Lo chiamavano Rinascimento
Per quattordici anni la Campania ha creduto all’età dell’oro promessa da Bassolino. Spazzatura e malavita, netturbini inermi e spacciatori dodicenni. Ecco cos’è rimasto nell’Eden di Napoli…
«Napoli cambierà, è normale. L’unica cosa che non cambia mai è che si parla sempre di come cambierà la città». Massimo Troisi.
Antonio Bassolino ha sempre sognato di far diventare Napoli la Parigi del sud. Qualche anno fa lanciò l’idea di far partire una nave da New York per farla approdare in città. Chissà lo sbalordimento dei figli degli emigrati nel conoscere la città del cielo azzurro e dell’anima nera, fino ad allora immaginata solo per i racconti dei padri; poterla finalmente respirare nuova e luccicante dopo due lustri di gestione bassoliniana. Nell’estate 2001 il settimanale Newsweek dedicò all’iniziativa un articolo. Il titolo era: “Non ridete”. Sei anni dopo l’America è tornata a parlare di Napoli per sconsigliare ai propri connazionali le ferie in città: troppo alto il rischio di malattie, causa spazzatura ansimante ai bordi dei vicoli. Non è stato un buon anno per il turismo, non è stato un buon anno per Napoli per tanti motivi. Gli ultimi numeri del Viminale dicono che la provincia napoletana ha il record di omicidi (97 nel 2006, aumento del 10,2 per cento) e delle rapine (14.045 sulle circa 50 mila che avvengono in tutta Italia. Milano, seconda in classifica, ne conta 5.491). I furti in casa sono aumentati del 10,7 per cento, le aggressioni armate del 12,6. Su scippi e borseggi città come Milano, Roma, Torino e Genova vanno peggio, ma questo solo perché – ha dichiarato Sergio Fedele, dell’associazione Napoli punto a capo – non li denuncia più nessuno». Così come nessuno sembra più badare al “mercatino della spazzatura” di corso Garibaldi. Ogni giorno rom, extracomunitari e qualche napoletano vendono ciarpame trafugato dai cestini dell’immondizia.
Chi solo prendesse l’autobus per girare tra le vie di Scampia, periferia nord della città, potrebbe trovare in bella mostra sopra le uscite del suddetto mezzo di locomozione il cartello «’O motto ‘e l’autista è chistu ccà: ‘nu viaggio è meglio a s’io fa’ ca a s”o aizà!». Lo stesso cartello riporta, a caratteri più minuti, la traduzione: “è meglio viaggiare che alzare pesi” e, per dare un tocco di internazionalità, casomai passasse per il quartiere malfamato un giapponese fotocameramunito, anche la versione in inglese: “Is better one travel than one work”. Per il resto Scampia è l’inferno della Gomorra di Roberto Saviano, il quartiere dell’attività, cioè lo spaccio di droga, e dell’altra attività, cioè la compravendita di pistole e fucili. Ai limiti di questa terra di confine esistono due campi rom, uno dei quali, quello abusivo, è abusivo da vent’anni. Ma qui gli zingari non creano problemi: ben si guardano dal fare scippi per le strade, ché sono in terra di lupi, e i lupi conoscono i simili all’olfatto. Vanno in centro a fare i furtarelli, ma qui non s’azzardano, pena finire in qualche campo con la testa maciullata da un colpo alla nuca. A Scampia la media degli omicidi ha raggiunto la media annuale di 108, i ragazzini iniziano a spacciare a 12 anni, l’ultima moda si chiama Cobrette, il “morso del cobra”, scarti di eroina da sniffare su carta d’alluminio. Qui il 16 settembre 2005 è stato preso Paolo Di Lauro, Ciruzzo ‘o milionario, il boss dello spaccio di Scampia e Secondigliano, «uno dei trenta malviventi più pericolosi d’Italia», ha detto la polizia.
