schieramento di partito), mi sembra che ci troviamo come per Venezia da salvare: tante chiacchiere, convegni, contrapposizioni, e ancora non si è fatto nulla per le paratie agli imbocchi. Il progetto Mose è il migliore, oppure no? Ma, intanto, non si è fatto quasi niente. Così è stato per la droga.
La Comunità, quando trova soggetti convinti a liberarsi dalla tossicodipendenza, è capace di modificare le personalità, riuscendo a tirare fuori dall’essere umano il meglio di lui, anche se, talvolta, troppo ben nascosto. Lasciata la Comunità, affrontare quella nuova vita, per la quale si è a lungo combattuto, diventa troppo spesso impossibile per l’assenza di opportunità. Perché non si creano delle strutture, dei centri, che possano accompagnare l’ex-tossicodipendente perlomeno nei primi passi del suo nuovo cammino?
Credo che il problema vada posto diversamente. Sembra, altrimenti, che uno diventa tossicodipendente sostanzialmente a causa di una società che non offre ai giovani opportunità reali; e allora, chi non ci casca è un eroe o un opportunista! Oppure, sembra che, quando uno è stato tossicodipendente sia ormai irrimediabilmente compromesso, e solo con delle stampelle sociali possa farcela a ritrovare una dignità. Sicuramente, l’uso della droga e uno stile di vita disordinato, spesso criminoso, lascia delle tracce, non solo psicologiche ma anche sociali, che ti marchiano e che costituiscono un handicap in più, al di là dell’impegno e della buona volontà. Ma siccome la droga ha insegnato anche a scendere a compromessi e a cercare le soluzioni più facili e più veloci, bisogna stare attenti che il bisogno e il diritto ad un aiuto non diventi un pretesto per continuare a piangersi e a farsi piangere addosso. Perché poi la società fa presto a bollarti, magari non più come criminale ma come povero assistito, e allora non è che la tua vita cambia molto, e prima e poi ricadrà negli errori di prima, o in altri simili.
Detto questo, è vero però, che senza istituire corsie preferenziali a cui uno ha diritto per il fatto di far parte di una categoria disagiata di ex (tossico, detenuto, alcolizzato, barbone, etc.), lo Stato, attraverso le sue organizzazioni periferiche, dovrebbe offrire a chi ha dimostrato e continua a dimostra senso di responsabilità e voglia di farcela degli strumenti che, per un periodo, lo aiutino a sbloccare una situazione, a sciogliere un nodo; fermo restando che, poi, questa persona deve riprendere quanto prima il suo cammino da sola. Credo che i Ser.T. potrebbero, ad esempio, fare molto in questo campo, operando sul territorio e, riagganciando chi è uscito dalla comunità, o ha finito di pagare il suo conto con lo Stato, vedere se ha bisogno di una mano e attivare attorno a lui le risorse sociali positive.
Berlusconi, Fini e Casini sembrano avere una particolare attenzione nei tuoi confronti, dimostrando una certa qual sensibilità verso i problemi della tossicodipendenza. La tua quarantennale esperienza dovrebbe fornire loro quei dati sufficienti per varare un vero programma per debellare, quasi definitivamente, la droga. Cosa impedisce loro di non perdere altro tempo e di legiferare adeguatamente?
Non solo loro, ma anche altri politici, come l’ex Ministro Livia Turco, il Senatore Imposimato, il Ministro Giovanardi, l’Onorevole D’Antoni, e tantissimi altri, mostrano attenzione alla Comunità Incontro. Cosa impedisca agli attuali ministri di legiferare adeguatamente, bisognerebbe chiederlo a loro. Farlo adeguatamente è comunque sempre passibile di discussioni e opinioni diverse. Basterebbe che si decidessero a legiferare. Purtroppo, credo che ormai sulla droga ci si muova solo per questioni ideologiche, da una parte come dall’altra degli schieramenti politici. E, dunque, chi è al Governo deve subordinare questo ad altri problemi, anche di equilibri, ma soprattutto di competenze e gestione dei fondi.
