26 ottobre 2006 | ||
Budapest 1956. Duemila morti contro il sistema stalinianodi Piero Sinatti – (C) Il Sole 24 ore – 26 ottobre 2006 |
La rivolta d’Ungheria dell’ottobre 1956 fu la prima grande frattura apertasi nel mondo comunista nel quadro del disgelo in Urss dopo la morte di Stalin (marzo 1953) e il XX congresso del Pcus (febbraio 1956), in cui il leader di quel Partito, Nikita Khrusciov aveva denunciato il culto e i crimini di Stalin. La rivolta fu la più evidente manifestazione del rigetto popolare del sistema staliniano, imposto da Mosca ai paesi dell’Europa centro-orientale. Dittatura monopartitica. Terrore di massa e dure epurazioni nello stesso Partito dominante. Sovietizzazione della cultura e dell’istruzione. Statizzazione e pianificazione centrale dell’economia che, nel clima della Guerra Fredda e della corsa agli armamenti imposto da Mosca ai paesi “satelliti”, dà la priorità all’industria pesante e bellica, a scapito dell’industria dei beni di consumo e dell’agricoltura, quasi interamente collettivizzata.
Tutto questo si ripercuote disastrosamente sul tenore di vita, abbassando consumi, salari, qualità della produzione industriale. Si crea un’economia della penuria unita a una pesante cappa ideologica e poliziesca, imposta al paese da una nomenklatura privilegiata. Domina la “cricca” dei fedelissimi di Mosca, gli staliniani Mathias Rakosi, Ernoe Geroe, Mikhali Farkas, Joszef Revai.Le speranze del 1953
Nel giugno 1953, si era formato a Budapest un nuovo governo capeggiato da Imre Nagy, un dirigente moderato, specialista in agricoltura, emarginato nel 1948. Per volontà di una parte del gruppo dirigente sovietico post-staliniano (Berija, Malenkov) avrebbe dovuto correggere il corso economico impopolare e liberare i prigionieri politici.
La società ungherese aveva ripreso a respirare, ma nella primavera del 1955, in rapporto a mutati equilibri e volontà all’interno della direzione sovietica, Nagy viene rimosso ed espulso dal Partito.
La “cricca Rakosi” riprende il controllo sul partito e sul governo, arresta le riforme.
La svolta reazionaria crea nel Pc, ma soprattutto tra studenti, intellettuali e operai correnti di opposizione, che si attivizzano dopo il XX Congresso e in concomitanza con lo sviluppo in Polonia di un movimento popolare che in ottobre costringe il Pc polacco a cambiare leadership e promettere riforme.
L’ottobre ungherese
Con epicentro il circolo degli scrittori Petoefi, intellettuali, studenti, quadri “revisionisti” del Pc danno vita a un ampio e forte movimento di massa. Si chiedono: la cacciata dal governo e dal Partito degli stalinisti rakosiani. Processi pubblici contro i responsabili delle repressioni. Il ritorno di Nagy alla guida del governo. Riforme economiche, ma nel quadro degli assetti socialisti. Libertà di espressione e di stampa. Solidarietà con il rinnovamento polacco, su cui incombe la minaccia di Mosca.
Il movimento dalla capitale si estende a tutto il Paese.
Nella grande assemblea degli studenti e intellettuali all’Università di Budapest del 22 ottobre si va oltre. Si rivendicano rapporti alla pari con l’Urss, l’uscita delle truppe sovietiche dal paese, elezioni libere e pluripartitiche, democrazie e autogestione di tipo jugoslavo.
Si chiede, in una parola, la liquidazione dello stalinismo.
Tuttavia, tutte le forze in campo si rivelano inadeguate alla gravità del momento. Le loro decisioni sono incerte, contraddittorie. Non controllano il movimento di massa che si esprime nell’ultima decade di ottobre nei Comitati rivoluzionari e Consigli operai formatisi a Budapest e nel Paese, privi di una direzione politica e di una strategia.
E’ divisa la direzione sovietica tra chi cerca una soluzione politica e chi invoca il ricorso alla forza.
Il Pc, frammentato in varie tendenze (stalinisti, riformatori radicali e moderati) è del tutto incapace di controllare la situazione.
Ritorna a guidare il governo Imre Nagy e poco dopo diviene capo del Pc, una vittima della repressione, Janos Kadar. Una soluzione suggerita da Mosca, che consente con la decisione di Nagy di chiamare al governo partiti e personalità messi al bando otto anni prima.
Nagy, l’unico dirigente comunista popolare, è un personaggio isolato, oscillante tra la fedeltà al Partito e all’URSS, che ha servito per decenni, e le istanze del movimento, che in gran parte condivide.
La rivolta armata
La situazione precipita, dopo che l’Avh – uomini della odiatissima polizia politica, spara la sera del 23 ottobre sulla folla dei dimostranti che chiede di esprimere al paese per radio le proprie rivendicazioni.
I manifestanti prendono da caserme e posti di polizia le armi contro l’Avh – giovani e adulti sono stati resi abili a usarle grazie all’istruzione militare obbligatoria. Ufficiali e soldati dell’esercito e miliziani passano dalla parte dei manifestanti.
