APRIAMO GLI OCCHI
È arrivato l’atteso comunicato. Al Zawahiri dà del “ciarlatano” a Benedetto XVI e incita i musulmani alla guerra santa contro i «crociati» delle truppe Onu in Darfur. Intanto giungono notizie non meno inquietanti da Ginevra, sede del Consiglio per i diritti dell’uomo. In seno a tale organo vi è un ufficio per la lotta contro la xenofobia ed il razzismo che, a quanto pare, è diretto da un «esperto»: il senegalese Doudou Diene, evidentemente musulmano. Egli ha preparato un rapporto da sottoporre al Consiglio, con il quale si rimprovera al Papa di aver con le sue parole «incoraggiato le tendenze che vogliono identificare l’Islam ed il terrorismo»…
Leggi tutto il dossier. Ne vale la pena.
1) Al Qaida minaccia il Papa: ha offeso Maometto
Al Zawahiri dà del ciarlatano a Benedetto XVI e incita i musulmani alla guerra santa contro i «crociati» delle truppe Onu in Darfur
Al Qaida l’aveva preannunciato qualche giorno fa e ieri è accaduto. Il numero due dell’organizzazione terroristica islamica, il medico egiziano Ayman al-Zawahiri, è tornato a investire di insulti il Papa e la cristianità (ma anche il presidente degli Stati Uniti George W. Bush) in un video di 17 minuti prodotto da as-Sahab, il braccio mediatico di Al Qaida, che nella serata di ieri ha trovato spazio sulla rete internet e successivamente è stato trasmesso dalla rete televisiva pan-araba Al Jazeera.
Papa Benedetto XVI è stato qualificato di «ciarlatano» a causa delle sue recenti affermazioni sull’Islam durante un discorso in Germania lo scorso 12 settembre. «Questo ciarlatano – ha detto per la precisione Zawahiri dal suo rifugio clandestino, dove compariva illuminato da una lampada, con accanto un fucile e un drappo con la scritta «Nessun Dio al di fuori di Allah» – ha accusato l’Islam di essere incompatibile con la razionalità, dimenticando che la sua stessa Cristianità è inaccettabile a una mente dotata di sensibilità».
Proprio ieri il quotidiano Avvenire, in vista di questo nuovo «evento» mediatico, aveva invitato i mezzi di comunicazione alla prudenza. «Non si tratta di censura preventiva – scriveva il quotidiano dei vescovi -, ma di una obiettiva valutazione delle conseguenze a breve e a lungo termine. Come sottovalutare il potere di fascinazione che i due leader di Al Qaida esercitano dal video su una fetta delle masse arabe? Come non vedere che un discorso offensivo o addirittura minatorio rivolto alla massima autorità religiosa cristiana seminerà inevitabilmente altra discordia, se non atti di intolleranza?».
Nel video Zawahiri ha effettivamente gettato nuova benzina sul fuoco della contrapposizione con i supposti nemici dell’Islam. Non solo offendendo il Papa e la religione che rappresenta, ma anche esortando i musulmani a combattere una «guerra santa» nel Darfur (la regione del Sudan dove milizie musulmane vessano le popolazioni locali) «contro le truppe delle Nazioni Unite», definite «crociate».
Il vice di Osama Bin Laden se l’è presa anche con Bush. Con tono provocatorio e irridente Zawahiri si è rivolto al presidente degli Stati Uniti sostenendo che sta perdendo la guerra contro il terrorismo. Gli attacchi da noi condotti, ha affermato, «ti stanno togliendo la soddisfazione di placare la tua sete di vendetta».
Il Giornale n. 231 del 30-09-06 pagina 11
2) L’Onu filo-Islam dà lezione al Papa
Non sappiamo come Benedetto XVI abbia preso la notizia che nella città pakistana di Lahore hanno deciso che debba dimettersi per manifesta incapacità ad esercitare la sua delicata funzione. La decisione è stata solennemente adottata da un’assemblea di mille religiosi e saggi musulmani riuniti dall’Organizzazione Jamaat al Dawat. Naturalmente la prova dell’inadeguatezza del pontefice alla sua carica è data – secondo quegli uomini di Dio e della Scienza – dal fatto che egli avrebbe «fomentato l’ostilità tra le religioni e pronunziato frasi offensive». Nella dichiarazione dell’assemblea dei mille ce n’è anche per l’Occidente nel suo insieme che – si minaccia – «dovrà subire serie conseguenze per il suo atteggiamento nei confronti dell’Islam. È perciò meglio che si affretti a cambiarlo».
Affermazioni del genere non costituiscono una novità, anche se non devono esser prese alla leggera, perché è noto che vi sono teste calde in tutti gli ambienti, pronte a prendere alla lettera ogni fatwa e ogni anatema di personaggi considerati autorevoli ed a ritenersi autorizzate a passare alle vie di fatto.
