APOLOGIA DELL’OCCIDENTE
Il testo integrale del discorso alla manifestazione “Per l’Occidente”
Bologna 2 Aprile 2006
di Marcello Pera
1. Perché
Cominciamo dal perché. Perché questa manifestazione? Perché difendere l’Occidente?
Il Manifesto che abbiamo lanciato dà risposte senza margini di ambiguità. Perché l’Occidente è oggi attaccato dall’esterno dal terrorismo e dal fondamentalismo di matrice islamica. Perché l’Occidente mostra difficoltà a dare risposte ferme e a trovare la giusta linea di difesa. E perché i principali valori che sono tipici dell’Occidente, e che sono anche i valori battesimali della sua lunga storia, sono manifestamente in crisi dentro lo stesso Occidente.
Dico Occidente, ma tutti naturalmente pensiamo all’Europa. Perché è qui, in Europa, che la crisi è più profonda.
Se dei terroristi ti fanno una strage sul tuo suolo e tu ritiri le truppe che sono in prima linea proprio contro il terrorismo, allora vuol dire che sei tu, Europa, che credi di essere la causa di quell’attacco terroristico.
Se assaltano le tue ambasciate e i tuoi consolati, bruciano le tue chiese, uccidono i tuoi fedeli cristiani, e sostieni che le vignette satiriche danesi sono andate oltre il lecito, mentre tutto è lecito quando la stessa libertà di satira viene usata contro le tue religioni, allora vuol dire che tu, Europa, ti senti responsabile di quelle violenze, e alla fine ti nascondi e ti accingi a chiedere scusa.
Ancora. Se tu, Europa, vieni chiamata a difendere l’esistenza di Israele, e hai difficoltà a riconoscere quali sono le organizzazioni terroristiche, che magari tu stessa finanzi, o consideri poco più che stravaganze a fini interni le dichiarazioni di Hamas e le minacce atomiche dell’Iran, allora vuol dire che tu, Europa, non vuoi prenderti le tue responsabilità e preferisci voltare la tua testa per non vedere.
E infine. Se tu vieni chiamata ad impegnarti in un programma di promozione della democrazia in tutto il Medio Oriente e rispondi che la democrazia non si esporta, allora vuol dire che tu, Europa, non hai più la consapevolezza dei tuoi princìpi e valori e, mentre agiti le bandiere multicolori del pacifismo, neppure ti accorgi che è proprio contro l’interesse della pace tollerare gli intolleranti.
Che cosa succede in Europa? Succede che nella cultura dell’Europa, nella sua classe politica, nel suo costume, si diffondono una sindrome di colpevolezza, una sindrome di smemoratezza, una sindrome di svogliatezza.
La sindrome di colpevolezza dice che se altri ci attaccano, allora hanno le loro ragioni e queste ragioni sono le ingiustizie da noi causate.
La sindrome di smemoratezza sostiene che noi ormai siamo laici, oppure siamo credenti “adulti”, e perciò abbiamo superato la fase in cui la nostra tradizione religiosa era parte della nostra identità.
Infine, la sindrome della svogliatezza afferma che non possiamo rivendicare la nostra identità, perché questo comporterebbe una forma di arroganza o di mancanza di rispetto verso altre culture e civiltà.
Ben poche voci delle istituzioni, della politica e della cultura hanno denunciato e respinto queste tre sindromi. In Europa, oggi si vive andando avanti, e si va avanti tirando a campare. Solo un grande uomo ha avuto il coraggio di guardare in faccia questa crisi, di denunciarla e di appellarsi alle “minoranze creative”, come quelle che oggi sono qui raccolte, affinché si adoperino per superare la crisi. Quell’uomo è Benedetto XVI.
Ha scritto il cardinale Ratzinger ora Benedetto XVI:
«C’è un odio di sé dell’Occidente che è strano e che si può considerare solo come qualcosa di patologico … della sua storia vede ormai ciò che è deprecabile e distruttivo, mentre non è più in grado di percepire ciò che è grande e puro. L’Europa ha bisogno di una nuova – certamente critica e umile – accettazione di se stessa, se vuole davvero sopravvivere» (M.Pera, J.Ratzinger, Senza Radici, Mondadori 2004, p.71).
Lo stesso Cardinale Ratzinger aveva anche scritto:
«Si diffonde l’impressione … che il sistema di valori dell’Europa, la sua cultura e la sua fede, ciò su cui si basa la sua identità, sia giunto alla fine e anzi sia già uscito di scena… Il confronto con l’Impero Romano al tramonto si impone: esso funzionava ancora come grande cornice storica, ma in pratica viveva già di quei modelli che dovevano dissolverlo, aveva esaurito la sua energia vitale» (ivi, pp.59-60).
