CONVEGNO
Neurologi e scienziati discutono in Vaticano degli indizi che indicano l’assenza di vita in un paziente: il momento in cui staccare la spina.
Nonostante il decesso cerebrale alcuni muovono ancora mani e braccia; e in certi casi i medici possono anche sbagliare. Come tutelare l’individuo da errori diagnostici che potrebbero privarlo del bene più grande?
Da Roma Luigi Dell’Aglio
Quand’è che l’essere umano supera il confine tra vita e morte? E, soprattutto, quali sono i segni inequivocabili con i quali la morte si presenta? Quando il corpo umano può essere privato di uno o più organi, da trapiantare in un altro essere umano per salvarlo da una fine imminente? Non poteva essere più animato, ricco di idee e di contraddittorio scientifico, il convegno «Signs of Death» apertosi ieri in Vaticano, alla Pontificia Accademia delle Scienze. La sostanza era già indicata nel messaggio del Papa, E il dibattito si è concentrato subito sui doveri che vincolano gli specialisti che praticano il trapianto. Bisogna esplorare ancora una volta questa materia, perché i segnali neurologici e clinici che definiscono la morte di una persona siano autentici.
Il dibattito si riscalda subito. «È lecito espiantare il cuore da un uomo che respira ancora (sia pure con l’ausilio di una macchina) e i cui vitali battiti cardiaci risuonano nella sala di rianimazione?». Dà subito fuoco alle polveri il vescovo di Lincoln (Nebraska, Usa), Fabian Bruskewitz. Lui cita il caso di T.K: a quattro anni di età, ne era stata accertata la “morte cerebrale” ma è sopravvissuto altri quindici anni, certo non nelle condizioni di un individuo normale. E allora, incalza, che senso ha la miriade di definizioni che sono state date della “morte cerebrale” e le dozzine di “parametri” neurologici di cui si parla nella comunità scientifica? «Estrarre un cuore che pulsa è omicidio, secondo alcuni tribunali dello Stato del Colorado», aggiunge il vescovo del Nebraska. «E il donatore finisce per essere un involontario suicida». E qui turba almeno una parte dell’uditorio dicendo che al donatore vengono somministrati farmaci paralizzanti per evitare lo choc dei chirurghi al momento dell’espianto. Del resto, ammette, non avrebbe senso trapiantare un cuore che non fosse vivo. «Ma, conclude, non è arroganza avocare a noi il diritto di decidere se qualcuno è morto?».
Conrado Estol, 46 anni, è un brillante esperto di neuroscienze, nato e formato negli Usa, che ora dirige il Centro Neurologico de tratamiento y rehabilitacion di Buenos Aires. Certo che al donatore viene prelevato un cuore che batte, ma questa non è una prova che il donatore è vivo. «La scienza non ha dubbi. I dubbi li ha chi non conosce che cos’è la morte cerebrale. E pensa che sia una “morte incompleta”. Attenzione: è facile fare confusione tra coma e morte cerebrale. Questa si accerta rigorosamente con esami come l’angiografia cerebrale o il doppler endocranico. È facile dire che qualcuno è morto quando il suo polso non batte più. Ci possono essere invece reazioni fisiche anche in chi è “cerebralmente morto” e sta per essere avviato all’espianto».
E mostra una serie di filmati che mettono i brividi. Un pollice che si piega. Una gamba che si alza. E poi la sequenza più dura da vedere: il cosiddetto “segno di Lazzaro”. Diagnosi di morte cerebrale. Il paziente è disteso. Un medico gli solleva appena la nuca, e lui porta le braccia in avanti come se volesse buttarsi al collo di qualcuno, chiedere aiuto, e poi le incrocia sull’addome. Il professor Estol non mostra certo queste immagini per sadismo. Vuole spiegare che – almeno nella prime 24 ore – i movimenti riflessi sono compatibili con lo stato di morte cerebrale ma non significano affatto che il paziente sia ancora in vita. Se non subisse l’espianto, morirebbe ugualmente “tra qualche giorno”.
L’intervento di Estol provoca una valanga di domande. I criteri in base ai quali si dichiara morto il cervello vengono universalmente accettati e applicati? «Nell’American Neurology Association c’è generale consenso», è la risposta. E se in una o più singole cellule cerebrali c’è ancora vita residua? Voi che cosa ne sapete?, domanda il vescovo Bruskewitz.
Risposta: «Anche se uno muore per infarto, ci possono essere cellule residue ancora buone. Non vuol dire nulla». Può darsi, replica il reverendo, ma non possiamo non distinguer e la morte clinica dalla morte teologica.
Parla il professor Cicero G. Coimbra, del dipartimento di neurochirurgia dell’Università federale di San Paolo in Brasile. Secondo lui non tutta la comunità scientifica è sulle posizioni dei neurologi Usa. «Allora può capitare di essere considerati vivi da un medico e morti da un altro» obietta. A Coimbra si associa Andrew Armour, dell’Università e dell’Hopital du Sacré Coeur di Montreal. Un segno della morte cerebrale è anche l’ipotermina, cioè la bassissima temperatura, secondo Estol. Ma lui, Armour, ha accertato che molti pazienti, portati artificialmente in ipotermia nel corso di un intervento di cardiochirurgia, poi si sono ripresi benissimo.
Anche la prova del respiro può essere alterata: il paziente può aver avuto una patologia polmonare e il medico del reparto di rianimazione non ne è al corrente. «Ma se il medico è bene informato, questo non avviene», replica Estol, e osserva che in questo dibattito gli interlocutori gli sottopongono “i casi strani”, cioè le “eccezioni”. Come i casi di madri “morte cerebralmente” che hanno portato a termine la gravidanza, segnalati dalla psichiatra canadese Ruth Oliver. Robert Naqué, dell’Institut de Neurobiologie Alfred Fessard, dice che è il concetto di «morte cerebrale a far paura». Il professor Jean-Didier Vincent, neurologo francese di grande fama, sdrammatizza l’ “effetto Lazzaro”: «Quella scena molto impressionante che abbiamo vista è proprio la prova lampante della morte cerebrale, è un riflesso normale di questa condizione».
Il professor Estol, chiamato in causa più volte, non nasconde che esistano condizioni che possono simulare la morte cerebrale. Ma ripete: i luminari sostengono la morte cerebrale, diagnosi che nel 99,999 per cento dei casi è sicura. La prima giornata del dibattito ha dato sfogo a tutti gli interrogativi. La seconda ed ultima, quella di oggi, tirerà le somme. Bisogna garantire che i criteri diag nostici siano sempre più perfezionati, condivisi, applicati bene. E che non si commettano errori. In un reparto di rianimazione, contiguo a una sala trapianti, un errore di diagnosi costa troppo caro al paziente.
Avvenire 4 Febbraio 2005