Secondo il rapporto della Caristas il numero di stranieri regolari in Italia sarebbe cresciuto nel 2006 di 700 mila unità, con una percentuale di crescita rispetto all’anno precedente del 21,6 per cento in più. “Superiore in proporzione a quello degli USA“.
“Il cardinal Biffi disse che in Italia avremmo dovuto iniziare a far entrare solo persone provenienti da paesi che avevano una struttura sociale simile alla nostra. Lo tacciarono di razzismo. Ma che c’entra? Questo è pragmatismo, non xenofobia“.
Inutile far entrare immigrati cui non possiamo offrire nulla. Stipuliamo accordi bilaterali coi paesi di provenienza e valutiamoli prima di farli approdare in Italia. Eviteremmo molte tragedie.
di Emanuele Boffi
Tempi num. 45 del 08/11/2007 Secondo un recente rapporto sull’immigrazione stipulato dalla Caritas il numero di stranieri regolari presenti in Italia sarebbe aumentato nel 2006 di circa 700 mila unità, con una percentuale di crescita rispetto all’anno precedente del 21,6 per cento. «Da questo punto di vista – ha chiosato Vittorio Nozza, direttore di Caritas Italia, alla presentazione del rapporto – il ritmo delle presenze è addirittura superiore in proporzione a quello degli Stati Uniti». Determinare il numero degli immigrati in Italia è «complesso» dice il rapporto Caritas. Una stima che potrebbe avvicinarsi al vero è di 3.690.000 cittadini stranieri (comunitari e non comunitari) come ipotesi di massima. Basandosi su questo dato, la Caritas fa notare che la quota è pari al 6,2 per cento della popolazione italiana contro una media dei paesi europei che si attesta sul 5,6. Inoltre il rapporto 2006 registra un calo degli arrivi dall’Africa, dal Sudamerica e dall’Asia, mentre è aumentato l’ingresso di immigrati provenienti dall’Est Europa, soprattutto dalla Romania (15,1 per cento).
Sono questi ultimi, anche per i recenti casi di cronaca – l’uccisione di Giovanna Reggiani a Tor di Quinto a Roma da parte di un rom -, a intimorire maggiormente la popolazione. Ribadito l’ovvio (e cioè che rom non significa romeni), rimane il fatto che la questione della sicurezza legata alla presenza di rom, oggi, in Italia è in cima all’agenda politica. Con la trasformazione del disegno di legge in decreto da parte del governo, con il richiamo del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e del Santo padre Benedetto XVI a rispettare sia le leggi sia le persone. Secondo il rapporto Caritas i rom sono 10 milioni in tutta la Ue e 140 mila in Italia, per il 60 per cento stanziali.
In generale, l’impressione è che l’Italia risulti essere impreparata sulle politiche migratorie. Incapace, da un lato, di governare i flussi di persone che la scelgono come meta e, dall’altro, di attuare una severa politica di espulsione degli indesiderati. Sempre secondo le stime, infatti, il numero effettivo delle persone allontanate dal nostro paese è stato di 59.965 nel 2004; di 54.306 nel 2005; di 45.449 nel 2006. Cioè, a fronte di un aumento considerevole degli immigrati, sono diminuite le espulsioni.
Come fanno in Canada e Australia
«La situazione è, oggettivamente, di emergenza – dice a Tempi Giuseppe Scidà, docente di Sociologia dello sviluppo e Sociologia delle migrazioni alla Facoltà di Scienze politiche “Roberto Ruffilli” dell’Università di Bologna – quindi prima o poi bisognerà intervenire. E già sarebbe molto se si iniziasse a pensare che, almeno in parte, si dovrebbe essere noi a scegliere quali immigrati far entrare nel nostro paese». Per Scidà non è un’idea così strana e peregrina come potrebbe apparire, «sia perché ci sono esempi storici che la avvalorano sia perché esistono oggi paesi come il Canada e l’Australia che attuano tali politiche».
