“Se per sostenere un’idea si cambia la realtà, significa che quell’idea non è formidabile”
Genova. “Tanti buchi fatti sul tavolo di cucina, ecco quel che mi ricordo”. Il padre ritornava la sera dall’Italsider, operaio tutta la vita, e quel bambino con gli occhi a mandorla che a tre anni era sempre stanco svogliato pallido pallido lo preoccupava. E allora prelievi, buchi, un sacco di buchi, analisi a pagamento ogni tre giorni, analisi per escludere, analisi per trovare. Fino alla diagnosi di un pediatra specializzato: “Lui d’ora in poi lo curo io, ha la talassemia”. Millenovecentosessantaquattro, i bambini talassemici non superavano la pubertà. Loris Brunetta aveva tre anni e si ricorda solo i buchi, scappava sotto il tavolo per non farseli fare. Suo fratello no, suo fratello era nato sano, fortunato. Non è difficile imparare la regoletta, la insegnano alle scuole medie, piselli rossi e piselli bianchi: è la legge di Mendel, quello dell’ereditarietà. Per due genitori microcitemici, cioè portatori sani di talassemia, tre possibilità: venticinque per cento figlio completamente sano, cinquanta per cento figlio portatore sano, venticinque per cento figlio malato. Talassemico. Condannato a morte. Anche deforme, con le ossa del cranio un po’ schiacciate, nei favolosi anni Sessanta: globuli rossi piccoli, pallidi, in numero ridotto e con vita breve, trasfusioni sbagliate o approssimative, genitori rassegnati alla malasorte di un figlio a termine, con gli occhi troppo allungati. Loris Brunetta non aveva più la madre, morta prima di sapere che a uno dei due bambini era andata male, morta senza sapere nulla nemmeno della microcitemia e delle leggi di Mendel. Pochi anni dopo, nelle zone più colpite, Bassa padana, delta del Po, Sardegna, Meridione, ci si cominciava a fare le analisi prematrimoniali, e nel 1974 la talassemia ebbe un bel peso nel referendum sull’aborto. Meglio un figlio non nato di un figlio condannato a una mezza vita.
Brunetta tira il fiato, oggi che ha 41 anni e la faccia da ragazzo, la fede al dito e un impiego in comune, a Genova (per un periodo ha fatto le consegne, carico e scarico, lavoro pesante che gli ha procurato un paio di ernie al disco, poi ha vinto il concorso, è contento, in centro ci va con la moto). Nessuno l’ha buttato nel cestino quando lui non poteva farci nulla, e mai nessuno, anche dopo tutti quei buchi e la diagnosi, ha pensato che il cestino sarebbe stato meglio. “Mi portava mio padre a fare le trasfusioni, quando non lavorava, sennò mio nonno, e qualche volta ci andavamo direttamente col donatore: un collega di lavoro, un cugino, chiunque. Prelievo e via, un’ora dopo nel mio braccio il suo sangue ancora caldo”. Funzionava così, negli anni Sessanta: controlli zero, adesso non si può donare il sangue nemmeno se si è sovrappeso. Dice Brunetta, mentre beve un prosecco – “certo, mangio noccioline, bevo, cosa credevi?” – che le complicazioni più pesanti le ha avute dopo le trasfusioni, febbri da cavallo e vomito per il corpo estraneo, magari non sano, magari non compatibile. Anche l’epatite C si è beccato con le trasfusioni, il 70 per cento dei talassemici ce l’ha, e amen. Quando era bambino, condannato dalla legge di Mendel a vita breve e smunta, non c’era nessuno a fissargli l’appuntamento per la provvista di sangue, funzionava così: il padre osservava il piccolo, che poco a poco andava spegnendosi, sempre più pallido, sempre più stanco, e allora capiva che era l’ora delle provviste. “Era un tirare a campare, non c’era altra possibilità che questa”. Ospedale, trasfusione, ricovero anche lungo, lunghissime assenze da scuola, non come adesso con il day hospital, e la ferocia degli altri bambini: non ti picchio perché sei malato, hai preso un bel voto solo perché sei malato, mia madre dice che devo essere buono con te perché sei malato. Gli dava fastidio, allora a pallone voleva essere il più bravo di tutti. Col fiatone, ma il più bravo di tutti.
“Sono un mostro, io?”
