Ci scrive il direttore scientifico della Fondazione Einaudi.
“Non lasciamo i cattolici monopolisti di dubbi e perplessità che una visione laica della vita non può fare a meno di nutrire”.
Giovanni Orsina
direttore scientifico della Fondazione Einaudi
Il Foglio
1 luglio 2005
Al direttore – In un mondo che muta rapidamente e ha fatto del progresso il suo totem, essere conservatori è impossibile. Per la semplice ragione che, nel divenire in apparenza inarrestabile delle cose, sono i progressisti che si danno alla conservazione, e ai conservatori non resta che reinventarsi reazionari – o rivoluzionari. Nel nostro paese il progressismo conservatore si rivela spesso nella figura retorica dell’”intangibilità”, ingranaggio di un marchingegno ideologico che mira a santificare l’esistente circondandolo opportunamente di tabù. Imperatrice d’ogni intangibilità è ovviamente la Costituzione repubblicana, protetta dalla fitta schiera pretoriana dei tabù resistenziali. E duchessa per lo meno d’intangibilità è apparsa sovente, da ultimo durante il dibattito referendario, la legge 194 del 1978, che com’è noto regola l’interruzione volontaria di gravidanza – detta anche, in piana lingua italiana, aborto.
Ora, tacitare in via preventiva una discussione è operazione sporchetta, poiché serve a vincere le battaglie senza combatterle(vogliamo dire: almeno altrettanto scorretta quanto astenersi a un referendum?), assai illiberale, e non poco dannosa al paese, costretto all’afasia nel momento esatto in cui avrebbe più bisogno di parlare. In particolare poi, quando lo si applica alla legge 194, il meccanismo dell’intangibilità nuoce ai laici, lasciando i cattolici monopolisti di dubbi e perplessità che una seria visione laica della vita non può fare a meno di nutrire. E soprattutto, per salvaguardarne la disciplina giuridica impedisce pure che dell’aborto si ragioni in termini etici, dando implicitamente per scontato che ciò che è lecito sia pure giusto – un’equazione discutibile sempre, e in questo caso discutibilissima.
Invece, quanto meno sul terreno morale se non su quello giuridico, a me pare che il problema dell’aborto i laici e liberali dovrebbero proprio porselo.
Spero davvero che sia soltanto una mia sensazione di osservatore non sistematico né sofisticato, ma più mi guardo intorno e più mi pare che la banalità dell’aborto sia diventata nel paese convinzione diffusa. Mi pare insomma che anche sul piano etico, come su quello giuridico, interrompere la gravidanza sia ormai comunemente considerato un’operazione che si risolve interamente, senza alcun residuo, nella sfera individuale della donna – e che quindi, nonché vietata, non vada neppure discussa. E perché mai dovrebbe essere discussa, del resto? Se l’aborto è un diritto assoluto, una”conquista di civiltà”, verrà allora fin troppo naturale credere che davvero non vi sia alcuna obiezione morale da sollevare – che, appunto, poiché è lecito sia anche giusto.
Per parte mia continuo però a pensare che sia ben triste l’epoca che dell’umanità del feto non si pone neppure il problema – soprattutto se è un’epoca che si pretende individualista e liberale. Continuo a pensare che non di diritti della donna si debba parlare, ma di un conflitto drammatico fra i diritti della donna e del nascituro. Un conflitto che in termini giuridici può, di misura, essere risolto contro questo e a favore di quella, ma che sul terreno etico deve continuare a pesare intollerabilmente sulla coscienza della nostra civiltà. Perché lungi dall’esserne una conquista, della nostra civiltà, l’aborto ne è al contrario una lacerazione profonda, tanto più grave poiché va a colpirne – o quanto meno metterne in dubbio – il dogma minimo: l’unicità e dignità di ciascun individuo.
Se a essere abortito è il feto malato
Ne colpisce il dogma minimo anche (soprattutto) se a essere abortito è un feto malato. Ma qui è bene intendersi, perché il gioco si fa pericoloso. Crescere un bambino difficile, direttore, è un’ordalia. La tenerezza che sempre si prova per un figlio si acuisce fino al parossismo – fino a diventare insopportabile, fino a fare male. La fatica enorme che sempre costa accudire ed educare si gonfia al punto da trasformarsi in annichilimento. Nessuno può essere costretto a patire questa condanna se, troppo umanamente, se ne ritrae inorridito.
E però. Però mi pare che il ripiegamento della sensibilità morale di fronte all’avanzare del diritto all’aborto, quando si tratta dell’aborto cosiddetto (siamo ben oltre l’eufemismo) terapeutico si sia trasformato in una disfatta. Una disfatta che diviene ancora più grave nel momento in cui per giustificare l’aborto “terapeutico” viene chiamato in causa il presunto “bene” del feto sventurato, ricorrendo a un’argomentazione che in casi estremi non può certo essere ignorata, ma che in linea generale mostra un po’ troppo la faccia d’una mistificazione etica. A questo siamo arrivati, nella nostra presunzione illiberale: dall’imperfezione deduciamo l’infelicità necessaria; e avendola dedotta ci arroghiamo la facoltà di liberare l’infelice del suo dolore. Con buona pace dell’unicità e dignità di ciascun individuo – del suo diritto a giocarsi la sua partita, del suo diritto a provare almeno ad arrivare al punto in cui potrà decidere per se stesso.
