Se Fassino copre gli assassini dei preti martiri
Parliamo delle medaglie d’oro da attribuire ai sacerdoti uccisi durante (e dopo!) la guerra civile dai partigiani comunisti. Perché loro, no? Cos’è questa dimenticanza? Un’idea ce l’abbiamo, e la diciamo dopo. Il problema lo solleva Bruno Vespa nel suo libro di prossima uscita “Vincitori e vinti“…
di Renato Farina
I preti morti che se ne fanno delle medaglie d’oro? Non se ne fanno niente. In generale questo vale per chiunque sia defunto. Ma per i preti di più. Puntano a un altro premio per la loro corsa – come diceva san Paolo. Il fatto è che siamo noi ad aver bisogno di quelle medaglie d’oro. Sono utili alla riconciliazione nazionale oltre che alla giustizia. Dicono un valore più grande dell’appartenenza politica, segnalano che la regola più grande è dare la vita per l’altro, chiunque sia, stargli vicino con misericordia senza domandare la tessera di un partito o la garanzia di essere dalla parte giusta. Qui parliamo delle medaglie d’oro da attribuire ai sacerdoti uccisi durante (e dopo!) la guerra civile dai partigiani comunisti. Perché loro, no? Cos’è questa dimenticanza? Un’idea ce l’abbiamo, e la diciamo dopo. Il problema lo solleva Bruno Vespa nel suo libro di prossima uscita “Vincitori e vinti”. Ne ospitiamo un capitolo. Vi si rievocano gli assassini di parroci e cappellani, il loro rapimento da parte di squadriglie di rossi. Le loro storie sono comparse anche nelle pagine di Giampaolo Pansa. Vespa ricorda: 14 sacerdoti uccisi dai nazifascisti hanno avuto la medaglia d’oro o d’argento alla memoria. Sono 130 quelli assassinati dai rivoluzionari rossi. Di essi almeno 92 nella solo Emilia Romagna.
Possibile che almeno alcuni di loro non siano degni di un encomio?
Come si potrà leggere, Vespa lo chiede a Romano Prodi e a Piero Fassino. Il Professore rivela di essere stato testimone, bambino piccolo, del rapimento di un prete da parte dei comunisti. Si dice d’accordo con Vespa.
Il segretario dei Ds invece sostiene di no, che non ci sono revisionismi da praticare con il clero. Le sue risposte le trovate qui sopra, e ciascuno giudichi. Da parte mia ritengo ci sia qualcosa di guasto, una meschinità inspiegabile in questo rifiuto. Non si tratta soltanto di un torto fatto ai morti, ma del furto di qualcosa che è essenziale per la buona vita dei vivi e delle future generazioni. Fassino afferma che da premiare sono le virtù di chi stava dalla “parte giusta“. La parte giusta – domando – è sempre e per forza quella vincente? Davvero la storia può essere trinciata come un pollo: di qua il bene, di là il male? Non mi interessa qui dire che tra coloro che provarono a farla finita con la dittatura nera ce n’era di quelli che morirono per affermarne una rossa e – rispetto al fascismo – certo peggiore. Non strapperò la medaglia d’oro dal petto di uno stalinista fucilato dai nazisti. Uno stalinista può essere – nel gesto di dare la vita – più grande dell’ideologia che professava. Le medaglie non devono onorare l’ideologia giusta ma quell’impasto misterioso di libertà e ragione per cui tra me e l’altro, scelgo l’altro. In questi territori non si gioca la corretta applicazione pratica di una ortodossia dottrinale sui temi della libertà e della democrazia,ma la stoffa dell’essere uomini, l’idea vissuta di un compito che hanno gli uomini. Perché la sinistra non è capace di capirlo? Di che cosa ha paura? Teme che nelle istruttorie storiche, inevitabili per verificare se un don Pessina ha meritato la medaglia, salti fuori qualche robaccia d’archivio in grado di sporcare la venerata memoria dei compagni? Coraggio Fassino. D’Alema dopo 60 anni ammette che non era il caso di ammazzare così il Duce. Quanti dobbiamo aspettarne per guardare con occhi puliti l’eroismo di alcuni preti e la mascalzonaggine assassina di gente con il fazzoletto rosso al collo? Ne abbiamo bisogno tutti. Le medaglie alla memoria infatti non serviranno a onorare chi se n’è andato, ma un’utilità ce l’hanno. Sono il modo con cui fissare con la preziosità del metallo la luce di una testimonianza. Segnalano il valore di un gesto e la bellezza di una figura che si riverberano oltre i confini di quel giorno e di quell’ora. Dicono: ragazzi, ricordiamoci di che cosa vivono gli uomini, qual è la fibra morale di una società. Qualcosa dura. Qui finisco se no scivolo nella retorica.
