di Antonia Arslan
Così nel 1915 morì un milione e mezzo di persone
Gli armeni: un popolo leggendario, un paese che ha a che fare con l’arca di Noè e con le albicocche (Prunus armeniaca nella definizione scientifica, e «armellino», cioè frutto d’Armenia, in veneto), con chiese dalla linea essenziale, miracolosamente antisismiche, e con una misteriosa catastrofe che li ha fatti quasi scomparire dalla faccia della terra.
Gli armeni: una gente che ha qualcosa in comune con gli ebrei, compresa l’aura di popolo perseguitato e l’abilità negli affari. E che sono dotati per le professioni che hanno a che fare con la salute del corpo: molti, almeno nel Veneto, li conoscono perché hanno avuto un bravo medico (o un dentista, o un farmacista) che era di origine armena.
Gli armeni: un popolo in diaspora, diffuso in tutto il mondo, con piccole o grandi comunità che dall’Argentina all’Iran, dalla Francia agli Stati Uniti coltivano gli stessi sogni, sono perseguitati dagli stessi incubi, venerano gli stessi santi, anche se in molti casi hanno perduto l’uso della loro antichissima lingua, e si esprimono nella lingua del paese che li ha accolti.
Un popolo cristiano dal 301 dopo Cristo, convertito da Krikor Lusavoritch, san Gregorio l’Illuminatore, che lungo i secoli del Medioevo ebbe con l’Italia relazioni privilegiate e frequenti. In tutti i porti dell’Adriatico, da Bari ad Ancona, da Ravenna a Venezia, si erano stabiliti armeni che commerciavano, trafficavano, studiavano: monaci e mercanti che disseminarono l’Italia di ospizi, chiese e monasteri, che solo oggi, dopo tanti secoli, riemergono dall’oblio.
Negli ultimi anni, a Livorno come a Perugia, a Napoli come a Ravenna e, naturalmente, a Venezia, la presenza armena viene riscoperta e studiata, e questo antichissimo popolo ritrova visibilità e presenza. Si studia a Matera la chiesa di S. Maria degli Armeni, a Perugia si ritrovano affreschi del Trecento con iscrizioni armene nella chiesa di S. Matteo degli Armeni, a Livorno un convegno illustra la vita di una comunità fiorente e la settecentesca chiesa di cui, dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale, non resta che la magnifica facciata.
Ma è nel Veneto che, grazie a una presenza documentata e secolare, e a un ricco tessuto di scambi mercantili e culturali (il primo libro a stampa in lingua armena fu per esempio pubblicato proprio a Venezia nel 1512), gli armeni sono ancora presenti nella percezione comune della gente, senza soluzione di continuità fra il prima , durante i tanti secoli di conflitto- convivenza dell’Impero Ottomano con la Repubblica Serenissima, e il dopo , il periodo tempestoso degli anni dopo il genocidio, quando i superstiti si sparpagliarono per il mondo in una diaspora disperata, ma Venezia, con l’isola di San Lazzaro, donata dalla Repubblica Veneta all’abate Mechitar nel 1717, rimase uno dei fari di sopravvivenza della loro cultura.
Della cultura e dell’educazione.
Centinaia di giovani di etnia armena, provenienti da tutti i paesi del Medio Oriente, nei quasi due secoli della sua esistenza sono passati per il collegio armeno Moorat- Raphael, fondato nel 1831 da due ricchissimi mercanti provenienti dall’India, e destinato all’educazione della gioventù armena e alla modernizzazione della sua lingua e dell’antichissima cultura.
Affidato alla Congregazione mechitarista, il collegio di Venezia per quasi due secoli formò generazioni di intellettuali, che poi, tornando nei loro paesi d’origine, costituirono una nuova classe dirigente, imbevuta di ideali di giustizia e di progresso. Uno di questi era mio nonno Yerwant Arslanian, che però si fermò in Italia, e non tornò mai più in Anatolia. I foschi anni del genocidio distrussero la sua famiglia, ed egli non rivide più il suo paese lontano, i fratelli, i nipoti, né poté gustare ancora una volta l’uva d’Anatolia dal gusto inimitabile, di cui favoleggiava a me bambina. Il Metz Yeghèrn, il « Grande Male » aveva travolto anche la sua, insieme a tutte le altre famiglie della sua piccola città d’origine. Del sogno di vivere in pace nel proprio paese che questo popolo mite e fantasticante coltivava con fervore, la tragedia del 1915 distrusse ogni traccia.
Circa un milione e mezzo di persone perirono allora durante la marcia nel deserto, e negli eccidi che l’accompagnarono come una macabra rappresentazione, vittime della cinica programmazione di morte attuata dal governo dei Giovani Turchi, che prefigura esattamente il progetto nazista di «soluzione finale». Dell’intera minoranza di etnia armena nell’Impero Ottomano si salvò soltanto mezzo milione di persone, e una civiltà millenaria venne coscientemente distrutta anche nelle sue testimonianze architettoniche e artistiche, tanto che la parola «armeni», benché costantemente ostracizzata, aleggia ancor oggi come un tabù e una gigantesca rimozione collettiva nella mente del popolo turco, anche dopo novant’anni.
Nel resto del mondo una pesante coltre di oblio ha ricoperto la conoscenza di questi terribili eventi. Se il genocidio degli armeni è stato opportunamente definito « destinazione il nulla», non è soltanto perché gli ultimi sopravvissuti finirono uccisi nel deserto mesopotamico, nei dintorni della cittadina siriana di Deir- es- Zor, ma anche perché dopo il 1923 e il Trattato di Losanna sugli armeni e sul loro destino il mondo intero ha taciuto, e così ha purtroppo resi in qualche modo più agevoli i sinistri progetti degli altri genocidi che hanno insanguinato il Ventesimo secolo.
L’assenza di punizioni e di condanne del male compiuto è una potente forma di suggestione a compierne ancora, e suscita imitatori.
Fra i collaboratori di Hitler, che disse « Noi possiamo fare quello che vogliamo. Chi si ricorda oggi dello sterminio degli armeni?», c’erano ufficiali tedeschi che avevano partecipato da alleati, nel 1915, proprio all’organizzazione dello sterminio in Oriente. Una ricorrenza come quella della giornata della memoria esige, ne sono convinta, il ricordo di tutte le stragi, di tutti i genocidi del Novecento.
Il fanatismo cieco che ha insanguinato tutto il secolo ci consegna drammaticamente nudi alla miseria della nostra parte oscura, perché la possibilità del male è presente in ognuno, a dispetto di quel buonismo alla moda che tutto giustifica e delle infinite, astratte chiacchiere sul « dialogo » visto come esorcismo a tutto bastante, simbolo taumaturgico e alibi per le nostre paure. La conoscenza – e la coscienza – ci avvieranno allora a partecipare umilmente alla dolente catena del dolore che piange su tutte le vittime, e ricorda tutti i Giusti, coloro che non si voltano altrove, sperando di avere il coraggio, se necessario, di saperli imitare.
CORRIERE DEL VENETO del 26 gennaio 2005