“Con poco ferro si muore, con molto ferro si muore”. Lo dice il primario del centro di talassemia a Genova, che prima era uno scantinato dell’ospedale e adesso è qualcosa di più e cura duecento persone. Vanno lì alle undici, seduti in poltrona con l’ago nel braccio, trasfusione e alle tre tornano a lavorare, o vanno a fare i compiti, i più piccoli piangono un po’. Con molto ferro si muore, e infatti di quello muore un talassemico: di accumulo. Le trasfusioni fanno accumulare il ferro, a poco a poco, dove non si deve: cuore, fegato, pancreas. Tra gli ottomila talassemici italiani sta una maggioranza silenziosa e cardiopatica, il settanta per cento muore con un cuore sovraccarico, che non riesce più a funzionare. Brunetta non è cardiopatico, per adesso, ma ha alle spalle dieci anni di non cure, fino al 1974, quando finalmente hanno cominciato a eliminargli il ferro dal sangue con l’infusione, un ago sottocutaneo attaccato a una macchinetta portatile. Quell’anno ha cambiato la vita ai malati, cioè gliel’ha allungata per sempre: “Nel 1974 c’erano ragazzini di cui i medici aspettavano la morte da un momento all’altro, e adesso sono ancora qui”. Adesso sui grafici la curva è ascendente, e l’estate scorsa a Genova è morto il paziente più anziano: quarantasette anni. Brunetta ne ha quarantuno, sa che i miracoli sono rari, dice che con la paura si impara a convivere, e che la morte non è il suo primo pensiero la mattina né l’ultimo la sera: “La paura ce l’hanno tutti, la paura ce l’hai anche tu, basta non farsi prendere dal panico. E un malato ha troppe cose da fare per farsi prendere dal panico”. Troppe cose sono le trasfusioni, i controlli, la terapia per eliminare il ferro. Fino al 1997 solo aghi sotto la pelle per dodici ore al giorno, cinque giorni alla settimana, adesso finalmente c’è una pastiglia. Tutti i giorni, come per la pressione. Nessuna vergogna, “mentre la macchinina con la pompetta faceva vergognare”. Perché si può anche dormire con un ago piantato nel braccio, o nell’addome; ma uscire con una ragazza, a sedici anni, come si fa? E allora c’era chi si rifiutava, e poi ne moriva. “Io se uscivo con una ragazza cercavo di fare presto e poi correvo a mettermi l’ago, qualcuno faceva finta di niente e andava a toglierselo, però era meglio quando glielo spiegavo”. Vallo a spiegare a quelli che guardano le cellule da un microscopio e ne trovano una sbagliata, una da gettare, che fare l’amore con una ragazza, anche con l’ago nel braccio che magari fa prurito, non è così male, come vita.
A un certo punto Brunetta si è incazzato. Parecchio. Quando è stata approvata la legge sulla fecondazione assistita e i radicali, i genetisti, le madri in provetta, hanno scatenato il dramma. Vietata la selezione eugenetica degli embrioni, ma come, mica partorirete un figlio talassemico? Oscurantisti, cattivi, autoritari. Un figlio così è una condanna alla sofferenza, e via col ripescaggio dall’oblio della talassemia. “Come se esistessimo soltanto come prova di non diritto alla vita, come esempio di spazzatura di cui liberarsi, qualcosa che disturba la perfezione della non sofferenza, e allora giù per lo scarico del water”. Brunetta si è incazzato, dice che anche gli altri pazienti sono furiosi, ma non con le madri per le quali talassemico è troppo, alle quali non bastano le forze. “Non potrei mai criticare la scelta di una coppia dilaniata dal dubbio, che alla fine rinuncia”, dice, lui che avrebbe fatto volentieri un altro figlio, “e sarebbe stato quasi sicuramente malato, perché mia moglie è portatrice sana, ma sono successe troppe cose, e abbiamo perso il treno: adesso è tardi”. Ma l’arrabbiatura resta. “Io mi arrabbio con chi non vuole più ricordarsi di essere stato un embrione, con chi studia le cellule e non vede oltre, con chi ci considera mostri da non far nascere: sono un mostro, io?”.
