La tragedia delle foibe

C’è un capitolo della storia italiana, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, di grande delicatezza ma di molto rilievo. Non sono mancati, su questa vicenda, silenzi, strumentalizzazioni e negligenze. Si tratta della tragedia che travolse decine di migliaia di italiani d’Istria, Dalmazia e Venezia Giulia costretti ad abbandonare le loro terre e le loro case dalla violenza delle milizie jugoslave di Tito.

Nella tragedia di queste popolazioni ci fu un aspetto ancora più drammatico:  i massacri delle foibe. Le cave carsiche, frequenti in Istria, divennero, a partire dall’8 settembre del 1943, le fosse comuni (naturali) di migliaia di italiani, vittime innocenti della pulizia etnica slava. Due sono i periodi in cui avvenne il fenomeno degli infoibati – come si dice -, cioè del seppellimento di persone (fucilate o in altro modo giustiziate) nelle foibe e nelle cave di bauxite ad opera degli insorti guidati dal Movimento resistenziale sloveno, croato e italiano in Istria e nella Venezia Giulia. Il primo riguardò l’Istria e si svolse dal 9 settembre al 13 ottobre 1943, subito dopo l’armistizio firmato da Badoglio. Allora quasi tutta la penisola incuneata fra Trieste e Fiume cadde sotto il controllo di partigiani di quella regione. Il secondo periodo di massacri avvenne tra il 1° maggio e la metà di giugno del 1945 e toccò Trieste e Gorizia (con i rispettivi territori), amministrate per 45 giorni dalle truppe jugoslave.
L’esodo forzato degli italiani e i massacri delle foibe (tra loro connessi in una logica di terrore sulle popolazioni non slave) sono ora meno dimenticati del passato. Infatti, dallo scorso anno, in Italia è stato istituito il “Giorno del ricordo”, in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata e delle tristi vicende del confine orientale. L’Italia “riconosce il 10 febbraio quale “Giorno del ricordo” al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”.
La storia di questo lembo di terra orientale conteso e la tragedia vissuta dalle sue popolazioni, sono uscite dalla dimenticanza. Questa vicenda è frutto di quello scontro di nazionalismi che dagli inizi dell’Ottocento ha provocato in Europa, e soprattutto nelle sue regioni orientali, profondi e drammatici rivolgimenti. La presenza in zone come l’Istria di etnie diverse (italiani, croati, sloveni…) non consentiva di omologare i territori ad una sola appartenenza nazionale. È una storia che si è più volte ripetuta nei Balcani e altrove, specie nelle terre dei grandi imperi, come quello asburgico o quello ottomano. Quali alternative? O vivere insieme tra differenti comunità oppure scacciare i diversi. La prima opzione appariva inaccettabile ai nazionalismi. La seconda opzione è quella della “pulizia etnica”, che si pratica da due secoli in Europa e negli ex territori ottomani. E la pulizia etnica si fa con la spada o con l’emigrazione forzata. È una storia che comincia con l’indipendenza greca, agli inizi dell’Ottocento, e non è ancora finita.
Subito dopo la fine della Prima Guerra Mondiale nell’Istria ex austro-ungarica, al momento della vittoria italiana, risiedevano circa duecentomila croati e sloveni autoctoni, il 58 per cento della popolazione totale. Gli slavi erano in prevalenza contadini, mentre gli italiani della regione erano lavoratori dell’industria, artigiani, commercianti e proprietari terrieri, presenti più o meno compattamente nelle cittadine costiere e in alcuni centri maggiori dell’interno o poco lontani dalla costa. Ancor prima della firma del Trattato di Rapallo del 1920 che assegnò definitivamente l’Istria all’Italia, quando ancora la regione era soggetta al regime di occupazione militare, la popolazione dell’Istria si trovò di fronte allo squadrismo italiano in camicia nera, parzialmente importato da Trieste, che in quella regione si manifestò con particolare aggressività e ferocia. Si calcola che ben 60.000 slavi furono costretti a fuggire nel resto della Jugoslavia e nelle Americhe. Il regime fascista poi condusse una dura e violenta politica di italianizzazione delle minoranze slave (come delle altre minoranze non italiane). Era un messaggio chiaro:  se si voleva vivere in Italia, bisognava perdere il proprio carattere e la propria cultura nazionali. Insomma non convivenza, ma italianizzazione.
Sono queste le premesse degli avvenimenti tragici che si verificarono con la fine del fascismo. La stragrande maggioranza degli esuli istriani slavi si schierò sui fronti di due estremismi:  andarono a rafforzare le file comuniste oppure quelle nazionaliste degli ustascia, opposti ma accomunati dall’odio contro l’Italia. Il movimento comunista jugoslavo – sia notato per inciso – aveva una forte tendenza nazionalista dal marcato sentimento anti-italiano, come dimostra la politica condotta nei riguardi dell’Istria, della Venezia Giulia e Dalmazia da alcuni suoi leader negli anni della Resistenza, specie dal massimo esponente del comunismo sloveno Edvard Kardelj. Questa politica nazionalista e espansionista fu responsabile delle vicende che travolsero le popolazioni istriane a partire dall’armistizio italiano:  la conseguenza fu l’esodo di 200-250.000 persone:  italiane ma anche croate e slovene.