Non meno interessante ci sembra un’altra notizia proveniente da Ginevra, sede del Consiglio per i diritti dell’uomo. In seno a tale organo vi è un ufficio per la lotta contro la xenofobia ed il razzismo che, a quanto pare, è diretto da un «esperto»: il senegalese Doudou Diene, evidentemente musulmano. Egli ha preparato un rapporto da sottoporre al Consiglio, con il quale si rimprovera al Papa di aver con le sue parole «incoraggiato le tendenze che vogliono identificare l’Islam ed il terrorismo».
Il signor Diene non ha alzato il ditino soltanto per fare dei rimproveri al Pontefice romano, egli ha anche dei consigli, sia pure retrospettivi, da dargli. Benedetto XVI – egli sostiene – avrebbe nella sua lezione di Ratisbona dovuto rappresentare non solo il punto di vista di Manuele II Paleologo, ma anche quello del saggio persiano con cui dialogava. Vedremo se il Papa ne terrà conto nella sua prossima lezione universitaria o magari in un’enciclica, tanto più che la ramanzina di Diene è stata sottoscritta anche dal relatore speciale sulle questioni della libertà religiosa: un certo Asma Jahangir, anch’egli funzionario del Consiglio dei diritti dell’uomo. Il rapporto dei due «esperti» sarà sottoposto al plenum del Consiglio che si riunirà il 6 ottobre.
Si potrebbe liquidare anche questa vicenda giudicandola, qual è, semplicemente grottesca. Sino ad ora nessuno degli innumerevoli carrozzoni che formano il sistema delle Nazioni Unite aveva preso l’iniziativa di affrontare e risolvere questioni teologiche. Era ora che ciò avvenisse. In realtà le cose sono molto più gravi, e non soltanto per il fatto che il gruppo afro-asiatico detiene la maggioranza nel Consiglio e si può prevedere quale sarà il suo voto nella sua prossima riunione. Il Consiglio, partorito faticosamente sulle macerie di una precedente Commissione, ha dimostrato di essere di essa ancora peggiore. Creato per affermare e far rispettare i valori di tolleranza e di libertà a cominciare da quella d’opinione, è stato nuovamente distorto e viene utilizzato proprio per tentare di imporre limiti ai principi liberali e condannare chi li sostiene.
Di fronte all’offensiva dell’intolleranza dei mille «saggi» o dei pretesi «esperti» onusiani, sarebbe opportuno chiarire anzitutto a questi ultimi il valore delle parole: una discussione teologica non ha nulla a che fare con la xenofobia o con il razzismo, e le idee, religiose o d’altra natura, non dipendono e non sono connesse con nessuna razza. Ma poiché il Consiglio per i diritti dell’uomo come le gambe dei cani non si può raddrizzare, non sarebbe più semplice, più sano e più economico, dato che i suoi esperti ed i relatori speciali sono pagati, sopprimerlo una volta per tutte? A sostenere le sue nobili cause bastano i mille saggi di Lahore.
di Alberto Indelicato
Il Giornale n. 231 del 30-09-06 pagina 12
3) L’inferno non è vuoto
Continua il massacro dei musulmani africani nel Darfur, complice il silenzio del mondo arabo. Mentre il palazzo di vetro temporeggia. Il regime islamista protetto da Cina e Russia. E dall’indifferenza del mondo
C’è una forza di pace targata Onu pronta a partire per la regione sudanese del Darfur, per garantire la fine delle violenze che da tre anni colpiscono la popolazione civile inerme con la complicità del governo centrale. Allo stanziamento di quei ventimila caschi blu si oppongono, guarda un po’, proprio le autorità sudanesi, che preferiscono la presenza dei settemila soldati dell’Unione africana. Ossia una forza, per sua stessa ammissione, insufficiente e mal equipaggiata, il cui mandato, in scadenza il 30 settembre, è stato esteso in extremis fino alla fine dell’anno. Con la promessa di un rafforzamento delle truppe ad opera degli altri stati africani e di finanziamenti dalla Lega Araba, il Sudan ha ottenuto di rimandare ancora una volta l’ingresso dei caschi blu sul proprio territorio. Il problema è solo posposto, tuttavia, per una regione, grande quanto la Francia, che ha già pagato un tributo altissimo nell’ennesimo conflitto che si avvita nello stato africano. Almeno duecentocinquantamila i morti e due milioni gli sfollati. L’Onu esprime preoccupazione per quella che definisce la «peggiore crisi umanitaria in atto», salvo poi vincolare lo stanziamento dei suoi soldati al placet del governo di Khartoum. L’amministrazione Bush parla esplicitamente di genocidio. Cina e Russia al Consiglio di sicurezza evitano qualunque mossa che possa irritare il governo sudanese. Sullo sfondo il prolungato silenzio del mondo arabo di fronte allo sterminio sistematico di migliaia di musulmani.