Mesi prima, per le strade del quartiere, i compaesani avevano raccolto i cadaveri di una settantina di diavoli, vittime della faida tra il clan Di Lauro e gli Scissionisti. In questa caienna di cinquantamila abitanti sta il simbolo della Napoli che non può cambiare, quelle Vele che nelle intenzioni avrebbero dovuto essere le abitazioni del riscatto, della “nuova maniera di pensare” la casa e la vita, simbolo della redenzione dal degrado, dall’eroina, dal male di vivere. Invece le Vele sono ancora lì, come un marchio di disperazione sulla carne viva dei napoletani. Alle Vele si fa l’attività, e anche l’altra. Ci si mette pazientemente in coda davanti alla porta aspettando il turno come al supermercato. Si ordina e si paga, come al supermercato.
«Scampia, parola di un dialetto napoletano scomparso, definiva la terra aperta, zona d’erbacce, su cui poi a metà degli anni 60 hanno tirato su il quartiere e le famose Vele. Nel 1989 l’Osservatorio sulla Camorra scriveva che nell’area nord di Napoli si registrava uno dei rapporti spacciatori-numero di abitanti più alti d’Italia. Quindici anni dopo questo rapporto è divenuto il più alto d’Europa e tra i primi cinque al mondo». Roberto Saviano, Gomorra, Mondadori, 2006.
Girato l’angolo si entra in un altro mondo. è quello che circonda il quartiere don Guanella, che prende il nome dalla chiesa dedicata al sacerdote che aveva nel suo motto “in omnibus charitas” il senso della sua missione. Qui opera don Aniello Manganiello, prete tosto che, solo qualche settimana fa, il sindaco Rosa Russo Jervolino ha minacciato di querela perché ha osato dire quel che anche i muri sospirano: c’è collusione tra politica e camorra. Don Aniello è riuscito nell’impresa di costruire un piccolo paradiso all’inferno, un paradiso dove «si può uscire alla una di notte». In effetti, il rione don Guanella non è Scampia. La Messa domenicale è affollata, l’oratorio brulica di bambini, mamme e papà che corrono dietro un pallone, fanno catechismo, danno linfa a un convitto che ospita 300 minori a rischio. «E intendo figli di malavitosi, camorristi, ladri, drogati, ragazze madri. Il segreto è l’accoglienza, prendo tutti, anche quelli che vengono qui solo per fottermi i soldi». A proposito: il Comune è da un anno e mezzo che non dà più un euro dei fondi previsti. «E la Regione ci ha inviato, con un anno di ritardo, i soldi promessi. Sto parlando di 1.500 euro. Briciole che gli rimanderò indietro».
«La sinistra napoletana che ha amministrato dal ’75 all’83 e dal ’93 a oggi, e cioè per oltre un ventennio, era convinta di possedere questo di più. Credeva di custodirlo nella diversità berlingueriana, nell’organizzazione di partito, nel senso dello Stato, nei rapporti di massa, nell’egemonia culturale, nell’esperienza della propria classe dirigente. E tuttavia era una convinzione infondata. La sinistra napoletana ha un passato nobile, ma è stata settaria, moralista, arrogante e, negli ultimi tempi, tanto autoreferenziale da credere che per cambiare il Mezzogiorno fosse sufficiente la sua sola esistenza». Marco Demarco, L’altra metà della storia, Guida prima pagina, 2007.
