di Vittorio Mathieu
Il suicidio della Rivoluzione, opera di Augusto Del Noce oggi riproposta dall’editore Aragno, fu già ripubblicata una volta, due anni dopo la morte del filosofo (30 dicembre 1989), allorché il suicidio della rivoluzione bolscevica era ormai avvenuto.
Quando uscì per la prima volta (aprile 1978) difficilmente poteva essere apprezzato dal gran pubblico in tutti i suoi aspetti; che sono principalmente due: «il ripensamento della filosofia» che «diventa il primo problema della politica d’oggi» e l’interpretazione del gramscismo come «continuazione», sotto segni ideologici opposti, dello stesso processo dissolutivo che si era manifestato nella società borghese dopo l’illuminismo.
Metapolitica
Il primo aspetto è caratteristico della «metapolitica» di Del Noce.
Muovendo da «-ismi» tutti speculativi, egli arriva a spiegare manifestazioni politiche apparentemente contingenti (come aveva fatto Hegel in Fenomenologia dello spirito, per esempio, a proposito del Terrore).
Tipico di Del Noce, però, è partire, non dalla grande filosofia, ma dalla piccola, e anche dalla minima; a lui vicina, a volte, per ragioni personali.
Per esempio, Franco Rodano, di cui il giovane Del Noce era stato seguace, è Il cattolico comunista che, nel libro del 1981, diviene protagonista di una situazione archetipica.
Ma Rodano è già un gigante rispetto a personaggi come Luigi Ornato, sui quali Del Noce era capace di tenere un’intera conferenza (magari interrompendo una partita di biliardo).
Un tempo io attraversavo due volte al giorno via Luigi Ornato a Torino e non sapevo neppure che fosse stato un filosofo. (Nonostante ciò fui collocato all’unanimità al primo posto in un concorso di Storia della filosofia). Seppi chi era per la prima volta da Augusto Del Noce.
Ornato, un «modernista» ante litteram, oltre che da Torino veniva a Del Noce da una citazione di Gentile mediata da Gramsci: e Gentile è il vero protagonista dell’opera di cui stiamo parlando.
L’originalità di Del Noce è fare di Gramsci, in un clima ancora tutto permeato di Sessantotto, il pensatore epocale, che annunzia il suicidio della rivoluzione.
Che il pensiero di Gramsci fosse «dissolutivo» di quel comunismo in cui credeva era opinione anche dei comunisti ortodossi (alla Togliatti): vedevano Gramsci come il fumo negli occhi. Ma le ragioni di Del Noce sono tutte diverse.
Gramsci è generalmente considerato come colui che, sulla scorta di una formazione crociana, denuncia nella democrazia l’ultimo tentativo della borghesia di conservare il dominio, come erede dell’assolutismo.
Conquistando l’egemonia, il comunismo sarebbe destinato a portare la borghesia a un suicido indolore, sostenuto dal consenso.
Su ciò Del Noce è d’accordo.
Lo è nella misura in cui la società borghese ha creduto di raggiungere la libertà liberandosi dai «valori tradizionali», in particolare cattolici.
Il rimedio, allora, sarebbe una «laicità» erede della rivoluzione francese senza Robespierre (la laicità di molta Francia di oggi).
A questa laicità aveva derogato il fascismo, nel ’29; eppure il fascismo era rimasto l’alleato occulto del crocianesimo, che aveva assunto l’egemonia culturale quando Mussolini aveva il dominio politico.
Denunciando questa situazione, Gramsci presumeva di mettere finalmente a morte l’assolutismo, sostituendo semplicemente all’egemonia crociana l’egemonia comunista.
Infatti, dopo il ’68, la mentalità comunistica (meglio se non dichiarata) s’insinua e s’insedia nella cultura, dall’Università alla scuola primaria (quella che Lucio Lami chiamò nel suo libro del ’76 La scuola del plagio: e in parte tale resta oggi).