Per sedare la rivolta, il governo ungherese (senza il consenso di Nagy) chiede l’intervento delle truppe sovietiche. Che avviene il 24 ottobre e nei giorni seguenti, a fianco dell’Avh. Battaglie accanite e centinaia di morti.
Governo, Pc sono in pieno marasma.
Nagy, finisce per riconoscere la natura “nazionale e democratica”, e non “controrivoluzionaria” dell’insurrezione. Invita gli insorti a deporre le armi e intavola trattative con Mosca per ottenere il ritiro delle truppe dalla capitale. I rakosiani sono fuggiti in Urss. Mosca acconsente e i suoi tank lasciano Budapest il 31 ottobre.
Ma a questo punto, quando si sta profilando la possibilità di una soluzione politica si verificano fatti che la impediscono.
I nuovi, imprevisti fatti
Il 30 e 31 ottobre gruppi di insorti fuori controllo iniziano una caccia feroce ai quadri del Pc e agli agenti dell’Avh. Ci sono numerosi linciaggi. Impiccagioni ai lampioni delle strade. Devastazioni. Le immagini sono diffuse in tutto il mondo.
Nello stesso tempo, un blitz di truppe anglo-franco-israeliane occupa il canale di Suez, nazionalizzato mesi prima dal leader egiziano e buon amico di Mosca Nasser.
Il nuovo segretario del Pc Kadar, i dirigenti dei partiti comunisti – compresi Togliatti e Mao – sollecitano in vario modo la direzione del Pcus a re-intervenire in Ungheria e porre fine alla “controrivoluzione”. Il Pcus prende la fatale decisione, strappando l’assenso anche allo jugoslavo Tito e al nuovo leader antistalinista del Pc polacco Gomulka.
Perdere l’Ungheria – ragiona il Kremlino – assieme alla disfatta dell’alleato Nasser, sarebbe un colpo gravissimo al “campo (lager, in russo) socialista”.
Nagy, dal canto suo, con scarso realismo aveva chiesto il 31 ottobre l’uscita del Paese dal Patto di Varsavia.
L’1 novembre, conosciuta la decisione di Mosca di re-intervenire, Nagy si rivolge un drammatico appello alle Nazioni Unite perché garantiscano la neutralità e la sovranità dell’Ungheria. Appello privo di esiti.
Il 4 novembre entrano in Ungheria, dai paesi “socialisti” confinanti 17 divisioni sovietiche. Che in poco più di una settimana soffocano l’insurrezione con un pesante bilancio di morti (vedi box).
Nagy e i suoi più stretti collaboratori vengono arrestati a tradimento da agenti sovietici e due anni dopo processati e impiccati in un carcere di Budapest.
Nella seconda metà di novembre un nuovo governo formato da Janos Kadar e dagli anti-rakosiani fedeli a Mosca riprende in mano la situazione. Ottiene da Mosca massicci finanziamenti per far fronte a una drammatica situazione economica.
La baracca più allegra
Kadar, sin dai primi anni Sessanta apre all’iniziativa privata in agricoltura, nel commercio al dettaglio e nell’artigianato e a prezzi non regolati centralmente. Decolletivizza le campagne. Allenta la cappa di piombo sugli intellettuali. Libererà i prigionieri politici. Fermi restando il monopartitismo, la fedeltà a Mosca, la censura, sia pure attenuata.
L’Ungheria parteciperà alla repressione della Primavera di Praga, ma sarà, come recitava un famoso giuoco di parole, “la più allegra baracca del lager socialista”.
Conclusioni internazionali
Gli Usa, dopo che le loro potenti emittenti radio (Free Europe, Voce dell’America) in ungherese avevano esortato alla resistenza armata, adombrando un loro possibile intervento, sono restati a guardare. Hanno riscosso un forte utile propagandistico contro Mosca e sono restati fedeli allo spirito spartitorio di Jalta. L’Ungheria si sente abbandonata dall’Occidente. E negli anni si rimuove la tragedia del 1956.
L’Urss, che guarderà sempre al modello kadariano con un misto di diffidenza e di invidia, blocca la destalinizzazione. E fino alla perestrojka gorbacioviana dimostrerà la sua incapacità di rompere con il modello staliniano.
I Partiti comunisti italiano e francese, i più forti dell’Occidente perderanno, assieme a pezzi importanti di intelligentsija, l’occasione per rompere con l’Urss e compiere a tempo giusto la svolta socialdemocratica.
LE CIFRE |
Repressione 1948-1953 Circa 2000 sentenze capitali. Circa 200 mila (2% della popolazione) arrestati e condanne a carcere, Gulag interno e sovietico, ed esilio (fonti varie) Rivolta del 1956 2502 morti, 19 226 feriti tra gli ungheresi. 720 morti e 1540 feriti tra i soldati sovietici. 200 mila i profughi Fonte: Rudolf Pikoja, Kremlino-Ungheria: ottobre novembre 1956, Mosca, 2000. Circa 2000 gli insorti giustiziati. Oltre 10 mila i condannati a più o meno pesanti pene detentive. Liberati quasi tutti nel decennio successivo. Fonti varie |