Un compaesano di Bassolino, il grande attore Toni Servillo, nato come lui ad Afragola, recitò nel 1997 in un episodio del film I vesuviani. Servillo, novello Sisifo, s’affaticava trasportando sulla cima di un monte non un masso, ma una fascia tricolore. Ai più apparve splendente metafora dell’eroismo del primo cittadino, indefesso titano ligio al suo dovere. Poi il regista Mario Martone spiegò: «Era un apologo malinconico che anticipava la parabola successiva del sindaco; l’approdo era un Vesuvio deserto, proprio come il deserto che oggi sentiamo dentro di noi quando vediamo in che condizioni è ridotta Napoli». Di recente, lo scrittore napoletano Ermanno Rea, il nostalgico cantore dell’operaismo meridionale, quello che immaginava i suoi protagonisti che facevano l’amore in barca con un occhio all’amata e l’altro al profilo dell’ex Italsider, ha detto a Repubblica: «Il cosiddetto Rinascimento napoletano è stato una fonte di equivoci a non finire. Sarebbe stato necessario orientare la città verso un impegno collettivo nel senso della legalità. Ma invece di rivoltarla come un calzino, Napoli è stata oggetto di rassicurazione».
La fine dell’illusione ha così la sua certificazione. «Il Rinascimento bassolinano è finito perché non è mai cominciato», dice a Tempi Alessandro Sansoni, ipercinetico presidente dell’Azione Giovani locale. Un miraggio, una spruzzata di vernice fresca su una parete scrostata. Da questo punto di vista, a firmare feroci e documentate analisi ci hanno pensato Giorgio Bocca col suo Napoli siamo noi, Saviano col suo Gomorra, le due copertine dell’Espresso, ma soprattutto Marco Demarco, direttore del Corriere del Mezzogiorno, ex vicedirettore dell’Unità, autore de L’altra metà della storia. Spunti e riflessioni da Lauro a Bassolino. Quando l’ha presentato, a maggio, il ministro ds Luigi Nicolais ha dichiarato: «Io al posto di Bassolino mi sarei dimesso».
«Bassolino ha sempre un passato per giustificarsi e un futuro per illudere». Marco Demarco, L’altra metà della storia.
Il saggio di Demarco è impietoso nello snocciolare dati e aneddoti sulla miserevole politica di Bassolino, l’uomo che ha guidato Napoli dal 1993 al 2000, che oggi è governatore della Regione, ma che forse presto lascerà perché, come rammenta a Tempi il deputato di An Enzo Nespoli, «il 26 novembre deve presentarsi davanti al gup per l’udienza preliminare. è facile che non termini il mandato. Sta cercando una via di fuga». Bassolino è rinviato a giudizio per truffa aggravata e continuata ai danni dello Stato, frode in pubbliche forniture e violazioni ambientali. Dall’inchiesta emerge che, come lui stesso ha ammesso in un’intervista, non ha mai letto i contratti che ha stipulato. Fine amara per l’uomo a lungo emblema della sinistra vincente. Addirittura nel film Ferie d’agosto di Paolo Virzì (1995) il marito Silvio Orlando rimbeccava alla moglie Laura Morante che le sue prestazioni amorose erano state tre e non due quell’anno, «perché l’abbiamo fatto anche quando è stato eletto Bassolino».
L’uomo che poteva permettersi di grugnire a Giuseppe D’Avanzo di Repubblica che «a Gava posso dire soltanto di andare a fare in culo», senza che alcuno si scandalizzasse, che aveva promesso, varcando per la prima volta il portone del municipio a Palazzo San Giacomo, che «con me i napoletani impareranno a fermarsi al semaforo rosso», oggi deve subire i dardi di Demarco senza scudi d’argomenti per ripararsi. L’uomo che governa da oltre 14 anni – molto più di Lauro, Gava, Valenzi e Pomicino – deve trovare oggi risposte alle scomode domande di un ex dell’Unità: «Alle amministrative del giugno ’92, proprio quando stava per esplodere la questione morale, a Napoli la Dc di Gava, Scotti e Pomicino raccoglie il 30 per cento, il Psi di Di Donato il 20, i Ds l’11. Scarsa legittimazione morale e ampio consenso: questo il dilemma di allora. E quello di oggi?».