Il gioco delle parti protrattosi in tutti questi anni, ha costretto troppe realtà del volontariato ad organizzarsi sostanzialmente in funzione degli stanziamenti e dei sussidi, mentre i Ser.T. si sono arroccati nel garantismo corporativistico delle categorie professionali impiegate e nella conta degli utenti ma mantenere a tutti i costi, anche col metadone a gogò, con altri palliativi ufficializzati come “riduzione del danno”, o con intese sotterranee con le realtà comunitarie e del volontariato più acquiescenti. Adesso, come ti muovi crei un polverone! Nonostante questo, il Governo dice di volerlo fare, togliendo di mezzo formulazioni di compromesso: come le tabelle che ipocritamente – per non offendere, cioè, gli schieramenti ideologici che ci campano sopra – distinguono droghe di serie A, B o C; o come la distinzione tra uso (o possesso) personale o meno, piuttosto che sulla quantità e le modalità di accesso a sostanze che, comunque, sono illegali e comportano responsabilità civili e penali. Ci riuscirà? Per adesso stiamo ancora ad aspettare!
Un anno fa a “Vita” hai dichiarato che “il carcere è una scuola di delinquenza, non serve. Un ragazzo entra tossico ed esce rapinatore e bandito”. Salvo il ribadire la nostra convinzione che il “carcere d’oggi” non serve a nessuno, farlo evitare ai tossicodipendenti non equivale a considerarli, forse troppo semplicisticamente, solo dei malati? Malati che, tra l’altro, in certi casi sfruttano la loro malattia? Non sarebbe giusto un intervento specifico e mirato all’interno dello stesso carcere? Non sarebbe più giusto impedire soprattutto l’ingresso in carcere per vecchi reati commessi nello stato di tossicodipendente, a quanti sì sono realmente reinseriti?
Sono decenni che io dico e scrivo che “un anno di carcere è peggio di un anno di droga”, e condivido il concetto che non si possono trattare i tossicodipendenti che compiono dei reati, come dei semplici malati, incapaci ci ogni responsabilità civile e penale. Questo sì segnerebbe la loro condanna definitiva. Il problema è un altro: chiederci per chi e a che cosa serve il carcere e, di conseguenza, se la detenzione sia l’unico tipo di pena infliggibile, non solo al tossicodipendente ma ad ogni cittadino che delinqua.
Forse c’è il criminale difficilmente recuperabile e, comunque, non trattabile, per cui la prima cosa da fare è togliergli violentemente ogni forma di libertà fisica. Ma, per gli altri, credo che si possano trovare livelli diversi di intervento coattivo, proporzionati al reato e alle condizioni della persona. Pertanto, più che parlare d’intervento specifico e mirato nel carcere, per il tossicodipendente i cui reati siano sostanzialmente riconducibili ad una condizione di vita che lo ha portato anche alla droga, si dovrebbero prevedere obblighi, impegni, percorsi, strutture educative, com’è, ad esempio, la comunità. Fare un ibrido – e cioè un carcere che sia anche comunità – non serve, perché crea confusione, nella persona e tra le persone: sia tra i residenti – detenuti che tra di loro e gli operatori che sono un po’ educatori un po’ poliziotti. Io sono convinto che “dove inizia la costrizione, cessa l’educazione”, e per costrizione intendo quella che ti viene imposta dal di fuori senza una tua decisione interiore. E allora il vero aiuto da dare è aiutare la persona a capire che per uscire dal suo stato di criminalità e tossicodipendenza ha necessariamente bisogno di fare un percorso rieducativo e che, quanto prima arriverà a comprenderlo, tanto prima ne verrà fuori.
A questo punto che c’è di meglio dell’aiuto e dell’esempio di chi lo ha fatto prima di te? Ma questo è possibile solo se s’instaura un rapporto di fiducia, di amicizia e di reale parità e condivisione, come può avvenire solo al di fuori di una struttura a carattere forzatamente detentivo.
a cura di Giampiero Rossi
Nonsolochiacchiere, agosto 2003
http://www.ristretti.it/areestudio/droghe/dibattito/gelmini.htm