Sui giornali è stato scritto anche questo, Miriam Mafai si è chiesta sulla prima pagina della Repubblica che cosa farà una madre quando al bambino di due anni comincerà a gonfiarsi la testa e gli si allungheranno le ossa del femore. Il fatto è che quarant’anni fa succedeva davvero, da trenta non succede, non succederà mai più, almeno in Italia. Brunetta si è infuriato e ha mandato una lettera alla Mafai, le ha chiesto perché raccontasse frottole, lei che è così brava e autorevole, lei che la gente l’ascolta; lei gli ha risposto, privatamente, che quel che ha scritto l’ha detto una senatrice della Lega in Parlamento, e che comunque loro due hanno idee diverse: lei è contraria alla legge e lui no, lei è per la ricerca sulle staminali e lui no, lei è per la selezione eugenetica e lui no.
“Ma allora, se per sostenere un’idea bisogna cambiare la realtà, vuol dire che l’idea non è così formidabile”.
La realtà però è che la sofferenza è certa, la cura incerta, la vita ancora troppo breve. “Io non sostengo che dobbiamo per forza far nascere dei bambini talassemici, vorrei solo che la gente sapesse cos’è la malattia oggi, e sapesse che si può vivere; ed è anche una bella vita, questa, non fa mica schifo, sai?”.
E non esiste al mondo, “mai mai mai” un malato di talassemia che preferirebbe essere non nato, “la sofferenza è niente, in confronto all’essere qui adesso, a incazzarmi”.
Loris Brunetta ha un figlio adottivo, talassemico, ventidue anni. Dipinge benissimo, va all’Accademia di belle arti, è un tipo un po’ “intellettualoide, legge Dostoevskij e fa tardi la sera”. Loris l’ha incontrato da piccolissimo, quando la madre, che adesso è sua moglie, è arrivata al centro trasfusionale di Genova, un bimbo malato e non saper dove sbattere la testa. Il padre era sparito subito, senza nemmeno sapere della talassemia.Non una storia sconvolgente, anche banale. Lei era disperata, aveva ventiquattro anni e da sola non era facile. Loris le ha spiegato che le trasfusioni non sono una tragedia, se il bambino piange poi smette, avrebbe potuto andare anche all’asilo e lei poteva lavorare, se voleva. Lei a poco a poco ha imparato questa cosa scandalosa che è vivere con la sofferenza, con l’imperfezione che ha bisogno di sangue, e di aghi sottopelle per eliminare il ferro. Poi loro due si sono innamorati, sono andati a vivere tutti e tre insieme, dieci anni fa si sono sposati.
“Siamo cementati l’uno all’altra” dice Brunetta, e prima dell’ernia facevano le vacanze in tenda. Il ragazzo è cresciuto e non è come il padre, non frequenta granché il centro di talassemia dell’ospedale Galliera, ci va quasi solo per le trasfusioni e i controlli, non si occupa dell’attività dell’associazione, non ha tempo, non gli frega: ci sono le ragazze, e l’università, e i vicoli pieni di vita notturna. Però quando il padre è andato a Roma per partecipare a una puntata di “Porta a Porta”, qualche settimana fa, a dire che lui è vivo e contento di esserlo (e Daniele Capezzone non se l’aspettava, e il biologo che guarda le cellule al microscopio nemmeno, lui quelle cellule imperfette le butterebbe tutte nel cestino), quella sera è rimasto in casa con la madre a guardarlo alla tivù, e gli ha mandato un messaggio sul cellulare: “Quel che è grave nel tentativo di creare geni non è tanto l’idea di migliorare il genere umano quanto quella di sopprimere gli altri, considerati come degli avanzi umani, come dei sottouomini. Il superuomo potremmo anche accettarlo, a condizione che non abbia in testa di eliminare altri uomini. Ciao”.
Perché loro, i malati, passano tutta la vita a combattere un male non immaginario e a dimostrare che non sono da meno di quelli con i globuli a posto, “poi arriva un radicale o un genetista o un giornalista che non sa un tubo e dice che è meglio non farci nascere, perché soffriamo troppo e facciamo soffrire troppo loro, e perché siamo troppo diversi, troppo sfigati”, sorride Brunetta, e anche il sorriso è da ragazzo.