Per l’Australia se ne è accorto anche Beppe Severgnini che, in un recente “Lettera da Perth” sul Corriere della Sera ha scritto che «il programma comprende tre flussi: immigrazione qualificata (skilled stream), ricongiungimento familiare (family stream), perseguitati e rifugiati politici (humanitarian stream). Per il 2007-08 sono disponibili circa 150 mila nuovi visti permanenti: 100 mila per i lavoratori qualificati, 40 mila per le famiglie, il resto per i rifugiati. L’entrata senza visto comporta la detenzione; e, dopo i vari gradi di giudizio, l’espulsione. I richiedenti vengono selezionati con un sistema a punti, devono avere meno di 45 anni (a meno che portino qui l’attività) e soddisfare requisiti medici e di pubblica sicurezza. L’Australia, insomma, ha un piano: perseguito per anni, anche a costo di alcune durezze, dal governo conservatore di John Howard. L’opposizione laburista, sostanzialmente, condivide». «Severgnini – dice Scidà – riassume bene per l’Australia, ma molto simile è la situazione del Canada, che da anni attua un “Programma d’immigrazione d’affari” secondo cui si accetta sul suolo patrio solo chi viene ad investire». L’idea di “scegliere” gli immigrati non è nuova. «Già in Brasile, tra il 1850 e la Prima guerra mondiale, l’imperatore attuò una politica simile. Essendo ampie e spopolate certe zone, offrì gratuitamente la terra a chi fosse disposto a coltivarla. Prima i tedeschi, poi molti italiani (prevalentemente del nord, contadini e con famiglia) si recarono nel paese dell’America Latina accettando di lavorare i 25 ettari di terreno che l’imperatore regalava». Chiaramente, Scidà sa benissimo che «almeno per il Brasile di allora non era tutto rose e fiori. Chi arrivava poi si accorgeva che mancava l’acqua, le infrastrutture e la vita era dura comunque». Ma quel che gli preme sottolineare è un metodo e un criterio: l’immigrato deve essere funzionale al paese che lo ospita, dunque non c’è nulla di male a introdurre criteri per la sua selezione.
Servono infermieri?
L’Italia però non è né il Canada né l’Australia. «Certo – dice Scidà -. Quelli sono paesi territorialmente estesi e scarsamente popolati. Un paragone lineare con la nostra situazione è molto difficile da approntare. Eppure sul “che cosa fare” nei confronti degli immigrati, è da tenere in considerazione anche perché quel che abbiamo fatto finora è stato poco proficuo». Questo perché, secondo Scidà, «l’Italia si è sempre considerata un paese di emigranti e non di immigrati. Per cui, ancora oggi, fatica a capire la necessità di certe dinamiche di controllo dei flussi». Esempio ne è il fatto che «solo a inizio 2000 abbiamo introdotto le quote che, guarda caso, non bastano mai. Prima abbiamo fissato il limite a 50 mila, quest’anno siamo arrivati a 170 mila, ma non sono mai numeri sufficienti a rispondere alla domanda che arriva dal territorio». Insomma, occorre cambiare mentalità: non aspettare che gli immigrati arrivino e poi tamponare le emergenze, ma recarsi nei paesi d’origine e selezionare il personale utile al fabbisogno interno. «Questo – ammette il professore – certo può essere fatto solo in parte, ma almeno si comincia. Finora i nostri governi hanno stretto accordi bilaterali soprattutto con i paesi che si affacciano sul Mediterraneo: Tunisia, Libia, Albania eccetera. Sommariamente, si potrebbe dire che finora abbiamo stipulato accordi che prevedevano assunzione di immigrati in cambio di un più ferreo controllo sulle partenze dei barconi dei clandestini. Vediamo tutti la situazione. Così è una partita persa in partenza». Quindi? «Quindi il nostro ministero degli Esteri dovrebbe impegnarsi nella sottoscrizione di accordi con quei paesi che hanno un capitale umano interessante per le nostre esigenze». Tutto qui, proclama Scidà: «Ci servono infermieri? Sottoscriviamo un accordo con il tal paese per far entrare tot persone che istruiremo come infermieri, li agevoleremo per svolgere questa professione di cui noi abbiamo bisogno. Del resto, così non stiamo meglio solo noi, ma anche loro».
Una green card europea
Scidà sa bene che, con la situazione politica attuale, il ragionamento non sarebbe di facile attuazione. «La sinistra non accetterà mai un discorso di questo tipo, ne sono consapevole. Ricordo quando l’emerito cardinale di Bologna, Giacomo Biffi, disse che in Italia avremmo dovuto iniziare a far entrare solo persone provenienti da paesi che avevano una struttura sociale simile alla nostra. Lo tacciarono di razzismo. Ma che c’entra? è una questione di funzionalità, di pragmatismo. Il razzismo, la xenofobia non c’entrano nulla».
Quel che piacerebbe a Scidà è una «carta verde per l’Europa sul modello di quella americana. So che ora anche a livello europeo si sta preparando una blue card e vedremo esattamente di cosa si tratterà. Però quel che sarebbe interessante fare è la valutazione degli immigrati, anche per capire esattamente chi sono e che cosa possono offrire. Poterli valutare sotto diversi aspetti: quello economico, quello dell’esperienza lavorativa, quello dell’istruzione».