ROMA, domenica, 27 febbraio 2005 (ZENIT.org).- Di seguito pubblichiamo per la rubrica di Bioetica l’intervento della dottoressa Claudia Navarini, docente della Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum.
Un quesito dei referendum parzialmente abrogativi della legge 40 chiede l’annullamento del divieto di clonazione umana. Il referendum intende mantenere il divieto di produrre “esseri umani identici”, cioè di eseguire la clonazione riproduttiva, ma vuole abrogare il divieto di clonazione cosiddetta terapeutica, eseguita per trasferimento di nucleo.
Se si va oltre il condizionamento psicologico favorevole che parole come “terapia” possono indurre nella percezione comune, stupisce la messa al bando della clonazione riproduttiva e non di quella terapeutica, dal momento che, come precisa il documento sulla clonazione inviato dalla Santa Sede agli Stati membri dell’ONU il 27 settembre 2004, “la clonazione riproduttiva e la clonazione ‘terapeutica’ o ‘a fini di ricerca’ non sono due tipi diversi di clonazione: esse coinvolgono lo stesso processo tecnico di clonazione e differiscono unicamente negli scopi da perseguire” (cfr. Documento sulla clonazione umana inviato dalla Santa Sede agli Stati membri dell’ONU , ZENIT, 21 ottobre 2004).
Più coerentemente, la decisione del VI Comitato dell’ONU (59° Assemblea Generale) diffusa il 18 febbraio 2005 bandisce ogni clonazione umana, sia riproduttiva che terapeutica (o a fini di ricerca), e stabilisce il testo per una dichiarazione dell’ONU in merito. Il risultato è stato raggiunto a prezzo di lunghe discussioni e polemiche. Basti pensare che la redazione di un documento ufficiale sul tema della clonazione è allo studio dell’ONU dal 2001, e che non è stato possibile, nemmeno dopo quattro anni di dibattito, giungere al progetto di una risoluzione, giuridicamente vincolante per gli Stati membri.
Si è arrivati infatti ad un documento non vincolante (non-binding Declaration). Alcuni Stati avrebbero preferito un documento vincolante che vietasse la sola clonazione riproduttiva, invece di un’estensione del divieto a quella “terapeutica” che lasci tuttavia gli Stati liberi di mantenere invariate le legislazioni nazionali sulla ricerca scientifica.
Nonostante il limite posto dal carattere non vincolante, la posizione assunta dall’ONU risulta maggiormente significativa rispetto a quella che avrebbe potuto avere con una soluzione legale “minimalista”, poiché non preclude la possibilità futura di pervenire a posizioni legislative sulla clonazione davvero rispettose della vita e della dignità umane. L’ammissione della clonazione “terapeutica”, invece, barattata con il divieto di clonazione riproduttiva, avrebbe chiuso ogni porta a eventuali miglioramenti.
Il testo votato, infatti, appare decisamente in controtendenza non solo rispetto alla cultura imperante nei paesi a economia avanzata, che non a caso hanno votato in maggioranza contro la decisione del Comitato, ma anche alla luce della tragica tradizione ONU in materia di diritto alla vita. Non a caso, la copertura mediatica dell’evento è stata piuttosto scarsa, così come evasivo è parso l’atteggiamento in proposito dei sostenitori dei referendum sulla legge 40.
È dunque straordinario che, grazie all’influenza esercitata da alcuni paesi occidentali, sia stato possibile coinvolgere positivamente un grande numero di paesi membri, soprattutto fra quelli in via di sviluppo. L’Osservatore Permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite, l’Arcivescovo Celestino Migliore, ha commentato positivamente il fatto che una grande maggioranza di Paesi abbia “riaffermato la sua chiara determinazione a proteggere la vita umana” (cfr. “Un Comitato dell’ONU raccomanda di proibire tutti i tipi di clonazione umana” , ZENIT, 20 febbraio 2005).