Libero 5 novembre 2005
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Fassino ha ancora paura dei preti uccisi dai partigiani
di Bruno Vespa
Dante Bottazzi, abbiamo detto, uccise anche un prete. Il numero dei sacerdoti uccisi dai partigiani dopo la Liberazione è impressionante e questo può spiegare in parte il terrore di Pio XII alla prospettiva che il Fronte popolare vincesse le elezioni del 1948. L’atteggiamento ufficiale del Pci nei confronti del clero era rispettoso, ma i partigiani dell’ala rivoluzionaria consideravano i sacerdoti nemici di classe. Un volantino diceva: « Prete. Tu con la scusa della tua fede hai vissuto alle spalle dei gonzi e dei creduloni. La volontà del Popolo schiaccerà il mito dei falsi. Per un solo Dio. Il Proletariato » . (…)
I DELITTI PARTIGIANI
Sul primo numero del 2001 della rivista cattolica « Il Timone » , Paolo De Marchi parla di 92 sacerdoti e seminaristi uccisi dai partigiani nella sola Emilia Romagna e ne riporta l’elenco, già pubblicato da Luciano Bergonzoni sull’ « Osservatore romano » del 1° novembre ‘ 95 insieme ai nomi dei preti vittime della ferocia nazista. (…) Complessivamente, i sacerdoti uccisi nel periodo considerato sono 729, così suddivisi per cause di morte: 57 caduti in combattimento, 31 cappellani militari morti o assassinati nei campi di prigionia, 18 deportati e morti nei campi di concentramento, 265 morti sotto i bombardamenti, 49 per malattie procurate dalla guerra, 30 dispersi, 279 « assassinati per rappresaglia o per odio di parte, o morti a causa delle sevizie e ferite subite per questi motivi » . (…) In un accurato studio del 2005 ( Storia dei preti uccisi dai partigiani) Roberto Beretta porta a 130 il numero dei sacerdoti vittime dei « rivoluzionari rossi » . (…) Le esecuzioni furono quasi tutte feroci: quelle dei tedeschi per lo più occasionali, quelle dei partigiani singolarmente mirate. (…)
IL MONITO DI BIFFI
Delitti orrendi e misconosciuti, ricordati dalla sola voce di Giacomo Biffi, cardinale di Bologna, che nel 1995 – cinquantenario della Resistenza – commentò così l’accaduto: « Questa impressionante serie di crimini dice che c’era a quel tempo il piano di impadronirsi politicamente della nostra società attraverso l’intimidazione della gente » . Prima di Biffi, questa tesi era stata proposta da un coraggioso sacerdote, don Lorenzo Tedeschi, che aveva fatto la Resistenza a fianco degli Alleati e che citò questo slogan attribuito a un comandante partigiano comunista: « Se, dopo la Liberazione, ogni compagno avesse ucciso il proprio parroco e ogni contadino il padrone, a quest’ora avremmo risolto il problema » . Concorda lo storico Alessandro Albertazzi: (…) « Esisteva un consapevole progetto ” terroristico” in funzione di un diverso sviluppo della democrazia in Italia » . Beretta cita anche Paolo Mieli: « Il numero di preti fatti fuori in quegli anni perché vicini alla Democrazia cristiana è davvero incredibile. Don Pessina, don Galletti, don Donati e tanti altri: non c’entravano nulla con i fascisti, al massimo avevano benedetto qualche salma di fascista ucciso, forse aiutavano la Dc a raccogliere voti… La verità è che furono uccisi da comunisti e che nessun assassino fu denunciato dal Pci. Ciò potrà un giorno essere serenamente studiato? Io spero di sì » . Il silenzio su questi episodi è stato interminabile. (…) nessun libro di qualche rilevanza ne aveva fatto menzione. Alcuni nomi sono ricomparsi 40 anni dopo nel libro di Pansa, e basta. Lasciamo la conclusione a Beretta: « Io avanzo una proposta provocatoria: 9 sacerdoti italiani uccisi dai nazisti e 5 dai fascisti sono stati insigniti di medaglie dalla Repubblica italiana, ma nulla è andato a nessuno dei 130 loro confratelli massacrati dai partigiani comunisti… Il 60 ° della liberazione potrebbe essere l’occasione per dare una medaglia anche ai miei ” preti morti”, quelli delle foibe e del ” triangolo rosso”; primi tra tutti, i sacerdoti partigiani uccisi dai partigiani » .