Quella sera, da Vespa, avrebbe potuto seppellire, e non l’ha fatto, il biologo fissato con le cellule. “Mi ha detto che loro curano i bambini, e che lo fanno per i bambini di sostenere la selezione eugenetica, la diagnosi prenatale, la ricerca sulle staminali. A me non risulta che i biologi curino i bambini, sono i medici a curare i bambini, è diverso. E i nostri medici la pensano come noi, e pensano che la selezione degli embrioni sia una follia: leggono i giornali e scuotono la testa, loro quegli embrioni che altri preferirebbero buttare li seguono, li sgridano, li controllano, li consolano fino a quando, alla fine, muoiono. Loro sanno di cosa parlano, sanno anche che osservare le cellule non dà mai la certezza di quel che nascerà. Non vanno a raccontarlo in televisione, però, dicono che se vedi troppo spesso un medico in video, o sui giornali, allora forse non è un granché, come medico”. Lì al centro per la talassemia di Genova i medici e i pazienti hanno raccolto un sacco di ritagli, tutti degli ultimi mesi: pagine strappate dall’Espresso, dal Venerdì, dai quotidiani, pagine che raccontano di tecniche di frontiera, pagine sul luminare Guido Lucarelli, quello della tecnica rivoluzionaria che dovrebbe “salvare novanta talassemici su cento: il trapianto di midollo osseo”. Solo che qualche anno fa sono morti nove pazienti su undici, infettati dall’epatite B. Un complotto, una specie di sabotaggio omicida, una cosa di interessi contrastanti, diceva l’articolo. E comunque, c’era scritto, “il trapianto di midollo è l’unica possibilità per salvare il malato da una vita da incubo”.
L’hanno sottolineato con l’evidenziatore, lì al centro, e un po’ si arrabbiano un po’ ci ridono sopra, un po’ chissenefrega, almeno parlano di noi, “però hanno rotto con la vita da incubo”. Il trapianto vale solo per i bambini piccoli, fino a otto anni, e si rischia la vita. Fino a otto anni e con un fratello compatibile si può provare a guarire, dopo no. “I tre quarti dei talassemici non avranno mai un trapianto”, spiega Brunetta, e intanto dietro una porta a vetri c’è un ragazzino pallido che sta facendo una trasfusione, con la mamma accanto. Tra un’ora finirà, il ragazzino pallido potrà andare a giocare a pallone. “La vostra vita è perfetta, la nostra ci piace” Al centro di talassemia c’è una ragazzina iraniana, il padre lavorava a Genova, ingegnere minerario. Si è trasferito con la moglie e la figlia, per farla vivere meglio, perché venga curata meglio, perché non si vergogni più. “Non ho intenzione di tornare in Iran, non voglio che mia figlia muoia”, diceva. Poi è morto lui, e adesso è più difficile, la moglie ha paura, anche se ogni tanto si toglie il velo, ma se ci sono uomini intorno non parla. Però non torna in Iran, prova a mantenerla a Genova, perché là sarebbe la fine, anche se i talassemici sono tanti, seimila solo a Teheran. I padri in genere se ne disinteressano, figli imperfetti da dimenticare, errori di cui chiedere perdono ad Allah. Fanno come se non esistessero. Tocca alle madri, colpevoli dello sbaglio, occuparsene, ma loro sono donne, quindi inferiori che vogliono curare inferiori. Non c’è scampo, soprattutto se sono femmine, piccole donne che devono fare le infusioni, ago nel braccio e si vergognano troppo, preferiscono morire.
In Iran i talassemici che sopravvivono un po’ di più sono costretti a sposarsi solo tra di loro, per non infettare la razza. “Una rudimentale selezione eugenetica”, dice Brunetta, “un modo per non dover pensare a noi mostri”. E dal Marocco è arrivato un bambino “undici anni e ne dimostra a stento cinque”, mal curato perché la cura da quelle parti è una vergogna. “O sei perfetto o dai fastidio, là la vita conta meno della rispettabilità”. Qui certo che è diverso, qui i talassemici vengono curati (quelli che nascono, e sono sempre di meno, a Ferrara non succede dal 1983), qui si cerca un modo per evitare la sofferenza, si prova a garantire un po’ di felicità. “Però bisognerebbe chiedere ai malati cosa pensano della sofferenza, invece dappertutto continua a pontificare chi non lo sa: questa cellula è sana però non è proprio come quella là, potrebbe nascere qualcosa che soffrirà, allora la butto. Voi soffrite per altre cose, perché siete grassi o infelici o non abbastanza intelligenti, perché pensate di essere malati e magari non avete niente di niente. Non è molto diverso, e allora io, in mezzo a tutti i vostri meravigliosi diritti alla felicità, pretendo il mio diritto alla sofferenza in vita”. I bambini che ancora nascono, e non superano mai il dieci per cento delle diagnosi prenatali di talassemia, anche se ultimamente c’è stata una piccola crescita, imparano in fretta che cos’è la sofferenza, e imparano in fretta, anzi subito, “che la sofferenza non priva della vita”.