Attraverso questo processo Gramsci voleva raggiungere un totalitarismo consensuale, con pochissime maniere forti: quindi non staliniano.
La critica di Del Noce è che, in tal modo, «il gramscismo non colpisce affatto la borghesia». Anzi, «le fornisce l’occasione di realizzarsi allo stato puro», aiutandola a liberarsi di quei «valori» platonicamente oppressivi, che nel Novecento vengono attaccati da ogni parte.
Ma – osserva Del Noce – questo rovesciamento di tutti i valori, che si vuole più autentico di quello di Nietzsche, non porta, come sperava Gramsci, al «nuovo Principe» (cioè al machiavellico partito comunista), bensì all’uomo senza fede del Guicciardini (opposto al Machiavelli da Da Sanctis, in un celebre saggio ricordato da Gramsci).
Comprensibile, dunque, il «crociogramscismo accademico» di molti ex crociani, allineati sul comunismo, come tanti ex fascisti di sinistra.
Collante di tale alleanza è l’«immanentismo», che accetta la Chiesa cattolica purché perda la fede nel trascendente e si trasformi in un centro sociale.
Del resto, il Vaticano II, quale è visto dai «nuovi preti», non è forse un suicidio mancato?
Il vero ispiratore
Ci si può domandare che cosa rimanga, oggi, di questa acuta riflessione delnociana.
Rimane molto.
In storia della filosofia rimane l’individuazione del vero ispiratore di Gramsci, Giovanni Gentile, che si afferma contro Croce come il vero filosofo dell’immanenza.
Per lui il fatto – per esempio il deliberato legislativo – essendo sempre il male relativo, non lega neppure per un istante la libertà dell’atto.
Quindi, in nome dell’atto libero, Gentile può essere visto altrettanto bene come il sostenitore di una conservazione fascista, o di una borghesia risorgimentale, o di una eversione sessantottina (dove, infatti, le deliberazioni di un’assemblea non la legavano neppure per un minuto).
Con il suo idealismo senza le idee, Gentile è, dunque, più antiplatonico di Nietzsche e più senza legge di Marcuse. («La libertà o è asessuata o non è», dice il Sistema di logica). Questa lettura dell’attualismo, data anche da me, da Del Noce è giudicata «eccellente».
Quindi Gentile è davvero il punto d’arrivo rovesciato di una filosofia cominciata con Platone.
Ciò portò Gentile a una fedeltà che fu per lui un suicidio cosciente; porterà il gramscismo a un suicidio inconscio; e porterà la società tecnologica, del tutto secolarizzata, al nichilismo (annunziato da Heidegger, ripreso dal Severino).
«Corretta» ossessione
E’ questa ancora la situazione d’oggi?
In effetti – nonostante la caduta del «muro» e, forse, grazie a essa – la religione laicistica si presenta ancora come religione della libertà; l’oblio della trascendenza riduce ancora molto cristianesimo a solidarietà sociale; l’ossessione del «politicamente corretto» perpetua quel «divieto di far domande» di cui parlava il Voegelin.
E la concezione della politica, a destra come a sinistra, è spesso ancora quella del particulare del Guicciardini, senza la visione di scopi universali, propria del Machiavelli.
Perciò la lettura del Suicidio della rivoluzione è ancora attuale.
Inoltre ho potuto constatare quanto sia attuale, fra gli storiografi del Novecento, il problema del fascismo, in rapporto agli altri totalitarismi; e l’interpretazione di Del Noce, consonante con quella di De Felice, conserva interesse.
Ma soprattutto, Il suicidio della rivoluzione ci aiuterà a vedere Giovanni Gentile nella sua tragica grandezza.
E a vedere nel Sessantotto, di cui portiamo ancora le cicatrici, quel fuoco che, consumando il resto, consuma se stesso.
(C) ilGiornale, 6 settembre 2004
courtesy of Andrea Tornielli