Giovanni Cantoni: dall’11 settembre 2001 una guerra «mondiale» nel secolo XXI?
1. Dopo l’11 marzo 2004 non pochi hanno posto in sequenza i tragici accadimenti di Madrid, in Spagna, con quanto avvenuto negli Stati Uniti d’America l’11 settembre 2001. Quindi hanno maturato la convinzione che sia ormai in corso un conflitto mondiale, numerato come quarto di una serie di cui il primo sarebbe quello svoltosi dal 1914 al 1918, la cosiddetta Grande Guerra, il secondo dal 1939 al 1945, e il terzo dal 1946 al 1989, quest’ultimo in qualche modo occultato sotto l’eufemistica qualificazione di Guerra Fredda.
Dunque, dal 2001 sarebbe — rectius, è — in corso la quarta guerra mondiale. Rifletto sull’aggettivo «mondiale», che si contrappone con ogni evidenza all’ipotesi di un teatro non esteso all’orbe terracqueo, quindi dice in primo luogo riferimento a un parametro geografico.
Evocando anche altri parametri, per esempio quello relativo alle cause dei conflitti, una lettura accreditata e convincente — benché, come tutte le letture storiche, cioè tutte le ricostruzioni storiche, non solo controversa, ma pure strutturalmente non esauriente — interpreta le tre guerre del secolo XX come «guerre civili europee», coronamento delle guerre ideologiche nate con la e dalla Rivoluzione francese. Guerre civili europee che hanno tentato, e sono ampiamente riuscite, a interessare grosso modo il mondo tutto, sia come spazio che — ecco un secondo significato di «mondiale»— come partecipazione umana.
Dunque, si è sostanzialmente trattato di guerre europee combattute nel mondo e coinvolgenti molta umanità; quindi, di guerre mondiali in quanto combattute nel mondo e tendenti a coinvolgere il mondo grazie alla posizione di forza delle potenze europee impegnate in tali conflitti, prima stelle comete con code coloniali, poi pianeti con sistemi satellitari ideologici.
2. I caratteri enunciati permettono di definire anche il conflitto esploso l’11 settembre 2001 e proseguito l’11 marzo 2004? Tale conflitto è certamente mondiale nel senso geografico, o almeno tendenzialmente tale; ma non è altrettanto certamente una guerra civile europea, che semplicemente debordi e ricada oltre i confini dell’Europa continentale o della Magna Europa, dell’«Europa fuori dell’Europa». Infatti, con il 1989, cioè con la fine della terza guerra mondiale, il mondo bipolare non si è trasformato simpliciter in un mondo unipolare, con un’altrettanto semplice «fine della storia», ma si è svelato quanto era occultato dal semplicismo ideologico e dall’equilibrio del terrore atomico, cioè l’esistenza di un mondo multipolare, dunque di un insieme di «mondi» — e l’aggettivo che vi si riferisce è di nuovo«mondiale», in un terzo significato— di diversa caratterizzazione culturale e civile.
E in uno di questi mondi, quello di cultura islamica, è esplosa — o si è evidenziata — una sorta di guerra civile, questa volta non europea, benché con enormi ricadute sul mondo magnoeuropeo, sì che, allo stato, riesce difficile affermare con chiarezza e perentoriamente se è in corso una guerra fra mondi, quindi in questo senso mondiale, o una guerra civile intra-islamica, con ricadute anche in mondi diversi da quello islamico e combattuta anche contro mondi diversi da quello islamico, ma all’interno di una «logica» islamica. Questa logica comporta un’endemica contestazione delle istituzioni inette alla realizzazione del «paradiso in terra», coerente con l’assenza nell’orizzonte islamico del Peccato Originale. E ciò autorizza i mondi extra-islamici alla difesa in vista di assolutamente verificabili e verificate ricadute, autentici casi di «immissione» internazionali in tali mondi extra-islamici. Queste considerazioni suggeriscono di leggere tali casi come gesti di genere e non solo di specie.
Per attenersi agli accadimenti citati, costituiti dall’11 settembre statunitense e dall’11 marzo spagnolo, è lecito chiedersi se quest’ultimo sia effetto del coinvolgimento spagnolo nell’intervento angloamericano in Iraq oppure — piuttosto — dell’«imprudente» amicizia fra il Regno di Spagna e Al-Mamlakah al-Magrhr i b ê yah, la monarchia costituzionale del Marocco, con inconfessabili, reciproci «servizi segreti».
