Zona russa d’influenza cercasi disperatamente
di Maurizio Blondet
Il presidente siriano Bashar Assad è a Mosca per quattro giorni, ed ha già ottenuto dai russi la cancellazione di 9 miliardi di dollari di debito. Non ha invece concluso l’acquisto dei novissimi missili russi Iskander. Provati con successo l’anno scorso, la loro gittata di 300 chilometri basta a colpire dalla Siria obbiettivi israeliani, e dispongono di contromisure che li rendono difficilmente intercettabili: da qui le forti pressioni Usa e di Israele che hanno indotto Putin a soprassedere, per ora, alla vendita. Fatto sta che, negli stessi giorni, il viceministro russo degli Esteri Sergei Kislyak è in visita a Teheran: per consultazioni “sulla stabilità strategica” e su “temi nucleari” che l’agenzia iraniana Mehr ha definito “molto utili”. Devono esserlo, visto che Putin non solo assiste gli ayatollah nel completamento della centrale nucleare di Bushehr (dove secondo le accuse israelo-americane procederebbe a tappe forzate la fabbricazione dell’atomica islamica), ma ha installato due sistemi radar attorno alla centrale: segno, secondo un’agenzia vicina al Mossad “che Mosca sta mettendo in sicurezza l’industria nucleare iraniana da cima a fondo”. Sicché la Jewish Telegraphic Agency segnala con grande allarme “il ritorno in forze della Russia in Medio Oriente”. Non solo le forniture d’arma a Siria e Iran “costituiscono una diretta minaccia ad Israele”, ma “un asse russo comprendente Siria, Turchia (sic) e Iran renderebbero più difficile il processo di pace coi Palestinesi”.
Putin sta mettendo i bastoni tra le ruote, e si capisce perché. Dal Cremlino, il passaggio dell’Ucraina (dopo la Georgia) all’occidente, e la loro “accelerata” ammissione alla Nato chiesta da Richard Hoolbroke, devono essere vissute come una minaccia alla zona tradizionale d’influenza russa, al suo petrolio del Caspio e agli oleodotti del Caucaso. A Mosca hanno certo letto che Zbig Brzezinsky, il celebre politologo, definisce la Russia “il buco nero eurasiatico”, ossia un vuoto di potere post-sovietico che è facile occupare. Ovvio che Putin giochi le sue carte per contrastare l’accerchiamento. D’altra parte, i regimi siriano e iraniano, inseriti nell'”asse del Male”, vengono ogni giorno minacciati di rovesciamento, se non di attacco militare dalla superpotenza e da Israele: ovvio, anche se spiacevole, che cerchino un protettore per la propria sopravvivenza. È un’ironia che proprio Brzezinski, nel riassumere il programma geostrategico Usa, abbia indicato la necessità “impedire che i barbari stringano alleanze offensive” contro Washington. Le minacce verbali troppo reiterate stanno ottenendo appunto questo risultato.
Putin regnerà su un buco nero, ma mostra di possedere ancora una non indifferente capacità di coalizione, che è un carattere positivo in politica estera. Ben oltre il Medio Oriente, sta promuovendo un piano ambizioso di cooperazione economico-militare che si chiama Bric, dai nomi dei Paesi interessanti: Brasile, Russia, India, Cina: la convergenza fra Paesi che contengono i tre quarti della popolazione mondiale, il più vasto bacino di scienziati e presto anche quattro seggi al Consiglio di Sicurezza (India e Brasile l’avranno presto). Una cordiale garanzia alla Russia sulla sua area d’influenza, l’offerta di una partnership che acquieti la sua angoscia da accerchiamento, la sordina ai toni di sfida non seguiti da fatti, sarebbe un segno di più lungimirante saggezza.
Avvenire 28 gennaio 2005