Svelare l’ambiguità delle parole
La parola “feto” dovrebbe essere bandita dall’uso comune. Nell’epoca delle ecografie a quattro dimensioni e degli studi comportamentali, sappiamo benissimo che non esiste differenza sostanziale tra il bambino prima della nascita e dopo il parto…
di Carlo Bellieni
La parola “feto” dovrebbe essere bandita dall’uso comune. Nell’epoca delle ecografie a quattro dimensioni e degli studi comportamentali, sappiamo benissimo che non esiste differenza sostanziale tra il bambino prima della nascita e dopo il parto. Già: allora perché usare due termini diversi per parlare della stessa cosa? Eppure lo chiamiamo feto un minuto prima e bambino un minuto dopo. Cosa è cambiato? Sul piano fisico assolutamente nulla. Si è chiuso (e non sempre) un canale tra aorta e arteria polmonare e poco più. E’ arrivata la luce agli occhi (ma già arrivava attraverso la parete sottile del pancione) ed è entrata l’aria nei polmoni. Non ci sembrano cambiamenti sostanziali: anche prima di nascere il “feto”, si succhiava il pollice, poteva sentire il dolore, aveva memoria, sentiva le voci, gli/le batteva il cuore. Certo: ora l’ossigeno arriva dall’aria e non dal cordone ombelicale… ma non sono le differenze strutturali che determinano le differenze ontologiche.
Non pensiamo che una donna diventi “qualcosa d’altro” se per un incidente perde una gamba e deve camminare con una protesi; o se il cuore le batte non per via autonoma ma grazie ad un pace-maker. Non pensiamo neanche che una malformazione, per quanto imponente sia, renda la persona meno persona. Eppure per il bambino siamo indotti a pensare che il suo stare dentro l’utero invece che in una culla e la presenza di un cordone ombelicale ne cambino la sostanza, tanto da non chiamarlo “bambino” ma “feto”… per finire poi col parlare di “diritti del feto” come se parlassimo di “diritti del marziano” o “dell’ornitorinco”.
Questa distinzione surrettizia è recente. Il termine “feto” deriva da una radice indoeuropea che significa “succhiare”, e la parola “fetus” in epoca romana significava esattamente “frutto” oppure “progenie” (nec ulla aetate uberior oratorum fetus fuit, scriveva Cicerone e Catullo indicava come “dulces musarum fetus” i figli delle muse, cioè le poesie). Insomma, i romani non avevano un termine per indicare il bambino nascituro… perché sapevano bene che era un “puer“.
Questa coscienza della continuità della vita proseguì nel tempo e appare chiara anche dai famosi disegni di Leonardo da Vinci che mostrano il bambino prenatale, e ne illustrano la sostanziale e inequivocabile umanità.
Eppure ad un certo punto della storia, si è verificata questa cesura, che ha un peso che va ben oltre lo scopo “descrittivo”: qualcuno ha voluto usare un termine che fino ad allora era un sinonimo di “figlio” (“feto”, appunto) per indicare qualcosa che, nella loro idea, figlio non è ancora. I termini “bambino”, “adolescente”, “anziano”, “adulto” descrivono gli stadi di sviluppo di qualcuno che tutti riconosciamo come “persona”; invece il termine “feto” serve a denotare un minor livello di diritti. Sottolinea questa spersonalizzazione del termine il fatto che in italiano e in spagnolo il termine “feto” non abbia un corrispettivo femminile, così come “foetus” in inglese e francese: è una forma “neutra”, che come tale non ha la caratterizzazione sessuale che è la principale caratteristica della persona. E questo porta anche al paradosso che, mentre ogni età della vita ha una branca della medicina che se ne occupa specificamente e un medico ad essa specificamente dedicato, il bambino prenatale viene curato dallo stesso medico specialista nella cura della donna adulta. Sicuramente il ginecologo curerà entrambi bene, ma è un paradosso che nell’era dell’ultra-specializzazione, il medico che sa tutto di donne di 30 anni debba essere anche esperto di bambini di 30 centimetri. Insomma: esiste il gerontologo, il pediatra, il neonatologo, ma non esiste il “fetologo”.
D’altronde anche il termine “embrione” dovrebbe veder riparata la stessa ingiustizia, dato che più che una parola è una specie di aggettivo che vuol dire “che fiorisce dentro” (en- brỳein), il cui soggetto, evidentemente è “il bambino”.
Ma perché dobbiamo usare per il bambino prenatale un termine stigmatizzante e dirottato dal suo significato originario? Lo capiamo bene, dato che spesso tutti noi usiamo termini stigmatizzanti per indicare che qualcuno che a noi non piace “non è dei nostri”. E su questa linea di confine si basa il criterio “moderno” che il cosiddetto feto “valga un po’ meno di noi”. E’ un criterio molto recente, dato che già in epoca romana il bambino non ancora nato poteva ereditare e che la lex Cesarea istituì il diritto del figlio di nascere per via non vaginale (da qui il termine “parto cesareo”) se la madre stava per morire.
Questo non ci piace: non è aderente alla realtà e al progresso. Non rispetta i diritti della persona. E’ un modo pregiudiziale di precludere l’accesso al consesso umano subordinandolo al diritto di “altri”. Il nascituro deve trovare delle braccia che lo accolgano anche quando non si vede. I suoi diritti e quelli della donna vanno di pari passo… a meno di non voler fomentare una classica “guerra tra poveri”, in cui chi è escluso vede i compagni di prigionia come rivali. La coscienza di ognuno di noi ci dice invece che invece di moltiplicare le divisioni è ragionevole, umano e moderno moltiplicare le risorse e il loro accesso. E che da oggi è ragionevole sentire un piccolo disagio la prossima volta che sentiremo chiamare “feto” un bambino o una bambina in utero.
Il Foglio 31 dicembre 2007