Padre Tan, 30 anni di gulag e fede incrollabile
Per avere organizzato un pellegrinaggio, dal 1953 al 1983 è stato ai lavori forzati:«Freddo e fame? Una grazia, così ho potuto testimoniare»…
«Tra i compiti affidatimi ci fu anche quello di seppellire i morti. Eravamo nel mezzo di una grande carestia e nulla poteva essere sprecato. Nemmeno le bare. Così, per non gettare i cadaveri nel mucchio, fabbricammo una cassa con il fondo girevole: il morto veniva messo nella bara e scaricato nel fosso. E noi tornavamo con la cassa a caricarne altri». È un racconto di durissima persecuzione, il suo. Di fame e gelo. Di torture crudeli. Eppure mai, dalle labbra di padre Francesco Tan Tiande, escono parole di odio, qualcosa che tradisca voglia di vendetta. Al contrario, di tanto in tanto, il suo volto levigato si apre al sorriso. Com’è possibile rievocare trent’anni di lavori forzati e parlarne come di «un’immensa grazia»? Lui lo spiega così: «Quando ho ricevuto la cresima, ho promesso di essere un soldato di Cristo; quando sono stato ordinato sacerdote, ho rinnovato la mia obbedienza al Signore. Nel momento della prova, ho finalmente avuto la possibilità di testimoniare la mia fedeltà a Gesù». La storia di padre Tan Tiande è nota a gli addetti ai lavori: «La mia vita per la Cina» uscì nel 1990 su Cina oggi, supplemento di Asia News. Ma ascoltarla dalle labbra del protagonista ha un effetto speciale. «Dal 1953 al 1983 – attacca – ho vissuto in campi di lavoro: inizialmente in una fabbrica di mattoni nei pressi di Guanzhou, poi nell’estremo Nord-Est, ai confini con la Russia. Dovevamo disboscare un’area per coltivare il grano. Dissodavamo il terreno tirando l’aratro al posto dei buoi». Che cosa le ha pesato di più in quel periodo? «In primo luogo la fame: ci davano ogni giorno due panini, ma era davvero troppo poco. Ricordo poi il freddo terribile: il termometro scendeva a meno 30 gradi e anche più giù. Per affrontarlo avevamo berretti di pelo e scarpe di pelle imbottite col fieno. Ma era impossibile adattarsi a quelle temperature. Specie per uno del Sud come me». E dal punto di vista spirituale? «La sofferenza più acuta è stata l’impossibilità, per un periodo così lungo, di avere contatti con altri fedeli, con la Chiesa». In quegli anni – aggiunge – «l’unica preghiera possibile è stata quella nel segreto del cuore». Nel narrare la sua tormentata vicenda, padre Tan di frequente allude spesso alla Provvidenza di Dio, «grande e misteriosa». «È la Provvidenza – spiega convinto – che ha fatto sì che finissi al Nord: fossi rimasto a Guangzhou, le guardie rosse mi avrebbero picchiato a morte fino a uccidermi, come capitato a molti miei confratelli». È la provvidenza – insiste – ad avergli assicurato una fibra forte, un fisico grazie al quale negli anni del seminario padre Tan si è distinto nelle gare di atletica e oggi gli permette, alla bellezza di 89 anni – dopo tutte le prove passate e le privazioni subite – di essere ancora sulla breccia. Tutta l’esistenza del coraggioso sacerdote è stata sotto il sigillo del martirio. Quando viene ordinato sacerdote nel 1941, è in corso l’occupazione giapponese. A guerra finita, si reca nell’isola di Hainan e lì vi rimane per tre anni, prodigandosi a servizio della popolazione. Ma la malaria lo blocca costringendolo a lunghi mesi di ricovero. Nel 1952 ritorna nella natale Guangzhou, «perché amavo il mio gregge». Nel maggio dell’anno successivo organizza un grande pellegrinaggio al santuario mariano di Sheshan, nei pressi di Shanghai. Quel gesto lo rende “persona non grata” al regime. Di lì a qualche mese padre Tan finisce sulla lista nera: il 5 agosto i suoi “crimini” vengono resti noti sui giornali, preludio all’arresto, che il sacerdote affronta con una forza interiore straordinaria. Nel gulag viene sorpreso a parlare di argomenti religiosi con un compagno di lavoro protestante e gli vengono inflitti altri dieci anni di pena. Tanto tenace è la sua fede, quanto si accanisce contro di lui la persecuzione: i responsabili del campo – racconta nel suo diario – lo usano regolarmente come zimbello di fronte agli altri prigionieri. Nel 1966 torna in libertà vigilata. Tuttavia, le sue richieste di permessi per tornare in famiglia vengono regolarmente disattese. Al punto che padre Tan, nel 1975, decide di scappare. Qualche ora di treno, poi il nuovo arresto, cui segue una punizione esemplare. Dovranno passare altri 8 anni, numerose domande di rilascio (e un’infaticabile trattativa condotta da un nipote negli Usa) perché il sacerdote riacquisti la piena libertà. Appena stampata la sua autobiografia, priva com’era dell’autorizzazione dell’Associazione patriottica, è stata ritirata dalla circolazione. Ma padre Tan non è tipo da stare fermo. «Molta gente in questi anni è venuta a incontrarmi ed è rimasta colpita dalla mia testimonianza». Un solo rimpianto: «Non ho avuto possibilità di accostare i giovani: non sanno le sofferenze che ho patito».
di Gerolamo Fazzini
Avvenire – 24 agosto 2005