Se vivessimo in una società diversa, per quei neonati che sfuggissero dalle maglie del nostro preveggente altruismo avremmo magari rimesso in auge l’antica, venerabile istituzione della rupe Tarpea. Ma per fortuna non viviamo più nella Roma sanguinaria che segnava le miglia fra Roma e Capua di schiavi crocifissi. No direttore, la meravigliosa civiltà del politicamente corretto disdegna i metodi del nostro passato barbaro (oscurantisti e medioevali, li avrebbero forse detti i sostenitori dei referendum?), e per l’imperfezione che a dispetto del suo perfezionismo si ostina a esistere ha in serbo vie più raffinate. Semplicemente, le toglie la parola. La copre di una crosta di eufemismi tanto spessa da renderla letteralmente ineffabile. Poiché Robespierre e Lenin non sono stati in grado di mantenerci la promessa di un paradiso in terra, i loro figlioli intristiti hanno aperto il tirassegno contro gli angeli zoppi – e a quelli che mancano hanno l’impudenza di dire: “va là, che cammini anche tu”. Emuli del dio che negano, s’illudono di poter creare con la parola.
Tempo fa mi hanno raccontato di una piccola istituzione di volontariato che da”Gruppo assistenza handicappati” s’era ribattezzata”Gruppo handicappati”. “Perché – questa la ragione – siamo tutti un po’ handicappati”. Eh già: tutti storpi, nessuno storpio. Una bella notte in cui ogni vacca è nera. Solo che la mandria umana pascola al sole, le vacche hanno i colori più diversi, e alcune di loro sono più sfortunate della altre. Ed esorcizzare la loro sventura non giova a nessuno: non a loro, che vedono negata in astratto una diversità che in concreto è fin troppo presente e gravosa; non agli altri, cui viene occultata la sofferenza e impedito, affrontandola, di crescere in umanità; tanto meno a una civiltà che non riesce più a pensare, figurarsi metabolizzare, l’intrinseca, ineludibile, irrevocabile imperfezione umana.
La via marxista e i sentieri minori
E’ proprio calcando questo terreno che inciampiamo ancora oggi sui nodi irrisolti del pensiero laico. Da tempo ormai non vogliamo più che l’imperfezione umana ce la risolva iddio. Incapaci però di conviverci, con quell’imperfezione, impossibilitati a redimerla vivendo etsi deus non daretur, abbiamo provato a curarla deo non dato. Ma il marxismo, maestra fra le vie verso la redenzione storica, atea e materialistica, è fallito, smentito da quella storia stessa che pretendeva di conoscere per certo nella sua razionalità. E ci restano ora soltanto i sentieri minori – un ateismo meno superbo, un materialismo più volgare, uno storicismo di più modeste pretese. Sentieri che esigono da chi li percorra silenzio, ubbidienza e conformismo, poiché debbono occultare la loro incapacità di condurre in alcun dove. Sentieri lungo i quali incontriamo il nostro asettico Erode – perché, deo non dato, che motivo avrei mai di rovinarmi la vita per far campare un figlio malato? Deo non dato, non è meglio per tutti che lo si tolga di mezzo, e se ne faccia magari un altro sano?
Quasi un secolo fa, in una delle sue pagine più belle, Max Weber suggeriva a chi non sapesse affrontare “virilmente” il disincantamento del mondo di “tornare in silenzio, senza la consueta conversione pubblicitaria, bensì schiettamente e semplicemente, nelle braccia delle antiche chiese, largamente e misericordiosamente aperte”. Weber parlava di singoli individui, ma a me pare che sia la nostra civiltà a non aver ancora imparato a conviverci, col disincantamento. Finge di saperlo fare, ma non appena può corre a nascondersi, e nella penombra si ricostruisce in fretta e furia una qualche fede rabberciata e surrettizia. Nel progresso, magari. O nella scienza. Fedi posticce, di quelle che soltanto qualche anno dopo le parole di Weber già Eugenio Montale provvedeva a collocare nel posto che compete loro: la pattumiera della storia. “Non vorremmo accettare alcuna mitologia; ma alle nuove che si pretendesse d’imporci preferiremmo decisamente quelle del passato che hanno una giustificazione e una storia. Al furore relativistico e attualistico è ben sicuro che anteporremo lo splendore cattolico. Al desiderio di frontiere troppo vaste, di cieli troppo distanti, porremmo innanzi il confine del nostro paese, la lingua della nostra gente. Troppo lavoro rimane da compiere oggi, perché ci tentino questi salti nel buio”.
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