NIKITA KRUSCIOV
Sanguinario dittatore, al pari del suo capo e ispiratore, succedette a Stalin e ne denunciò i crimini efferati in un famoso “rapporto segreto” che Togliatti, da “buon” segretario del Pci, cercò in tutti i modi di celare, ritardare, sminuire…
di MASSIMO CAPRARA
Dal 14 al 25 febbraio 1956 si tenne a Mosca il XX Congresso del Partito bolscevico. Esso fu un avvenimento nodale per la storia sovietica e dello stesso comunismo nel mondo. Ad esso fecero seguito nel giugno dello stesso anno moti operai a Poznan in Polonia e, in ottobre, un’aperta rivolta di lavoratori e studenti per la democratizzazione del Paese in Ungheria.
La repressione militare russa fu immediata e sanguinosa.
In questo contesto difatti ci fu un primo attore protagonista e un secondo con la funzione di frenatore. Il primo fu Nikita Sergeevic Krusciov, originario della regione carbonifera del Donbass nell’Ucraina, segretario generale del PCUS dal 1953.
Il secondo fu il segretario generale del Partito comunista italiano Palmiro Togliatti.
Krusciov ammise e denunziò in un famoso “rapporto segreto” i crimini efferati di Stalin e gli effetti nefasti del culto della sua personalità.
Togliatti, pur non osando apertamente dissentire, cercò in tutti i modi di celare, ritardare, sminuire, dirottare la portata della denunzia kruscioviana. Entrambi, anche se in modo diversificato, furono interpreti del regime di terrore staliniano che assieme avevano promosso e gestito nei lunghi anni della loro milizia e in funzione dirigente nella nomenklatura del Komintern. L’iniziativa di Krusciov fu certo un atto coraggioso, anzi temerario, di grande portata politica epocale e mise in moto il complicato meccanismo che alla fine sarebbe sfociato nella crisi irreversibile del regime totalitario. Ciò non toglie che la personalità di Krusciov va esaminata e giudicata con severità in tutto il suo complesso.
Stalin, che fiutava e sceglieva con cura gli uomini affini a se stesso, elevò ai massimi gradi del partito Krusciov nel 1938, mettendolo a capo dell’apparato politico dell’Ucraina che era stato liquidato da crudeli epurazioni. Krusciov fu, dunque, un fedele e convinto esecutore di un autentico sistema repressivo e per spietatezza non fu inferiore al suo capo ed ispiratore.
L’Ucraina, che nel 1917 aveva proclamato una Repubblica Indipendente, resistette fino al 1920 quando fu soggiogata e annessa con la forza all’URSS. Lo spirito di autonomia era stato sostenuto e assicurato dalla piccola borghesia ucraina sostenuta anche dai religiosi cristiano ortodossi e dalla Chiesa cattolica di rito greco. Krusciov definì senza pietà “nazionalisti borghesi” tutti i ceti culturali ed i credenti che avevano manifestato e manifestavano sentimenti indipendentisti, li descrisse come” complici del fascismo polacco-tedesco” e proclamò, nell’estate dello stesso anno, “la necessità di liquidarli inesorabilmente”.
La regione non era solo il granaio, ma anche la più poderosa base industriale del regime. Una violenta opera di russificazione fu eseguita Krusciov con assassinii, vendette accurate persecuzioni fisiche e morali. Un’esecuzione così zelante elle direttive staliniste, procurò al dittatore ucraino un crescente avanzamento al vertice del partito e del comando militare. Fu Stalin, evidentemente soddisfatto della cura annientatrice con la quale Krusciov aveva saputo mantenere il potere bolscevico in Ucraina, a chiamarlo nel Politbjuro e nel Consiglio supremo di Guerra al momento dell’invasione tedesca. Egli fu nominato Tenente-Generale e incaricato del controllo politico del Sud Ovest, nelle zone cioè occupate dall’offensiva nazista che venne contrastata da un efficiente, vasto movimento partigiano. Assieme ai Marescialli dell’Unione Sovietica, da Voroscilov a Timoscenko, egli divenne uno dei più acclamati eroi della battaglia di Leningrado in cui l’Armata Rossa costrinse alla resa il generale tedesco von Paulus. Alla morte di Stalin, nel 1953, Krusciov aveva acquistato sufficiente potere e popolarità per aggredire la memoria orrenda del suo predecessore e ispiratore.
Condannando Stalin con il Rapporto segreto, del resto fondato sui fatti, Krusciov in effetti condannava, ma senza ammetterlo, l’intero sistema del quale era stato parte integrante e consapevole punta di diamante.
Togliatti, delegato al XX Congresso di Mosca, presente nella sessione segreta notturna, tentò subito una disperata manovra per impedire che le parole di Krusciov diventassero di pubblico dominio. Benché in possesso del testo scritto di Krusciov, negò la verità quando nel giugno 1956 il “New York Times” pubblicò la notizia.
Il segretario del Partito comunista italiano dichiarò cavillosamente di non ritenersi autorizzato a rendere noto “un testo che non è nostro”. E nella sua relazione al Comitato centrale di marzo dello stesso 1956, anziché affrontare la sostanza, a lui nota, dei crimini staliniani, divagò a lungo, presentò ancora il dittatore come “grande pensatore marxista” e provocò un caldo applauso dell’Assemblea. In aprile, al Consiglio nazionale egli testualmente dichiarò: “L’uomo di cui al XX Congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica, il compagno Stalin, sono stati indicati e criticati errori e difetti da lui commessi particolarmente nell’ultimo periodo della sua esistenza è un uomo che si è conquistato un posto nella storia alla testa dell’immane opera della rivoluzione di Ottobre, della costruzione della società socialista e dell’affermazione della difesa fino all’ultimo della società socialista. E questo posto, quest’uomo lo tiene e lo terrà per sempre nella storia e nella coscienza degli uomini che sanno comprendere le cose”.
Qualche settimana più tardi, in giugno, in un’intervista al compiacente Moravia, direttore di “Nuovi Argomenti“, Togliatti asserì testualmente che da quelle “storture” staliniane “non è derivata la distruzione di quei fondamentali lineamenti della società sovietica da cui deriva il suo carattere democratico e socialista”, L’Unità, organo del Pci, non pubblicò il Rapporto segreto aspettando oltre trent’anni per renderlo pubblico, nel numero del 22 febbraio 1986.
Questo il resoconto nudo e crudo di una grande tragedia che coinvolse decine di milioni di vittime e delle incongruenze dei suoi reticenti narratori.
IL TIMONE, luglio/agosto 2003 (pag.22-23)