Oggi, anche la sinistra napoletana (soprattutto quella aristocratica del presidente Giorgio Napolitano) ride di gusto delle sue disavventure. L’ultimo a metterlo alla berlina è stata Italia Oggi che ha raccontato che a Napoli è nata la prima scuola per dj, in collaborazione con la Cgil. E questa volta non si sono trovati i cantori dell’idea come nel 2003, quando Bassolino prelevò dai fondi europei un milione e 280 mila euro per organizzare un corso per diventare veline. In dieci mesi: 600 ore di lezione per le 97 aspiranti showgirl che ricevettero la promessa di partecipare a un programma tv. Finì con un attestato di figurante, una stretta di mano e un contratto part time di 10 ore per uno stipendio di 250 euro lorde al mese.
Le frecce gli giungono su tutti i lati. Nel 2004 in spese di rappresentanza ‘o governatore ha usato qualcosa come 962.506 euro, dodici volte quello che è bastato al presidente della Germania, Horst Köhler, tre volte in più di Roberto Formigoni. A inizio anno, l’Università Bocconi ha certificato che un milanese paga il doppio dei contributi rispetto a un napoletano, ma riceve dallo Stato meno di un quarto. Esemplifica Demarco: «Per ogni 811 euro di tasse del signor Brambilla, Roma rimanda in Lombardia 150 euro; mentre per ogni 452 euro versati dal signor Esposito, Roma rimette a Napoli 602 euro. Nonostante questo, Milano spende una media di 193 euro a residente per ogni bambino, Napoli solo 106». Tuttavia, tra le grandi città, «Napoli è la più ricca: ha un patrimonio pari a 5.321 euro a cittadino, quasi il doppio rispetto a Roma, tre volte quello di Torino». Il tasso di di-soccupazione è al 31 per cento, tre volte quello di Roma, quattro volte quello di Torino. Case abusive: 9.292 censite nel 2004 (è prima in Italia); in Lombardia, per fare un raffronto con una regione più popolosa, sono 1.510. Sebbene anni fa la camorra fosse stata derubricata da Bassolino a «fenomeno di piccola criminalità diffusa» (La Repubblica delle città, 1996), oggi i dati dicono che ‘o sistema conta un centinaio di clan, più che nel ’93. Ogni anno taglieggia più di 50 mila aziende. La camorra ai tempi di Bassolino fattura qualcosa come 18 miliardi di euro.
«Fuitevenne». Eduardo De Filippo, trent’anni fa, ai giovani napoletani.
Ce n’è da riempire un libro, appunto come ha fatto Demarco. Ma il fatto politicamente più rilevante è il disincanto con cui, dopo tre lustri di sogni leggiadri, oggi a raccontare quel che tutti vedono non sono solo esponenti e giornali di centrodestra (qui, per la verità, poco carismatici), ma la sinistra disillusa. Altro esempio: l’ex area Italsider, la famigerata Bagnoli. Per rimetterla in moto nel 1984 Napoli ricevette un finanziamento di mille miliardi di lire. Bassolino, allora parlamentare comunista, dopo l’ennesimo fallimento, scese in piazza per non far chiudere l’industria e licenziare 25 mila persone. Da sindaco, poi, lanciò l’idea di farci un parco. Ad oggi, la bonifica è ancora da finire. I soldi ci sono: tra Finanziaria e fondi europei sono stati raccolti circa 175 milioni di euro, più altre forme di finanziamento attraverso operazioni bancarie. Risultato? Tutto fermo.
Un giovane politico locale, Pietro Foderini, racconta a Tempi la storia infinita di quella che ai napoletani è stata spacciata come la “Copacabana del futuro”. «La spiaggia è inquinata, l’amianto è a cielo aperto, sotto la famosa colmata c’è di tutto. La gente è arrabbiata. E pensare che questa è la zona della sinistra operaia, da cui ormai scappano tutti», stanchi delle promesse di riqualificazione, delle Coppe Americhe dei sogni, dei parchi disneyani. «Adesso hanno portato qui cumuli di sabbia per ricoprire la spiaggia. Le montagnette sono ancora lì. Forse sperano che nevichi per rilanciare il turismo invernale». Tipico umorismo napoletano. Ma non era da ridere la risposta che le autorità hanno dato ai cittadini per rassicurarli sulla non nocività del luogo: «Se non mangiano la sabbia, i bambini non corrono pericoli».
