GUARESCHI UOMO LIBERO
SOTTO I BAFFI DI STALIN
«Usi, costumi, ingegno e solitudine» di Giovannino Guareschi. Con tale intento il giornalista e scrittore Giorgio Torelli rievoca ora «I baffi di Guareschi» per l’editrice Àncora (pp. 176, euro 13,50), testo dal quale riprendiamo qui parte del capitolo iniziale.
Un libro-strenna, anzi un «album» assai originalmente illustrato, in cui ricordi ed aneddoti servono a tratteggiare – senza affatto santineggiarla – la figura di un assoluto goliardo emiliano che, passando attraverso il crogiolo del lager, seppe diventare un «resistente» esemplare contro tutti gli abusi a libertà e verità, pagandone il prezzo in proprio e – alla fine – senza ricavarne per sé un’accettabile serenità. Comunque un maestro: di scrittura («Mondo piccolo» docet), di carattere, di civismo.
Uno di qua e uno di là del naso, i «barbisoni» del creatore di “Don Camillo” non sono casuali, un timido accenno a fior di labbra, ma un distintivo volitivamente guadagnato nel lager nazista e poi ostentato come bandiera. «Come un displuvio, i mustacchi indicavano un prima e un dopo nella vita dello scrittore emiliano. Invece gli spazzettoni del dittatore comunista erano falsi, perché dietro il loro bonario parapetto nascondevano un’indole spietata, celavano i gulag».
di Giorgio Torelli
È un Guareschi senza baffi, giovane, libertario, squattrinato, cronista di primo canto alla Gazzetta di Parma, ciclista, disegnatore, cartellonista, bohémien, nottambulo come la parmigianità prescrive e poi (per accorto riconoscimento del destino) redattore-capo del celebre Bertoldo nella Milano degli anni Trenta, umorista militante, ufficiale di complemento in artiglieria e prigioniero di guerra dall’8 Settembre 1943. E c’è – ormai per sempre – un Guareschi inimmaginabile senza i baffi, anzi consegnato alla loro meditata prorompenza. Non un vezzo di baffi, non un accenno a fior di labbra, un’allusione, due virgole nere alla Toscanini o due reverendi cespugli come Albert Schweitzer. No. I baffi di Guareschi, noti e cari a tanti lettori del mondo, devono sempre essere letti secondo le precise intenzioni del loro alfiere: furono baffi di bell’impianto, elitari, esposti schiettamente al pubblico pur essendo circostanza intima, baffi per starci bene in compagnia intimando il chi va là a chiunque li ritenesse solo ionici, dorici, corinzi o comunque decorativi. I baffi di Guareschi erano e furono Guareschi stesso, un autoritratto motivato, un son costui e non altro, nulla di casuale o di passeggero o di velleitario. Il signor Guareschi portava di proposito i baffi ben ripartiti, mai fuor di misura, sempre modulati secondo l’equilibrio grafico del bianco e nero, rigogliosi ma potati ammodo, per dire di sé, per dichiararsi, per narrarsi subito, per farsi – ecco – la didascalia: io sono un uomo di pianura, mio nonno aveva campi e baffi, mio padre aveva perso i campi ma non i baffi, le tradizioni della Bassa mi riguardano, mi considero un Tale di campagna, faccio il giornalista ma sono e voglio essere un suscitatore della Terra, un agricoltore in fondo al campo che si alliscia i barbíz mentre rimira i solchi seminati. E, per questo, porto, reggo, inalbero e voglio i baffi robusti della tradizione emiliana, quelli del severo e laborioso marito della rezdóra, i baffi da tabarro nero che si spugnano di nebbia e poi sgocciolano davanti al camino col ceppo, i baffi da padre di famiglia che il camino ce l’ha, se l’è fatto lavorando duramente e non ha mai negoziato alcuna delle sue idee di base e di fondamento. Le idee di base non sono fissazioni. Sono il vero capitale di un uomo, la sua stessa storia e le sue speranze. C’è chi espone una bandiera per segnalare le sue convinzioni o il suo credo. Io metto fuori i baffi, che devono spiegarsi da sé e parlare per me che sto volentieri zitto e amo i dialoghi con la luna sul Po. I baffi di Guareschi vollero nascere nei Lager tedeschi dove il signor tenente Giovannino di Fontanelle (Parma, 1908) abitava in un recinto di filo spinato – una immensa stia – e aveva un dóicc con l’elmo d’acciaio che si occupava di lui e dei suoi compagni di sorte e di stellette. Il dóicc stava su una torretta come tanti altri dóicc su tante altre torrette. Sotto le torrette c’erano le lunghe baracche con i prigionieri in trappola e il loro repertorio: la fame, il gelo, le riflessioni, le speranze, lo sconforto, i topi, la promiscuità, i discorsi, i silenzi, le stagioni, il coraggio, le preghiere, le maledizioni, la fantasia, la pioggia, il freddo e le calure, le latrine, la