Uno di questi esuli, il rovignese Sergio Borme, ha scritto nel 1996 sulla questione delle foibe:  “Molti commentatori hanno ritenuto di poterla indicare nell’ideologia comunista dimenticando che il “confine sul Tagliamento” era stato l’obiettivo del nazionalismo slavo molto prima che il regime jugoslavo nascesse. Facendo proprio quell’obiettivo, l’ideologia comunista si metteva al servizio del nazionalismo e non viceversa”.
Alla notizia della capitolazione militare italiana nel settembre 1943, in Istria ci fu una generale, pressoché spontanea, rivolta popolare che coinvolse in eguale misura le popolazioni italiane nei centri costieri e quelle croate e slovene nell’interno. Gli insorti mostrarono simpatia e solidarietà con le truppe italiane che avevano manifestato la propria gioia per la “fine della guerra”, ma non verso i gerarchi fascisti. Fu un breve momento di solidarietà interetnica, che presto si dissolse di fronte all’occupazione tedesca.
Le bande slovene e croate, in lotta contro i nazisti, iniziarono una sanguinosa campagna sciovinistica che terrorizzava gli italiani, fascisti e non. Su tutto, poi, incombeva la grave minaccia tedesca. Sorsero movimenti insurrezionali antitedeschi in alcune cittadine dell’Istria e si registrarono i primi caduti italiani e croati fra gli insorti. Tuttavia, non era facile per un italiano farsi partigiano in Venezia Giulia. In altre parti d’Italia per sfuggire o combattere i nazisti ci si arruolava nelle formazioni partigiane, ma nel litorale adriatico non era lo stesso. Arruolarsi nelle bande di Tito significava assoggettarsi a un altro nemico dell’Italia. Gli jugoslavi volevano il controllo assoluto della guerriglia e dunque le formazioni partigiane italiane andavano smembrate.
In concomitanza con l’insurrezione cominciarono gli arresti dei gerarchi fascisti, di podestà e di altri funzionari ma anche di semplici iscritti al fascio. Fra gli arrestati vi furono persone indicate come responsabili di collaborazionismo con l’occupante tedesco. La maggioranza degli arrestati era formata da quei gerarchi fascisti locali che non erano sopportati da popolazioni vittime delle loro persecuzioni e vessazioni pluriennali. Nel mucchio capitarono però anche “fascisti” che non avevano commesso vessazioni o con i quali i delatori avevano antichi conti personali da regolare. Gli arresti, preludio degli efferati anche se non ancora progettati infoibamenti, avvennero quasi tutti fra il 13 e il 25 settembre del 1943. Nel 1945 gli assassinî degli italiani da parte degli jugoslavi rivelarono il loro carattere di politica d’intimidazione per spingere all’abbandono delle terre rivendicate da Belgrado. Milovan Gilas, braccio destro di Tito nella guerra partigiana (che poi ruppe con il leader jugoslavo), ha dichiarato nel 1991:  “Era nostro compito indurre tutti gli italiani ad andare via con pressioni di ogni tipo. E così fu fatto”. Gli italiani pagavano il prezzo della “guerra fascista”. Abbandonarono le loro terre, accolti in Italia non sempre da una solidarietà generale. In questa vicenda si stagliò la figura del Vescovo di Trieste e Capodistria, mons. Antonio Santin, che, per stare accanto alle popolazioni provate, rifiutò la divisione etnica della sua diocesi.
Quale fu la reale entità della pulizia etnica nelle foibe non è dato ancora saperlo. Le cifre sono approssimative anche perché molte anagrafi del luogo sono state fatte sparire nel dopoguerra. Si tratta comunque di migliaia di persone e l’intensità del dramma vissuto non può certo essere modificata da questa forzata imprecisione. Quello che va notato è che la tragedia subita dagli italiani d’Istria, Dalmazia e Venezia Giulia si inserisce nel capitolo più generale di quegli spostamenti forzati di popolazione con le conseguenti efferatezze di cui la storia del Novecento è piena soprattutto in aree geografiche dove convivono e coabitano popolazioni di etnia diversa. È il rifiuto, frutto del nazionalismo, di realtà complesse e di convivenza per lasciar spazio a omologazioni facili.
La strumentalizzazione, anche in sede storica, ha inevitabilmente fatto delle foibe il monumento alla divisione e all’intolleranza. I documenti e le testimonianze, che a fatica vengono fuori in anni recenti anche da parte ex jugoslava, dimostrano che il problema delle foibe è una reale, dolorosa ferita, un problema che merita massima attenzione dagli storici. Bisogna uscire dalla grande confusione che ha circondato questa tragica vicenda. Una confusione favorita da quel silenzio mantenuto per oltre mezzo secolo dalle autorità dell’ex Jugoslavia e dalla chiusura pressoché totale degli archivi dei servizi segreti che operarono durante la guerra. In questi ultimi anni anche nelle repubbliche di Slovenia e Croazia sono emersi i primi documenti. E oggi lo storico ha maggiori possibilità di raccontare questa tragedia che finalmente ha trovato, anche nell’opinione pubblica, un’occasione di memoria attraverso il “Giorno del ricordo” del 10 febbraio.


MARCO IMPAGLIAZZO ©L’Osservatore Romano – 10 Febbraio 2005)