Sono parole allarmanti, queste, che non dovremmo criticare perché le dice un Papa, ma che, al contrario, dovremmo considerare con attenzione proprio perché le dice un Papa.
E allora guardiamola più in dettaglio questa crisi dell’Occidente europeo.
2. La Costituzione europea: radici e frutti
Prendo fra tutti i sintomi della crisi la Costituzione europea, ora fallita. Sul fatto che nel Preambolo generale e nel Preambolo della Carta dei diritti (la seconda parte) non siano menzionate le radici cristiane del nostro Continente ci sono in giro una tesi euforica e una tesi autoconsolatoria.
La tesi euforica è quella dei laicisti. Essi sostengono che quella citazione sarebbe stata contraria ai nostri Stati laici e di offesa ai molti cittadini di altre religioni o non credenti. Ma questo è un incredibile errore di chi si dice laico mentre in realtà è laicista. È l’errore di chi ha passato la soglia della tolleranza liberale, quella che ammette il libero gioco nella società di tutte le religioni, ed è scivolato nella ideologia illuminista e giacobina, quella che abolisce tutte le religioni, salvo naturalmente la religione positiva, fondata su una presunta Dea Ragione o su un acritico Dio della scienza.
Noi laici – credenti o non – dobbiamo respingere questa ideologia. La dobbiamo respingere per ragioni storiche: dove sarebbe l’Europa senza Pietro e Paolo, senza Cirillo e Metodio, senza Agostino e Tommaso, senza San Benedetto e il monachesimo, senza la rivoluzione scientifica del cristiano Galileo, senza i valori – primo fra tutti la dignità della persona, in quanto immagine di Dio creatore e padre – della tradizione biblica e evangelica?
Ma soprattutto noi dobbiamo respingere questa ideologia laicista perché è falso dire che alla base dei nostri Stati liberali non ci sia un’opzione etica, è falso ritenere che la democrazia si basi solo su se stessa, è falso sostenere che la religione non contribuisca a tenere insieme la nostra società. Al contrario, la religione, oltre che una fede personale, è un legame sociale, un fattore imprescindibile della vita pubblica.
Togliete la religione e avrete tolto il nostro ethos.
Togliete la religione e ci avrete privato di gran parte della nostra identità.
Togliete la religione e non riconosceremo più i nostri padri e i nostri fratelli, non avremo più guide, maestri e giudici a orientare le nostre coscienze.
Falso e contraddittorio è il laicismo. Se davvero sei un liberale, non puoi negare che il primato liberale dell’individuo sullo Stato deriva dal primato della persona, nel senso introdotto dal Cristianesimo. Se sei un democratico, non puoi negare che alla base del concetto di uguaglianza dei cittadini c’è l’uguaglianza cristiana di tutti gli uomini, perché tutti, senza distinzioni, figli di Dio. E naturalmente se sei un autentico conservatore, non puoi negare che la prima cosa da conservare sia proprio la nostra tradizione, quella che ci dà la nostra identità.
Puoi essere un non credente, naturalmente. Ma allora hai due strade davanti a te: o quella minima del “perché non possiamo non dirci cristiani” oppure quella più impegnativa del “perché dobbiamo dirci cristiani”, cioè perché dobbiamo riconoscerci tutti figli della stessa storia, e perciò tutti impegnati ad affermarla, difenderla e promuoverla.
A differenza della tesi euforica dei laicisti, la tesi autoconsolatoria dei cristiani cosiddetti “adulti” dice che la mancata menzione delle radici cristiane nel Preambolo della Costrituzione europea non comporta alcun danno. Importante – essi sostengono – non è il Preambolo, che non menziona il cristianesimo, importanti sono i contenuti degli articoli, che invece ne recepiscono i contenuti essenziali. I più cinici fra questi cristiani adulti si spingono fino al punto di dire che i credenti non dovrebbero lamentarsi, perché le Chiese hanno visti dall’art.I-52 della Costituzione europea riconosciuti e salvaguardati i regimi concordatari di cui godono in alcuni paesi.
Lasciamo i cinici al loro destino cinico e vediamo gli articoli supposti cristiani della Costituzione. Prendiamo l’art.II-69. Esso dice:
«Il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio».