polvere, il fango. Filo spinato e torrette formavano il Lager con dentro gli «straccioni italiani» traditori, tutti senza faccia per i dóicc, senza identità, tutti sotto l’alzo delle mitragliatrici a fior di torrette, il colpo in canna. I cieli facevano scena muta. Bisognava allora confermarsi uomini, non cedere la dignità per un cucchiaio di zuppa di rape, non slavare i pensieri, non naufragare dandosi per vinti, reagire, costruire se stessi nonostante tutto e in virtù di tutto perché ogni malora è un magistero e si può edificarsi, star diritti in piedi davanti agli urtoni del peggio, tutelare il cuore, aiutarlo a spiegarsi, soprattutto metterlo a confronto col cervello che sta facendo gli straordinari. I baffi del signor tenente Guareschi, parmigiano coatto in alcune lande della Germania di Hitler (baffetti a francobollo nazista quelli del Führer, coriandoli quadrati, una balbuzie di baffi, barbisini fatti col nerofumo del tappo bruciato e dunque senza ali né portanza, timbri del Terzo Reich, due spietate sillabe gutturali), i baffi di Giovannino sono nati là dove l’esercizio e la conquista della consapevolezza li ha suggeriti. Anzi, pretesi. Non furono baffi di guerra o di prigionia. Furono e rimasero baffi di un Homo conscius che si conquistava sul campo una fisionomia morale e, da allora, pur giocoso di natura e umorista di fatto, non avrebbe più fatto sconti a se stesso né concesso deroghe all’obbligo di partecipare, da volontario, alla rettifica del mondo e al salvataggio di ogni possibile benfare. Come? Dando battaglia – col suo proprio cavallo immaginario, con la matita in resta e la penna brandita – a tutto quel che gli paresse volgarmente inganno, plagio delle menti, decadenza, dirizzone, precipizio non segnalato, furbizia fruttifera, diserzione dal giusto e Italia tradita. Tutto solo. Sempre solo. Col par di baffi, però. (…) Ovviamente non poteva sfuggire a Guareschi che anche il suo più bersagliato avversario, messo in caricatura tutte le settimane e tenuto sotto perenne sprezzo – il compagno Stalin di Mosca – portava i baffi a spazzettone e ne faceva mostra ideologica dalla tribuna del Cremlino, anche lui baffi alla contadina, con andamento paritario, code di rondoni sotto il naso corposo, tanto da essere mondialmente chiamato Baffone (ha da venì Baffone! invocava a palpito il «popolo delle rosse bandiere»). Dunque? Ebbene io so quel che pensasse Guareschi dei baffi comunisti di Josif Vissarionovic Dzugasvili detto Stalin (1879-1953), altrettanto fumatore robusto di sigarette a zampirone: quei baffi, fatti per nascondercisi dietro, erano un falso, un artifizio, una recita. E contrabbandavano, del loro titolare, un’idea placida e tranquillante, accreditando Josif come provvido Piccolo Padre delle genti volte al riscatto e come Babbo bonario di tutti i compagni del mondo. Stessero tranquilli i tesserati universali: dalle parti di Lenin imbalsamato, nella polpa stessa del Cremlino, vegliava il Supremo Baffuto con l’impegno di far trionfare tutti i Pepponi su tutti i don Camillo, reazionari cornacchioni. Giovannino, insomma, considerava che Stalin l’aveva pensata giusta mascherando la sua indole crudele, criminale, tirannica, persecutoria, spietata, e così nascondendo, dietro il parapetto dei mustacchi, i gulag e le stragi con la trovata di quei barbisoni da cocchiere della troika di Anna Karenina o da falciatore del signor conte Tolstoi. Josif Stalin si serviva dei baffi – che fanno sempre simpatia e ispirano rispetto – invece di mettere se stesso al servizio dei baffi, che hanno da essere un moto dell’anima, vengono dal di dentro e certificano come personaggio indubitabile chi se ne assuma l’onere. È la vecchia storia del mondo: la maschera e il volto, i baffi posticci e i baffi sorgivi, la commedia coi baffi finti e la sostanza dei baffi autenticati da una condotta di vita. Com’è diverso il destino dei baffi di diverso avviso: oggi i baffi di Stalin imbarazzano chi gli suonò la cetra e gli arse l’incenso. Di più: vogliono essere dimenticati da chi fece finta di non conoscere il carnet della sua satrapia. Mentre i baffi del fu Guareschi, cittadino quasi di campagna, restano cari a milioni e milioni di creature che – per quanto sono vasti i continenti – non l’hanno considerato né lo considerano uno scrittore mai nato (versione veterocomunista buona per le cellule e le sezioni). Ma gli serbano affetto, stima e riconoscenza come del resto s’ha da fare per lo scrittore italiano più adottato nel girar del mondo.
AVVENIRE Domenica 10 dicembre 2006