La decisione è stata presa, infatti, su una bozza di testo approvata con 71 voti favorevoli, 35 contrari e 43 astensioni. Inutile dire che un ruolo determinante è stato quello ricoperto dagli Stati Uniti, la cui rappresentante ha dichiarato, dopo il voto, che con questo documento la comunità internazionale “ha richiamato tutti i paesi membri a proibire ogni forma di clonazione umana e a introdurre senza indugio legislazioni pertinenti […]. L’azione del Comitato è stata un passo importante sul cammino della cultura della vita, assicurando che i progressi scientifici siano a servizio della dignità umana. […] La ricerca medica deve procedere, ma in modo etico. Nessuna vita umana deve essere prodotta per poi essere distrutta a beneficio di altri”. Gli Stati Uniti, ha affermato la rappresentante, “hanno sempre sottolineato l’incompatibilità di qualunque clonazione umana con la dignità umana e la sacralità e la difesa della vita umana” (United Nations, 59th General Assembly, VI Committee, 28th Meeting, Legal Committee Recommends Un Declaration On Human Cloning To General Assembly , Press Release GA/L/7231, 18/02/2005 ).
L’Italia è stata fra i pochi paesi occidentali e ad economia avanzata che si sono schierati compattamente a fianco degli Stati Uniti, insieme ad Australia, Austria, Germania, Irlanda, Liechtenstein, Svizzera. Non solo. Ha avuto una posizione chiara e netta anche a proposito dell’emendamento suggerito dal Belgio sulla terminologia da usare nella Dichiarazione: il Belgio auspicava, nel paragrafo 2 del Preambolo, la sostituzione del termine “vita umana” con quello di “essere umano”, allo scopo di indebolire la pregnanza del divieto di clonazione. È infatti da tutti condiviso che, fin dal primo istante dopo la fecondazione, siamo di fronte a una “vita umana”, cioè ad un organismo vivente della specie umana. Il termine “essere umano”; invece, viene qui utilizzato come qualcosa di più forte.
Come tale, osservava la proposta belga, dovrebbe essere oggetto di valutazione all’interno delle singole nazioni, le quali potrebbero ad esempio stabilire che l’essere umano “vero e proprio” – in altre la parole la persona degna di tutela – inizia in un momento diverso rispetto alla semplice “vita”, configurando così deroghe al generale divieto di clonazione e di ricerca con gli embrioni. Questo emendamento è stato approvato, e confluirà nel documento finale. Tra coloro che si dichiararono contrari figurava l’Italia, con Australia, Irlanda, Stati Uniti e molti paesi in via di sviluppo.
È stata un’Italia coerente e coraggiosa, quella che si è vista all’opera nel Comitato dell’ONU, che si è dimostrata più incline verso il bene integrale dell’uomo che verso gli interessi economici e ideologici connessi alla sperimentazione sull’embrione umano. La stessa Italia traspare in alcuni punti della legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita, che all’articolo 13, c. 3c vieta ogni forma di clonazione umana, e punisce con severe ammende tutti i tentativi di realizzare vite umane a partire da un’unica cellula, come accade appunto nella clonazione (L. 40/2004, art. 12, c. 7).
I promotori del referendum, al contrario, vorrebbero distinguere fra clonazione riproduttiva e terapeutica. Sostengono che la ricerca con le cellule staminali embrionali, ottenibili anche mediante clonazione, sia una grande promessa di guarigione per milioni di malati, quando è risaputo che nemmeno la sperimentazione su cavie animali ha dato finora risultati positivi (cfr. Koerbling M., Eastrov Z., Adult stem cells for tissue repair – a new therapeutic concept? , “New England Journal of Medicine”, 329, 2003, pp. 570-582) e anzi ne ha dati di negativi (cfr. Marx J, Mutant stem cells may seed cancer, “Science”, 301, 2003, pp. 1308-1310).
Ritengono che la ricerca sulla clonazione umana “terapeutica” non vada giudicata in base a criteri etici ma unicamente in base a criteri scientifici, i quali tuttavia suggeriscono l’abbandono delle infruttuose ricerche con le staminali embrionali, che rappresentano unicamente un ostacolo all’intensificazione degli studi sulle portentose staminali “adulte” (cfr. Knight J., Biologist fear cloning hype will undermine stem-cell research, “Nature” 430, 2004, p. 817).
