Gulag

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Paura, diffidenza e menzogna,
ecco quello che il popolo sovietico imparò nei lager di Stalin



Gulag” della Applebaum ha il merito di essere l’anatomia di un incubo, ma lo scopo dell’autrice non è fare in modo che questo non si ripeta.
Gli appunti critici del più grande sovietologo polacco


Jerzy Pomianowski


 

Non occorre essere traduttore di Solzenitsyn in polacco – come lo è chi scrive – per aprire il libro di Anne Applebaum con raccoglimento, leggerlo con crescente interesse e terminarne la lettura con ammirazione. Ci sono buone ragioni per farlo.


L’opera della Applebaum non è solo una descrizione dettagliata della struttura, della crescita e delle cause del declino del sistema dei lager in Urss. E’ anche un’enciclopedia della sofferenza umana. La parte centrale del libro è un registro obiettivo, privo d’enfasi, di tutti i mezzi di repressione di massa e dei metodi di degradazione usati per sfruttare e tenere sotto controllo le masse dei condannati.


Tutti i libri di memorie e i testi pubblicistici sono pieni di simili descrizioni. Gli esempi di brutalità vengono usati allo scopo di suscitare compassione verso le vittime, ma soprattutto per coprire d’infamia i perpetratori di quelle atrocità. Questo è un calcolo sbagliato.


L’inflazione di motivi martirologici nella letteratura e nel cinema del dopoguerra ha portato a una banalizzazione del male, lo ha reso in qualche modo più accessibile o addirittura naturale.


L’autrice di “Gulag” (Mondadori) scrive nell’epilogo: “Questo libro non è nato per fare in modo che questo non si ripeta. L’ho scritto perché quasi certamente questo si ripeterà. Le ideologie totalitarie hanno trovato e continuano a trovare buona accoglienza presso milioni di persone”. Una di queste è Antonio Pennacchi, l’autore di “L’autobus di Stalin. Appunti per un elogium” (Limes 6/2004). Questo saggio differisce favorevolmente dalle tortuose elucubrazioni dei dotti necrofili del comunismo. E’ stato scritto in buon linguaggio colloquiale e non maschera affatto le sue ardite tesi. La più audace è che le folle delle vittime dei lager e delle deportazioni in Urss (40 milioni o solo 7 – a lui non importa) partecipavano a “flussi migratori” indispensabili per la popolazione e”colonizzazione degli enormi spazi vuoti della Siberia e dell’estremo oriente… Magari invece qualcuno campa ancora adesso”. L’autore in questione sostiene, che questi “flussi migratori” di imprigionati, torturati durante le istruttorie e trasportati per settimane in carri per bestiame sono pienamente paragonabili con la migrazione “per fame o per piacere” di centinaia di migliaia di calabresi e siciliani verso le fabbriche di Torino e Milano. Scrive il Pennacchi: “L’unica differenza è tra dirigismo e fenomeni indotti… La differenza è assai minima”. Il libro della Applebaum è stato tradotto in 23 lingue ma non in russo. Pazienza, i russi hanno il loro Solzenitsyn. E’ un peccato, però, che non sia stato loro tradotto l’articolo del Pennacchi. Potrebbero spiegargli che la differenza fra questi due “flussi migratori” è come la differenza fra le forbici del barbiere e la ghigliottina. E potrebbero forse aggiungere un loro detto, il vero fior fiore del folclore russo: leggere simili frottole è come fottere una tigre – è insieme ridicolo e orribile. Non basta stigmatizzare i metodi e i mezzi crudeli, perché quell’accoglienza favorevole delle ideologie totalitarie non abbia le conseguenze che sappiamo.


Sento però la risposta di qualche sostenitore di Pennacchi: “Vittime? Torture? D’accordo, ma forse ne valeva la pena. Forse questo era inevitabile perché indispensabile per il Fine. Il nostro fine vale il sudore, le lacrime e il sangue di tutti coloro che solo con la violenza si possono costringere a lavorare per la giusta causa. Vittime casuali? Dove si spacca la legna, volano schegge. L’individuo è zero. A noi importa il bene della società”.


Bisogna riconoscere che per sostenere questa vecchia tesi i comunisti avevano un argomento in più, rispetto ai sostenitori di altri movimenti totalitari: la loro ideologia era rivolta a tutti, infatti proclamava l’internazionalismo. I nazisti invece avevano uno scopo che non poteva essere accettato da altri: il dominio della loro nazione su tutto il resto. Tuttavia siamo in grado ormai di scoprire la sostanza di quel giusto fine, non solo perché nell’Urss e dintorni si è arrivati abbastanza vicino alla sua realizzazione, ma anche grazie all’anatomia di questo processo, quale ci è offerta dal libro della Applebaum.


L’autrice dice: “Nella pratica, l’ideologia comunista era la negazione di ciò che essa proclamava”. Nel libro non mancano argomenti in favore di questa tesi. Importante è la dimostrazione che il salto dal regno della necessità al regno della libertà di cui aveva parlato Engels, si ridusse al passaggio nel regno del lavoro forzato, il quale del resto– attenzione! – si rivelò non redditizio. Non si tratta solo del fatto che il lavoro forzato era molto meno produttivo di quello della mano d’opera libera (ciò era previsto fin dall’inizio): risultò che nessun lager era economicamente autosufficiente, e che il deficit che lo Stato doveva coprire cresceva continuamente.


Fu questa, in fondo, la causa del fallimento dell’idea dei campi di lavoro come “cuore dell’economia sovietica” (come li ha definiti Stalin) e la causa della riduzione del loro numero. Di più: l’idea di usare milioni di mani nude invece di macchine costose frenò lo sviluppo della tecnica, dell’inventiva, della scienza, e condusse a una netta arretratezza dell’Unione Sovietica perfino nel settore degli armamenti. La Applebaum cita alcuni esempi impressionanti: ricordiamo il caso di Tupolev, il costruttore di aerei, che fu trasferito da un lager a un campo fuori serie per scienziati.


