La Cina è vicina all’inferno
Vita in un Paese senza diritti
Dal 2003 i diritti civili in Cina sono stati drasticamente ridotti e le misure restrittive sono divenute spaventose. Difficile da credere? No, se le decisioni sono messe nelle mani di magistrati quasi sempre privi di una minima formazione giuridica. In Cina può diventare giudice un tassista o un veterinario o chiunque abbia buoni agganci per diventarlo. E intanto la Cina delle Olimpiadi si avvicina…
I cinesi non mangiano i bambini, ma li ammazzano. È difficile contabilizzare gli effetti della cosiddetta «politica del figlio unico» instaurata nel 1979 da Deng Xiaoping, prassi che ha spinto milioni di contadini a sbarazzarsi della progenie femminile. L’organizzazione Human Rights, nel 1995, denunciò l’assenza statistica di circa 500mila bambine l’anno; trafiletti di giornali cinesi, intanto, menzionavano sporadiche condanne per infanticidio a uno o massimo due anni di carcere. Attenuanti di Stato? Difficile da credere, in un Paese in cui il concetto giuridico di attenuante è sconosciuto: le donne che per esempio abbiano ucciso il proprio seviziatore dopo che le abbia magari stuprate, picchiate, sposate dopo rapimento in Cina vengono tutte ed egualmente messe a morte. Ammazzare i neonati invece non è quasi reato, diversamente dall’infrangere appunto la regola del figlio unico: in tal caso si è sottoposti anche a tortura. Stiamo parlando di decisioni che sono nelle mani di magistrati quasi sempre privi di una minima formazione giuridica: in Cina può diventare giudice un tassista o un veterinario o chiunque abbia buoni agganci per diventarlo.
Iniezioni letali
La pena di morte intanto si è modernizzata. Dalle fucilazioni si è passati alle più economiche Camere mobili di esecuzione con le iniezioni letali. La maggior parte delle condanne è pronunciata in stadi e piazze davanti a folle gigantesche. Durante i capodanni cinesi, il primo maggio e il primo ottobre, centinaia di cinesi vengono giustiziati a titolo esemplare, ma nel 2003, a partire dalla campagna «Colpire duro», le cose sono peggiorate per via di una sorta di parola d’ordine: immediatezza giudiziaria. Di arresti, di processi, di esecuzioni. In Cina ogni anno vengono giustiziati più individui che in tutti i Paesi del mondo messi insieme, e nella primavera del 2001 le condanne a morte sono state più numerose di quelle inflitte nei tre anni precedenti in tutto il resto del pianeta: dal 2001 la pena capitale può essere applicata a un numero esteso di reati da essere paragonabile all’Irak di Saddam Hussein. Nel 1989 i reati capitali erano 20 e nel 1997 erano diventati 68. Tra questi: frode fiscale, contrabbando, traffico d’arte, appartenenza anche indiretta a organizzazioni illegali, violazione di quarantena se malati, e uccisione di panda. Amnesty International ha censito 1060 esecuzioni sicure nel 2002, ma uno studio di Nathan&Jilley ne ha stimati almeno 15mila l’anno.
Morire per una festa da ballo
Il presidente dell’Human Rights in Cina, Liu Qing, ha raccontato questo: «Ho visto prigionieri con cui dividevo la cella trascinati nel cortile e giustiziati senza alcuna formalità. Alcuni erano stati condannati per aver avuto relazioni sessuali prima del matrimonio». Notissimo in Cina è il caso di Ma Yanqin, una ragazza colpevole di organizzare feste danzanti: «Venne indicata ha raccontato ancora Liu Qing – come rappresentativa di quello spirito di liberalismo borghese che Deng esecrava, perciò la sua esecuzione fu molto pubblicizzata». Altri casi sono conclamati. Il giovane Sun Zhigang fu picchiato a morte in un centro di detenzione amministrativa vedremo che luoghi si tratta e la sua colpa era stata quella di essere un disoccupato privo del permesso per soggiornare a Canton. Nella primavera 2001 un ragazzo invece fu giustiziato per aver rubato 48 dollari a un diplomatico americano. Balzò all’attenzione della stampa – grazie a un giornalista cinese che lo raccontò sotto pseudonimo anche il caso assurdo di Jin Ruchao, condannato a morte con l’accusa di aver improbabilmente organizzato un complicato attentato: avrebbe trasportato, da solo, 600 kg di dinamite poi piazzata in quattro posti diversi. Il dettaglio è che Jin Ruchao era completamente sordomuto e praticamente deficiente, tantoché dopo l’arresto o rimase muto nel senso: non comunicò e prima dell’esecuzione non cercò neppure di protestare o proclamarsi innocente.