IL RICORDO DI PRODI
« Come si può essere contrari a riflettere su questo capitolo della nostra storia? » mi dice Romano Prodi. « L’importante è non farlo in maniera strumentale. È il grande problema della storia scritta nella carne viva » . Il Professore si adagia sullo schienale della poltrona, chiude gli occhi e rivede una scena lontana e drammatica: « Era la primavera del 1945 e avevo meno di sei anni. Ero appena uscito dalla messa al Ventoso di Scandiano, dove eravamo sfollati durante la guerra, quando vidi alcune persone sequestrare il prete e costringerlo a viva forza dentro un’automobile. Ci sono momenti che non si possono dimenticare e ancora oggi rivedo la mano di mia sorella Fosca che mi copriva con amore gli occhi perché io non vedessi. Seppi poi che fu ucciso » .
IL PADRE DI FASSINO
Piero Fassino teme che la rivisitazione della vicenda dei preti ammazzati dai partigiani possa prestarsi a strumentalizzazioni politiche: « Non ho naturalmente alcun pregiudizio a rendere giustizia ma bisognerebbe conoscere le circostanze in cui sono avvenuti quei delitti, e io non le conosco. In ogni caso è bene che un punto sia molto chiaro. Non possiamo compiere atti che assumano il senso di una revisione della storia del nostro paese. Dietro questa proposta – come anche dietro quella di parificare la scelta dei giovani che fecero la Resistenza con lo slancio dei giovani di Salò – c’è l’idea che, in fondo, le ragioni degli uni e degli altri erano ugualmente nobili. Io non penso che sia così. Io penso che c’era chi stava dalla parte giusta e chi dalla parte sbagliata. Mio padre mi ha insegnato questo » . Il padre di Fassino, Eugenio, era comandante della brigata Carlo Carli della Val di Susa. Fu citato da Radio Londra e fu anche arrestato dai fascisti. « Era un uomo di forte personalità » racconta il segretario dei Ds. « I suoi partigiani lo veneravano. La mostrina della brigata Carlo Carli era un rombo tricolore con un cappello da alpino e la scritta ” Dio in cielo, Geni [ Eugenio] in terra e noi in ogni luogo. 10 settembre 1943″. La mia infanzia è punteggiata di ricordi per dei racconti di mio padre: come quello della famiglia Piol che fu sterminata dai fascisti, il padre e i quattro figli partigiani. » Fassino racconta per la prima volta le circostanze in cui il padre sfuggì ai tedeschi: « Fu arrestato due volte. La prima il 26 giugno 1944 dopo un combattimento molto aspro ad Avigliana. Gli frantumarono una gamba e restò zoppo. Processato e condannato a morte, fu scambiato con 41 ufficiali e soldati tedeschi. Nel gennaio 1945 cadde in un’imboscata, fu condannato di nuovo e incarcerato alle Nuove nel braccio della morte. Suo compagno di cella era un altro dirigente partigiano, Pietro Ferriera, genovese, che fu fucilato in marzo. Mio padre venne liberato in modo rocambolesco all’inizio di aprile. Il comandante germanico della piazza di Torino, colonnello Schmidt, andò alle Nuove e riunì i partigiani superstiti, tra cui il dirigente del Pci Emilio Sereni. ” La guerra è finita” disse ” noi l’abbiamo persa, ma siamo soldati e dobbiamo fare quel che ci è stato ordinato. Vi porteremo in gruppi di cinque al Martinetto per fucilarvi. Non voglio tuttavia fare vittime inutili: le porte del furgone non saranno chiuse, i partigiani si riunirono e si chiesero se il colonnello era sincero o stava preparando una trappola. Tirarono a sorte i nomi dei primi cinque di loro che sarebbero saliti sul furgone e convennero che, se fossero riusciti a scappare, l’ultimo avrebbe legato un fazzoletto alla maniglia della portiera perché gli altri capissero. Quando il furgone tornò per il secondo carico, annodato alla maniglia c’era il fazzoletto. Qualche giorno dopo il colonnello Schmidt si arrese e mio padre andò a deporre al suo processo raccontando l’episodio, contribuendo a ridurre la condanna » . Pubblichiamo ampi stralci del V capitolo del libro di Bruno Vespa, ” Vincitori e Vinti”, in libreria da martedì 8 novembre. I brani pubblicati oggi riguardano le ricerche effettuate dal giornalista sui sacerdoti morti tra il 40 e il 46. In particolare, Vespa si sofferma sui 130 preti uccisi dai partigiani, raccogliendo le riflessioni del candidato premier dell’Unione Romano Prodi e del segretario Ds Piero Fassino. Il primo racconta un episodio della sua infanzia: assistette al rapimento di un religioso da parte dei comunisti. Fassino è più rigido, temendo quello che chiama un « revisionismo strumentale »
Libero 5 novembre 2005