Qualcuno come Antonio Pennacchi forse ci dirà: “Ma, dopo tutto, il gulag era un altro mondo, era un margine, sia pure un margine ampio, della vita sovietica! Il lager era un mezzo, sia pure un mezzo radicale, per raggiungere il fine, e il fine era la trasformazione dell’intera società civile”.


Ebbene, c’è però una sola affermazione, nel libro di Anne Applebaum, su cui non siamo d’accordo: “La vita nei campi di lavoro rispecchiava, in una certa misura, la vita nell’intera Unione Sovietica”. A nostro parere, è vero il contrario: la vita nei lager e il loro regime divennero l’idea platonica dell’ordine sociale nell’Unione Sovietica.


Il gulag non era una forma estrema, snaturata, di quell’ordine, bensì la sua matrice, il suo modello maneggevole e gradito. Aleksandr Solzenitsyn aveva ragione quando scriveva che l’esistenza dell’Arcipelago influiva sulla forma della vita nel Grande Continente. Non si tratta solo di un rapporto di interdipendenza.


E’ lecito pensare che l’intenzione di Stalin fosse quella di adattare sistematicamente la vita nell’Unione Sovietica a quell’ideale. Una prova possiamo trovarla nel regime della Corea del Nord, questo clone dell’Urss del tempo di Stalin.


Il primo dei fattori che determinavano quella forma era il principio della coercizione, fin dall’inizio funzionante nell’economia. Il secondo era l’estensione di questo principio a tutti i settori della vita sociale. Condizione del successo di questa operazione totale era evidentemente l’obbedienza delle masse sottoposte ad essa. Nei campi di concentramento l’obbedienza era assicurata non solo dalle guardie armate, ma anche e soprattutto dai prigionieri stessi, più precisamente da due categorie di detenuti: da coloro che svolgevano ufficialmente delle funzioni ausiliarie, e dai delatori.


L’autrice descrive dettagliatamente il ruolo, le divisioni e le rivalità all’interno della prima di queste categorie. Sulla seconda si sa naturalmente meno. Certo è che nel Grande Continente, man mano che il Sistema si rafforzava e ampliava, il delatore svolgeva un ruolo crescente, e per di più doppio. La sua attività segreta permetteva al potere bolscevico di avvicinarsi all’ideale: possedere una conoscenza completa, raccolta in dossier, di tutti i dettagli della vita e di tutti i pensieri di tutti i sudditi.


L’esistenza di tale progetto e della moltitudine dei suoi realizzatori non era tenuta segreta. Anzi, il potere era interessato a diffondere la convinzione che ciascuno – il vicino di casa, un collega, un parente – potesse rivelarsi un informatore dell’apparato di repressione. Questo era uno dei compiti più semplici del settore disinformazione, e rendeva possibile economizzare personale e materiali. La convinzione generale che ogni telefono e ogni locale fosse sotto controllo permetteva all’Nkvd di risparmiare tonnellate di apparecchi.


Ciò aveva come risultato la presenza costante, nella coscienza e nel comportamento dei cittadini, di due potenti fattori: paura e diffidenza. Il riflesso di difesa, per l’uomo sovietico, consisteva nell’evitare la sincerità – non solo nei confronti del potere, ma con qualsiasi interlocutore: chiunque potesse essere un delatore.


La necessità di mentire era particolarmente insopportabile: una prova di questo è l’esplosione di speranza e il sollievo con cui furono accolte nell’Urss le rivelazioni e le risoluzioni del XX Congresso.


Alle speranze succedette poi un senso di impotenza. La triade composta menzogna aveva inevitabilmente deformato la mentalità non soltanto dei prigionieri del gulag, ma anche della maggioranza dei cittadini.


Tra questa maggioranza assoluta delle vittime del sistema prevalevano i lavoratori russi, ovvero i presunti padroni del paese. E’ in quest’atmosfera che essi passavano la loro vita, nello stato descritto da Pennacchi come “lo Stato degli operai e contadini, degli sfruttati cioè che s’erano stufati di essere sfruttati”. Infatti si erano definitivamente stufati di settant’anni di uno sfruttamento tale che neanche un capitalismo dickensiano sarebbe riuscito a imporre. Per questa ragione l’implosione dell’Urss è avvenuta in silenzio, senza una goccia di sangue e senza resistenza.


Oggi la Georgia, l’Ucraina, la Moldavia, la Kirghisia si separano dalla Centrale non perché istigate da Bush ma piuttosto perché temono la rifondazione del sistema della coercizione centralizzata.


Se lo scopo dei bolscevichi era stata la trasformazione della società e il risanamento dei rapporti umani, questo risultato dei loro sforzi merita una condanna più dura di quella che meritano i mezzi così eloquentemente descritti in questo libro. Anne Applebaum ci ha dato una lezione di anatomia di un incubo, la quale costringe il lettore a trarre delle conclusioni politiche, sebbene l’autrice non le imponga. Tali conclusioni torneranno utili non soltanto ai lettori d’America e dei 23 paesi menzionati sopra.


Gli errori nel libro sono poco numerosi e riguardano per lo più dettagli secondari; per esempio: la sostanza usata per colorare le carte da gioco prodotte clandestinamente nei lager non era la streptomicina, che è un antibiotico incolore, ma lo streptocida, uno dei primi sulfamidici, che in Urss era comunemente usato per colorare la biancheria femminile.


Il Foglio 21 maggio 2005