Le ragazze di trent’anni sono quasi tutte sposate, e fanno figli con uomini “normali”. Ce n’è qualcuna che invece quasi non esce di casa, i genitori hanno paura, “le tengono sotto una campana di vetro e loro non hanno la forza di staccarsi”. C’è uno che fa politica. Ci sono i laureati e gli operai specializzati. Ci sono quelli che si piangono addosso e dicono che però Brunetta ha un po’ minimizzato la malattia, da Vespa. Ci sono quelli antipatici. C’è una ragazza di ventidue anni che fa i concorsi di bellezza, e li vince anche, è bella e non porta nessun segno della malattia. Loris è di un’altra generazione, vent’anni fanno la differenza, qualche segno ce l’ha: non è alto, ha le mani piccole, il naso corto e all’insù, è molto magro, i vestiti può comprarli nei negozi per ragazzi. Un ragazzo di quarantun’anni. “Non farò nessun concorso di bellezza, io, ma sto bene così, e faccio un pesto buonissimo”. Non è laureato, ha avuto problemi in famiglia e c’era bisogno di soldi, ha lasciato l’università al secondo anno, gli dispiace. Non si sente malato. “So bene di esserlo, ma mi sono sempre occupato di me stesso, un po’ prendendomi sul serio un po’ anche scherzando: questa è la mia condizione e non mi pesa, forse pesa a mio padre che non l’ha mai dato a vedere. Non so, forse pesa a mio fratello che ha sempre voluto difendermi, e io gli voglio bene anche per questo, ma lui lo sa che io mi sono sempre difeso benissimo da solo”. Lo incontrano, in piazza delle Erbe, e gli gridano “ehi, Loris, ti ho visto in tivù, ti sarai mica montato la testa?”. “Accidenti, Loris, non invecchi mai”. Lui sorride e grida di rimando: “Già, ho fatto un patto col diavolo”. Poi lo sconforto arriva, ma non è niente di speciale, dice che basta accontentarsi e non mollare. A un certo punto, però, capitano una serie di complicazioni tutte insieme, il cuore, l’epatite, il ventricolo sinistro che s’ingrossa, e allora uno pensa: questa volta non ce la faccio. Poi magari non è vero. Ma qualche volta, invece, è vero. “Io non voglio insegnare niente a nessuno, non dico che ho ragione io, non dico che non bisogna abortire, anche se sono cattolico praticante; non dico che una coppia non può scegliere di non avere un figlio talassemico, anche se io sono talassemico e felice di esserci; non dico che fare nascere dei bambini per curare il fratellino a Pavia significa avere ammazzato gli altri, quelli che magari al microscopio erano sani o malati ma non compatibili. Dico soltanto che io sono qui, che noi siamo qui, non un’entità astratta ma una vita che non vale meno della vostra: la vostra di certo è perfetta, bellissima, ma a noi invece è andata così, e ci piace abbastanza”.
Lui è un tipo curioso di tutto, che parla con tutti, e come presidente dell’associazione parla con un sacco di luminari. Gliel’avevano detto che sarebbe successo, che il processo era tremendo ma irreversibile. Che dalla talassemia si parte, poi si arriva a storcere il naso di fronte alla cellula del colesterolo alto, “e gli occhi azzurri non saranno più fantascienza, e la clonazione verrà giustificata dalla proteina che cura la miopia”. Che se un limite non esiste più, il limite saranno soltanto loro, gli imperfetti che pretendono di essere vivi. Lui intanto deve tornare a casa dalla moglie, che è a letto con l’influenza e reclama aspirine. “Saranno trent’anni che a me l’influenza non viene, e con le trasfusioni in day hospital non posso neanche inventarmi scuse: al lavoro ogni giorno”. Ride col sorriso da ragazzo. “Però scusa, adesso devo scappare, lei ha bisogno di me”.
Annalena Benini – Il Foglio – sabato 23 ottobre 2004