I Giochi del 2008
La morsa ha preso a stringersi dalla fine del 2003. Il Partito si limita a firmare da sempre ogni dichiarazione d’intenti: quella universale dei diritti umani, il Patto internazionale per i diritti civili e politici, la Convenzione contro la tortura del 1988, la Convenzione sui diritti dell’infanzia del 1992: parliamo di uno Stato che ha celebrato le feste nazionali con esecuzioni di massa cui assistevano talvolta anche le scolaresche, e che ci si immagina in quale considerazione possa dunque tenere l’eventuale «codice di condotta» che Usa ed Europa volessero imporgli. La Cina intanto cresce sino al 10 per cento annuo e si metterà in vetrina ai Giochi olimpici del 2008: in ballo c’è moltissimo, e non stupisce che capi di Stato come Jacques Chirac, all’inizio del 2004, abbiano fastosamente ricevuto le massime autorità cinesi dopo aver praticamente paralizzato Parigi, così da scoraggiare probabili dimostrazioni.
L’illusione democratica
Nel mentre, milioni di cinesi sono perseguitati assieme a minoranze come uighur e falungong; i tibetani seguitano a essere arrestati per il mero possesso di libri o per aver scaricato da internet immagini del Dalai Lama, e ovviamente non si contano non si conta niente, in Cina i monaci incarcerati e torturati. La ricerca in internet, è notizia di due giorni fa, è stata definitivamente censurata col benestare di Bill Gates: Microsoft ha fornito portali addomesticati con un software che impedisce l’uso di parole sgradite come «libertà», «democrazia», «diritti umani» ma anche «Tibet», «comunismo» e «Tienanmen». È tutto nero su bianco. Reporter senza frontiere, Amnesty International, The Laogai Research foundation, Human Rights Watch e il Centro tibetano per i diritti umani rappresentano fonti che permettono di comprendere come i peggiori totalitarismi del Novecento abbiano trovato asilo in Cina, laddove il peggio del comunismo e del capitalismo convivono nell’Inferno della Storia. La foglia di fico occidentale è costituita dalla speranza che l’evoluzione del mercato debba portare giocoforza alla democrazia, ossia che alle libertà economiche debbano equivalere quelle politiche: un’equazione contraddetta dai tempi di Adamo Smith e che in ogni caso non spiegherebbe neppure l’esistenza dell’Italia fascista o della Germania nazista, dove l’autoritarismo conviveva con la proprietà privata.
50 milioni nei lager
In Cina il problema, secondo molti osservatori, è giusto il contrario: «Si teme, liberalizzando e democratizzando, di mettere a rischio la crescita economica», ha osservato Piero Ostellino nell’introdurre «Il Libro nero della Cina»,
Guerini e associati 2004, da leggere. I giovani sterminati a Tienanmen in fondo chiedevano anche uno sviluppo più equo e inevitabilmente più lento, ma la Cina ha una fretta dannata. Le madri delle vittime di Tienanmen sono ancor oggi perseguitate, e il 4 giugno 2004, quindicesimo anniversario della strage, a Pechino manifestavano in poche decine, mentre a Hong Kong erano in centinaia di migliaia. Molti saranno finiti nei laogai, cosiddetti campi di rieducazione a suo tempo voluti da Mao Zedong: dalla loro istituzione hanno accolto non meno di cinquanta milioni di persone, e si calcola che non esista cinese che non conosca almeno una persona che vi sia stata soggiogata. È una detenzione che non prevede processo, non prevede imputazione, tantomeno esame o riesame giudiziario o possibilità di confrontarsi con un’autorità, figurarsi un avvocato. La decisione di rinchiuderti anche per cinque anni è a totale discrezione della polizia. L’associazione Laogai Research ha riferito che i milioni di cinesi rinchiusi nei campi costituiscono la popolazione di lavoratori forzati più vasta della storia. Poi ci sono i lavoratori non forzati, e sulle condizioni degli operai cinesi è stato scritto molto. Nelle imprese private, a fronte di paghe ridicole e di ferie praticamente inesistenti, le ore straordinarie sono obbligatorie e forfettizzate: la cifra è la stessa che si tratti di venti minuti o di dieci ore. I salari sono spesso pagati in ritardo per giornate che vanno dalle 10 alle 12 ore. I regolamenti sono da pazzi. Capita che ai lavoratori sia vietato di parlare nelle ore di lavoro e anche durante i pasti, mentre in caso di negligenza è previsto licenziamento e pene corporali. Ai lavoratori spesso è vietato sposarsi ed avere figli, e sempre più frequentemente, se licenziati, non ricevono alcuna indennità e solo una minima parte della pensione. Va da sé che in Cina non si possa parlare di cure sanitarie e che i licenziati possono vedersi negare l’accesso all’educazione scolastica dei figli: da qui una maggior tolleranza per il lavoro minorile e nondimeno per una spaventosa quantità di ragazzini morti sul lavoro. Tra le poche contabilità note c’è quella dei primi tre trimestri del 1999: i minori deceduti furono 3464.