La casella giusta per il conflitto che insanguina il Darfur è quella dei “conflitti dimenticati”. Un’etichetta fastidiosa per la coscienza come i lavavetri al semaforo e che in Africa non è certo una rarità.
Il calvario della popolazione della regione, quasi totalmente musulmana ma di etnia nera, inizia nel 2003, quando gruppi di ribelli sfidano il governo per protestare contro la discriminazione di cui sono vittima rispetto agli arabi, per chiedere il rispetto delle loro terre e maggiori aiuti allo sviluppo. Il timore che la ribellione del Darfur possa fondersi con quella che oppone il nord al sud del paese (una guerra civile ventennale che si concluderà nel 2005 lasciandosi alle spalle un milione e mezzo di morti) spinge al gioco pesante quel governo che ancora siede nella Commissione Onu per i diritti umani (solo nel 2005, a seguito della riforma dello screditato Consiglio, il Sudan non avrà la faccia di ripresentarsi).
LO STERMINIO DI CIVILI
La discriminazione verso le popolazioni musulmane che hanno la sola colpa di non essere arabizzate si intensifica e diventa vero e proprio sterminio di civili. Milioni di persone lasciano terrorizzate le proprie case per sfuggire alla violenza cieca e sistematica dei janjaweed (letteralmente “diavoli a cavallo”), milizie di etnia arabizzata, armate come i più sofisticati eserciti e crudeli come i più tribali assassini. Le testimonianze dei sopravvissuti ai massacri sono raccapriccianti. Il copione è sempre lo stesso. Prima i bombardamenti del governo su presunti obiettivi sensibili e poi i raid dei diavoli a cavallo: vecchi oltraggiati, bambini uccisi contro i muri delle case, donne deflorate con lunghi coltelli o stuprate ripetutamente davanti alle proprie famiglie. Il governo centrale, da più parti accusato esplicitamente anche di armare le milizie, è quanto meno riconosciuto colpevole dalla comunità internazionale di non fare abbastanza per fermare le violenze. Né lo stanziamento delle truppe dell’Unione africana iniziato nel 2004, né l’accordo di pace firmato nel maggio scorso tra governo e una parte dei ribelli sono stati sufficienti a far tornare la situazione alla normalità. Secondo un recente rapporto di Human rights watch (Hrw) il governo sudanese continua ancora oggi a bombardare il Darfur.
Dopo la recente estensione del mandato delle truppe dell’Unione africana il Consiglio di sicurezza resta inchiodato sulla risoluzione 1706 che subordina l’arrivo dei caschi blu al consenso del governo sudanese, che si oppone paventando il rischio di «un nuovo colonialismo» e gridando al «complotto sionista». La settimana scorsa al Palazzo di vetro il presidente statunitense George Bush ha denunciato la passività delle Nazioni unite. A fargli eco c’è anche la stampa di simpatie non certo conservatrici, come il New Republic, bibbia del pensiero liberal, il New York Times e l’Herald Tribune. Il caso del Darfur comincia a fare breccia nell’opinione pubblica, americana e non solo. Il 17 settembre decine di manifestazioni si sono svolte in tutto il mondo e per fermare le atrocità e soprattutto sollecitare un’azione dell’Onu. Alla causa ha prestato il proprio volto anche George Clooney, intervenuto alle Nazioni unite. Il Darfur sembra uscire dall’ombra. Ma questo basta?
La chiave del complicato rebus potrebbe essere la Cina. Insieme a Mosca, Pechino si è astenuta nel voto della risoluzione 1706. Un segnale chiaro di sostengo al governo sudanese, che guarda caso è un importantissimo fornitore di petrolio per il celeste impero. Pechino ha acquistato nel 2005 il 50 per cento di tutto il petrolio esportato da Khartoum. Fino ad ora Pechino ha usato il suo potere al Palazzo di vetro per proteggere regimi come lo Zimbawe, l’Eritrea, il Myanmar e lo stesso Sudan. Ultimamente è in prima linea nell’opposizione alle sanzioni contro l’Iran nucleare degli ayatollah. Dall’altra parte partecipa con mille uomini alla missione dell’Onu in Libano. La Cina della crescita economica record, insommma, si muove per assumere sempre maggior peso nella politica mondiale. E lo fa, evidentemente, a modo suo. Il disinvolto cinismo con cui sminuisce i massacri nel Darfur e conclude accordi economici col Sudan non fa certo ben sperare. È per questo paese che Romano Prodi ha chiesto con insistenza la revoca dell’embargo di armi da parte dell’Europa.
di Borselli Laura
Tempi num.37 del 28/09/2006