Rivendicano la “neutralità” della ricerca scientifica, eppure si oppongono invariabilmente alla clonazione di tipo riproduttivo, ritenendola, incoerentemente, “pericolosa” e “indegna” dell’essere umano. Sul piano etico, tuttavia, la clonazione terapeutica è perfino più grave di quella riproduttiva, perché oltre ad essere contraria alla dignità umana nella modalità di esecuzione del “concepimento”, che si risolve nella creazione di una “copia genetica” di una persona esistente, elimina il concepito per presunti scopi terapeutici.
Quali sarebbero poi tali benefici terapeutici? L’obiettivo è notoriamente quello di trarre da tali cloni cellule staminali embrionali compatibili con quelle del “donatore” di nucleo. Eppure, oltre ai menzionati insuccessi della ricerca con staminali embrionali, l’utilizzo di tali cellule provenienti da cloni presenterebbe i rischi di anomalie associati alla pratica stessa del trasferimento di nucleo, che potrebbe produrre embrioni vitali ma con cellule anomale, cioè portatrici di errori genetici dovuti alla mancanza del rimescolamento cromosomico proprio del processo di fecondazione.
Nella clonazione, infatti, il punto di partenza non sono i patrimoni genetici materno e paterno, presenti in numero dimezzato nei gameti che si uniscono per formare il nuovo individuo, ma unicamente quello dell’individuo “originale”, da cui si trae il nucleo di una cellula somatica per introdurlo in una cellula uovo enucleata e attivata mediante un procedimento chimico.
Tale modalità riproduttiva asessuata esiste in natura come forma primitiva di propagazione della specie, appunto per il minore apporto di “novità” dovuto alla mancanza di un doppio corredo cromosomico cui attingere. Le infinite combinazioni geniche realizzabili a partire da due gameti sono un sistema ingegnoso ed efficace per assicurare la biodiversità necessaria alla salute del genere umano e contribuiscono all’unicità dell’identità (non solo biologica) della persona umana.
Laddove il rimescolamento genetico è ridotto da frequenti matrimoni con consanguinei è stata verificata la presenza di un maggior numero di patologie di origine genetica e congenita. Questo è ad esempio un problema presente nella cultura islamica, dove i matrimoni fra cugini di primo grado sono comuni. Le autorità di vari paesi islamici, in conseguenza di ciò, tentano di scoraggiare la deprecabile consuetudine.
Non si tiene dunque in adeguata considerazione il fatto che i problemi genetici derivati dalla scarsa o mancata innovazione genomica nella riproduzione si possono manifestare anche nella clonazione effettuata a scopo di ricerca, dal momento che cellule di cloni utilizzate per eventuali terapie su soggetti umani prolificherebbero, portando probabilmente più patologie di quante si speri di curare (cfr. Booth,P.J. et al., Numerical chromosome errors in day 7 somatic nuclear transfer bovine blastocysts, “Biology of Repropduction”, 68, 2003, pp. 922–928).
Anche se tali ricerche fossero foriere di buoni risultati applicativi, resterebbero gravemente immorali per la alterata produzione e sistematica soppressione di esseri umani allo stato embrionale. Ma curiosamente mali morali estremi e ribellione della “natura” vanno spesso di pari passo.
Così, si può affermare con sicurezza che uccidere vite umane innocenti deliberatamente è un crimine che non conosce attenuanti o giustificazioni, e la cui gravità ha necessariamente pesanti ripercussioni sugli uomini che compiono tali atti e su tutta la società. La distruzione programmata degli embrioni in vitro, talora creati appositamente a questo scopo, e addirittura clonati per sottolinearne il valore puramente strumentale, non produrrebbe un reale progresso nella ricerca scientifica, mentre sopprimerebbe la dignità umana in due modi: nella vita fisica dei piccoli clonati e nell’interiorità della coscienza dell’uomo, sacrificate a un delirio di onnipotenza faustiano.