Su questa ipotesi trionfa però il teorema massmediatico, imposto dogmaticamente, secondo cui «il governo guidato da José María Aznar è stato punito dal terrorismo per essersi schierato con i governi anglo- americani e dagli elettori per aver mentito sui responsabili degli atti terroristici in quanto ETA oriented», teorema che prescinde serenamente dai marocchini arrestati e materialmente coinvolti. Ma — si dirà — «… e la menzogna»? Rispondo con un aforisma del pensatore colombiano Nicolás Gómez Dávila (1913-1994): «La divulgazione senza limiti di notizie, imposta dai mezzi di comunicazione di massa, ha fatto sì che la menzogna pubblica assuma, nello Stato, la funzione tradizionale del segreto» ( 1 ).
Allo stesso modo potrebbe essere opportuno chiedersi se l’11 settembre2001 non vada inquadrato in uno scenario di fondo teologico-apocalittico piuttosto che come risposta all’umana — e umanamente lontana — Guerra del Golfo del 1991.
3. Comunque, il desiderio di capire e, quindi, di risolvere o, almeno, di fronteggiare e di contrastare situazioni drammatiche, non può e non deve privilegiare letture semplicistiche dei fatti e delle situazioni, che invece devono trovare certificazione e verifica anzitutto nelle dottrine, negli orizzonti dottrinali all’origine di quanto accade. Perciò, nella ricostruzione e nell’interpretazione dei fenomeni in corso, non ci si deve lasciar depistare, per esempio, dall’uso di una strumentazione tecnologicamente più o meno avanzata, dal richiamo a qualche autore della storia ideologica occidentale, colto letteralmente e non come metafora culturale, e neppure dallo stesso carattere asimmetrico, utopico — nel caso, non «proprio di un luogo che non esiste», ma, piuttosto, «proprio
di un luogo che non si sa dov’è»— e sincronico dei conflitti in corso.
Essi, infatti, non hanno come unici protagonisti gli Stati Nazione o«Stati moderni», necessitano di una base territoriale irrilevante, sono senza teatro definito a causa della loro a-cerimonialità, della loro radicale irritualità — niente dichiarazioni diplomatiche né attraversamento di confini — e impongono una «risposta preventiva», rispetto alla quale la formula «guerra preventiva» è decisamente fuorviante.
Sempre quanto all’uso di sistemi d’arma, non deve sfuggire che la loro qualità tecnologica non costituisce elemento caratterizzante lo stato conflittuale in atto, poiché il potere che «fa la differenza» non è più quello atomico e/o quello al momento tecnologicamente più raffinato— un potere per certo non irrilevante, ma altrettanto per certo non qualificante—, ma in genere il terrorismo, in specie il terrorismo «suicida»: infatti, il nuovo sistema d’arma è il terrorista spesso suicida.
Se l’umanità tutta, nel secolo XX, ha temuto l’Occidente perché armato di armi atomiche, di cui ha sperimentato la mostruosa nocività nel 1945 in Giappone, distinguendo fra l’arma e chi la poneva in opera, temendo la prima e disinteressandosi sostanzialmente del secondo, oggi l’umanità non teme tanto l’arma, sostanzialmente di routine quando non con l’aspetto di un prodotto frutto di bricolage più o meno illecito, quanto chi la pone in opera.
Sia detto di passaggio: che sapore provinciale e che suono obsoleto ha la passione per il settimo comandamento, «Non rubare», della stagione di Mani Pulite! Che differenza fra la mazzetta e la cintura carica di esplosivo!
Torniamo a noi per notare, e far notare, come chi tale arma pone in opera è uno dei possibili tipi di homo islamicus.
Stando le cose nei termini illustrati, riesce in un certo senso comprensibile che, per spiegare all’uomo occidentale, magnoeuropeo, la pericolosità di una situazione e di un avversario storici, la si sia rappresentata quasi metaforicamente attraverso le cosiddette «armi di distruzione di massa» e il pericolo da esse costituito piuttosto che, realisticamente, come pericolo rappresentato da un «prodotto culturale», da un tipo umano.
Infatti il pericolo vero non è costituito da cose, da sistemi d’arma secondo vecchi scenari o da armi specifiche, né da nuovi artifici procedurali, ma da uomini, da combattenti, e dalla cultura che li giustifica e, ancor prima, li forma.
La difficoltà a farsi capire, a comunicare, e quella a comprendere, è consistente. Dopo secoli, nel corso dei quali, fra noi occidentali, si è messo in risalto pressoché esclusivamente quanto fa gli uomini uguali fra loro — e non è certo poco —, riservando la differenza solo alla barba o ai baffi oppure a dettagli comportamentali, oggi, per illustrare la differenza e per avere qualche chance di venire intesi, si deve far ricorso alle cose. Ma le cose non sono assolutamente sufficienti.