Lo scandalo, secondo Demarco, è il caso dei lavoratori socialmente utili: «In un sol colpo, durante la gestione Bassolino, ne vengono assunti 2.316. Dovrebbero occuparsi della raccolta differenziata, ma in realtà, per loro stessa ammissione, non fanno nulla». Il risultato è che per ogni netturbino lombardo ce ne sono 25 campani. L’aspetto tragico è che godono di un contratto a tempo indeterminato da 1.200 euro al mese. Allo scadere della gestione straordinaria guidata da Bassolino (2000-04) secondo la “Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse” sono stati spesi 897.012.010,44 euro che, per Guido Bertolaso, sono in gran parte finiti «nelle casse della camorra».
«È in vendita il “Tom Tom Munnezza”. è il classico Tom Tom con l’aggiunta di un nuovo “punto d’interesse”, i Cdi, i Cumuli di immondizia». eBay, 14 novembre 2007.
La spazzatura intanto c’è ancora. L’hanno solo spostata nei paesi limitrofi. «Napoli è una fogna a cielo aperto», dice Nespoli, «e la camorra la fa da padrona». Ogni giorno la città produce circa 2 tonnellate di rifiuti che, secondo un esperto come Antonio Cavaliere, equivale a dire che ogni giorno viene innalzata «una palazzina di immondizia di due appartamentini su due piani. Nell’arco di un anno si occupa lo spazio di un quartierino di 365 villette a schiera». Altri calcoli dicono che sono state prodotte in Campania circa 5 milioni di ecoballe. Messe in fila, con partenza da Napoli, raggiungerebbero Londra e tornerebbero indietro.
Le ecoballe sono ora a Taverna del Re a Giugliano, in una zona ampia come 700 campi di calcio. Spiega a Tempi un anonimo dirigente del ministero dell’Ambiente che le ecoballe sono poco eco e molto balle: «L’emergenza è continua. Le ecoballe non possono essere smaltite perché sono state trattate male all’origine, per cui non possono in futuro nemmeno essere riciclate. Da questa situazione non se ne uscirà finché non partirà una seria raccolta differenziata su tutto il territorio (ma in Campania si aggira intorno al 10 per cento, ndr) e finché non andrà a regime il termovalorizzatore di Acerra, la cui apertura è prevista per l’anno prossimo, forse». Così la gente si arrangia come può e getta la spazzatura dove trova. Non senza conseguenze, però. In Campania è concentrato il 43 per cento dei siti inquinati italiani. Nel triangolo Nola, Acerra e Marigliano il cancro al fegato raggiunge un indice di mortalità di tre volte superiore alla media nazionale (che è del 14.0 ogni centomila abitanti). La situazione è così paradossale che davanti ad alcune discariche illegali le autorità hanno piantato grotteschi cartelli con scritto: «è vietato gettare immondizia nelle discariche abusive». Pasquale Losa, presidente dell’Asìa (Azienda speciale igiene ambientale di Napoli), confida a Tempi che «è prevista per il 20 dicembre la chiusura di Taverna del Re. A fine anno scade il mandato del prefetto Alessandro Pansa da commissario straordinario. E dopo? Non so. Certo non festeggeremo il capodanno». Lo sa bene Losa, a capo della struttura che dovrebbe rimuovere l’immondizia dalle strade. Se guarda fuori dalla finestra la vede accumulata sulla strada. L’Asìa è esattamente sul confine tra Napoli e Pozzuoli. Napoli ha spostato la sua monnezza a Pozzuoli e Pozzuoli gliel’ha rimessa sotto il naso.
di Boffi Emanuele
Tempi num.47 del 22/11/2007 0.00.00