Sindacati liberi al bando
Resta inteso che i sindacati indipendenti sono proibiti e che la loro costituzione è oggetto di una repressione che li accomuna per durezza solo ai falungong, adepti religiosi già bersaglio centrale della politica cinese: «Dobbiamo sradicare questo culto eretico e cacciarli come topi», si lesse sull’agenzia di stampa governativa Xinhua nel settembre 2003. Contro di essi contro ogni forma di dissidenza, invero si perfezionano metodi che si pensavano relegati al buio novecentesco. Che la tortura sia una prassi non lo negano neppure i funzionari cinesi: serve a estorcere prove contro tibetani, immigrati irregolari e padri di troppi figli. Sulle modalità delle torture cinesi è opportuno non incedere. Li Changjun, un ingegnere di 33 anni già licenziato per le sue convinzioni religiose, fu arrestato il 16 maggio 2001 perché aveva scaricato da internet informazioni sul movimento falungong; il 27 giugno la famiglia venne informata della sua morte e la madre ha raccontato questo: «Non aveva che pelle e ossa, il viso e il collo erano coperti di ematomi, aveva i pugni chiusi, non aveva più denti, era sfigurato, la schiena sembrava fosse stata bruciata e cotta. Era spaventoso». Amnesty International ha rilevato anche un alto numero di cosiddetti morti accidentali: prigionieri che precipitano soavemente dai piani alti degli edifici detentivi e che solo il racconto di pochi scampati ha potuto testimoniare.
Psicofarmaci ai dissidenti
Ma i languori occidentali rimarranno ancor più impressionati dalla notizia che in Cina non sia mai stata interrotta, anzi ripresa e ampliata, l’abitudine sovietica di rinchiudere i dissidenti negli ospedali psichiatrici. Gli specialisti cinesi hanno inventato patologie quali la «schizofrenia politica», la «sindrome da oppositore» e la «malattia politico-mentale». Dall’inizio degli anni Novanta cresciuta è la tendenza a rinchiudere e imbottire di psicofarmaci i malcapitati senza che le ragioni dell’internamento siano state stabilite. Xue Jifenf, ritenuto colpevole di aver organizzato una riunione sindacale non autorizzata, ha potuto raccontare d’esser stato internato nell’ospedale psichiatrico di Xinxiang assieme con dei malati mentali gravi che lo tormentavano giorno e notte. Tra i pochi casi noti anche quello di Su Gang, un ingegnere informatico di 32 anni che si era rifiutato di rinnegare la sua fede falugong: fu internato il 23 maggio 2000, in perfetta salute, dopodiché gli vennero iniettate ogni giorno delle sostanze sconosciute e una settimana dopo era incapace di mangiare e di muovere gli arti; il 10 giugno morì per una crisi cardiaca. L’associazione Human Rights Watch non nasconde che il massiccio e rinnovato ricorso di abusi psichiatrici, in Cina, fa impallidire il primato che fu dei dirigenti sovietici: resta la difficoltà di stimare gli internati e i morti in un contesto, va ricordato, che riuscì e celare l’esistenza della devastante epidemia di Sars per un anno e mezzo, e che solo il coraggio di un medico dapprima perseguitato, Jiang Yanyong, permise di smascherare. I dirigenti cinesi temevano che l’epidemia potesse scoraggiare gli investimenti occidentali. Ma quelli, forse, neanche il colera. Il Partito comunista pensa che il miracolo cinese sia possibile solo grazie a un totale controllo sociale e politico, una morsa che possa fermare quel miserrimo sottoproletariato urbano creatosi attorno alle città e che peraltro costituisce la base sociale di ogni rivoluzione. Questo spiega perché dal 2003 i diritti civili siano stati drasticamente ridotti e come le misure restrittive siano divenute spaventose. E spiega come la Cina, dopo mille anni di autocrazia, nelle sue fabbriche disumane, abbia copiato ogni nostro prodotto fuorché il più importante.
di Filippo Facci
Il giornale n. 148 del 18-06-05