Quanto tempo, quanto sforzo pedagogico e propagandistico, quante e quanto tragiche esperienze saranno necessarie perché si colga la rilevantissima diversità costituita dalla cultura intesa in senso antropologico?
Quando si riuscirà di nuovo a rilevare e a far rilevare quanto fa la differenza fra gli uomini — singoli e gruppi umani —, gli elementi qualitativi, per quindi evidenziare che, come fra le uguaglianze regna la quantità, fra le disuguaglianze ha corso la gerarchia? Solo allora si ridurranno alle loro reali proporzioni gli elementi soggettivi — correnti — secondo cui «qualcuno non vuol capire» e/o«qualcuno non si vuol far capire», o«è solo questione d’intendersi» fino all’eterno «è solo questione di parole», che alimentano parte consistente del dibattito pubblico e privato, e non solo quello dei talk show. E che alimentano, soprattutto, la pretesa risolutiva e illuminante di un «dialogo» che nasce comunicazione fondamentale, non chiacchiera, ma che può essere ridotto a chiacchiera.
4. Nel messaggio per la Giornata Mondiale della Pace per il 2004, Papa Giovanni Paolo II ha descritto gli uomini come esposti a «la tentazione di fare appello al diritto della forza piuttosto che alla forza del diritto» ( 2 ). Poiché ha pure parlato de «l’arbitrario uso della forza»( 3 ), con ciò prevedendo — con ogni evidenza — anche un uso non arbitrario della forza stessa, esamino l’ipotesi di un «appello al dovere della forza esercitata senza sottrarsi alla forza del dovere».
La forza non è un optional e, per chi ce l’ha — o per chi deve gestire istituzionalmente quella che ha —, comporta un suo uso doveroso. Ma, talora, pare manchi il senso di questo dovere: pare non si senta l’urgenza del «dovere della forza» ignorando la «forza del dovere». Quando poi si esamini la forza anche nel suo momento quantitativo, tale elemento non è irrilevante, ma ridonda in qualità e in responsabilità. Sì che la forza si rivela essere anche un talento da spendere. A proprio e ad altrui vantaggio. Consapevoli del rischio costituito da un uso arbitrario di essa, ma non meno consapevoli dell’arbitrio costituito, in taluni casi, da un suo non uso, che sembra prevedere come causa solo un nobile«non aver disperato nella bontà degli uomini», mentre comporta almeno anche un «non aver tenuto conto della malizia degli uomini». In analogia, quanti hanno riflettuto sul fatto che «giudizio temerario» non è solo quello che comporta squalifica di qualcuno, ma anche quello che attribuisce a qualcuno qualità che non ha?
5. Dunque, siamo in guerra, e la guerra è mondiale non solo nel senso che è estesa a tutto il mondo e che coinvolge porzioni rilevanti di umanità, ma — soprattutto — è fra mondi culturalmente caratterizzati, quindi fra culture, fra civiltà, intendendo entrambi i termini anzitutto in senso descrittivo — visioni del mondo condivise da intere comunità umane — e non prescrittivo: «guerra fra cultura e ignoranza» o«guerra fra civiltà e barbarie».
Siamo dunque allo «scontro di civiltà»? Sembra di sì, e non è stato proclamato né dall’Occidente né, tantomeno, da chi di tale scontro ha rilevato acutamente le condizioni.
Certo, sarebbe stato — e sarebbe— decisamente meglio una convivenza; meglio ancora un incontro, addirittura una concorrenza sul piano mondiale: ma la concorrenza presuppone libertà e regole. E quando l’unica regola per l’esistenza di una civiltà e la diffusione di una cultura necessitano, secondo alcuni fra quanti ne vivono, del presupposto della detenzione del potere da parte dei portatori di tali cultura e civiltà, agli altri — e non a tutti — lasciando la condizione di «protetti», di dhimmi, senza la possibilità di proporre, non d’imporre, la propria cultura e la propria civiltà, agli altri — a tutti gli altri — s’impone, cioè viene imposta, la «legge della forza». Una condizione nella quale va ringraziato Iddio di avere tale forza e bisogna pregare Iddio che chi è responsabile del suo esercizio non si sottragga e non resista alla forza del dovere.
Giovanni Cantoni
Cristianità N. 321 gennaio-febbraio 2004
( 1 ) NICOLÁS GÓMEZ DÁVILA, Escolios a un texto implícito II, Instituto Colombiano de Cultura, Bogotá 1977, p. 170.
( 2 ) GIOVANNI PAOLO II, Messaggio per la celebrazione della «Giornata Mondiale della Pace. 1° Gennaio 2004», dell’8-12-2003, n. 5.
( 3 ) Ibidem.