Che cosa vuol dire? A prima vista, l’articolo è ridondante, perché il diritto di sposarsi sembra lo stesso che il diritto di costituire una famiglia. Possibile che i Padri della Costituzione non sappiano esprimersi correttamente nelle loro lingue? Non è possibile. E allora, l’articolo va preso alla lettera: ci sono due diritti, uno di sposarsi e uno di costituire una famiglia.
Ora, concesso che il diritto di costituire una famiglia si riferisca alla famiglia eterosessuale quale da millenni conosciamo e dunque anche al diritto di avere figli, a che cosa si riferisce il diritto di sposarsi? Sposarsi chi con chi? Sposarsi anche tra omosessuali? Sembra di sì. Ma, se è così, si può dire, come dicono i cristiani adulti e retori della cristianità intrinseca della Costituzione europea, che le unioni omosessuali sono un omaggio al cristianesimo? No, non si può dire. Quelle unioni, in realtà, sono una ferita al cristianesimo e alla nostra tradizione. E dunque quell’articolo della Costituzione europea non ha un contenuto cristiano.
Proviamo allora con un altro articolo. Prendiamo il II-63. Esso dice:
«Nell’àmbito della medicina e della biologia devono essere in particolare rispettati … d) il divieto della clonazione riproduttiva degli esseri umani».
Eccellente, e davvero consolatorio! I Padri Costituenti ci assicurano che non faremo la fine della pecora Dolly. Ma nell’ambito della clonazione non riproduttiva, cioè quella terapeutica, che cosa dice quell’articolo? Non dice nulla. Ma se non dice nulla, allora dice che la clonazione terapeutica è lecita, dunque dice che non ci sono ostacoli giuridici alla sperimentazione scientifica.
Domanda: anche se con gli esperimenti si dovessero sacrificare embrioni e forse feti? Sì. Anche a costo di considerare la vita e la persona umana solo come strumenti per un fine, come “cose” utili per conseguire altri beni utili? Sì.
E allora non ci resta che concludere che neanche questo articolo recepisce contenuti cristiani.
Mi si obietterà che altri articoli della Costituzione europea hanno senso diverso.L’art.II-84, ad esempio, dice:
«I minori hanno diritto alla protezione e alle cure necessarie per il loro benessere».
E l’art. II-85 dice:
«L’Unione riconosce e rispetta il diritto degli anziani di condurre una vita dignitosa e indipendente e di partecipare alla vita sociale e culturale».
Queste sono cose buone. Ma com’è, allora, che in Europa si teorizzano e praticano l’eutanasia e l’eugenetica? Com’è che la Costituzione europea non le proibisce esplicitamente? Forse perché la vita degli anziani non è più vita se non è “indipendente”? Forse perché la vita dei nascituri o dei neonati non è degna di tutela se essi non possono averne una di qualità?
La conclusione è che su questioni fondamentali come il matrimonio e la vita, i giovani e gli anziani, la Costituzione europea non recepisce affatto valori cristiani. Si abbia allora il coraggio di dire, senza farci rinchiudere in una gabbia di retorica, reticenza, astuzia, che la Costituzione europea, quella di cui, come dei morti, non si può parlare se non bene, è essenzialmente una Costituzione laicista, perché non solo non menziona il cristianesimo nel Preambolo, ma se ne dimentica anche negli articoli. Quella Costituzione non ha radici cristiane e, non avendole, non dà frutti cristiani.
Questa è – dispiegata in belle lettere costituzionali – la crisi dell’Europa. Questa è la ragione per cui l’Europa, anche se attaccata, non si difende. L’Europa sta perdendo la sua anima. Esattamente come è scritto nel nostro Manifesto, l’Europa “nasconde e nega la propria identità”. Contro questa tendenza, noi che siamo probabilmente “minoranze intellettualmente creative”, ma che altrettanto probabilmente siamo anche interpreti di “maggioranze silenziosamente consapevoli”, dobbiamo reagire. Non possiamo limitarci alla sola denuncia.
3. Contro relativismo e multiculturalismo
Contro la crisi dell’Occidente e soprattutto dell’Europa, il nostro Manifesto avanza dei rimedi.
Noi rivendichiamo il diritto alla vita e la sua tutela dal concepimento alla morte naturale. Sappiamo delle tragedie personali e familiari, sappiamo della drammaticità di certe scelte. Per questo non chiediamo l’abolizione della legge sull’aborto. Chiediamo però che non si dica che si tratta di una “conquista sociale” o di un “diritto di civiltà”. Chiediamo che non si dica che la soppressione di un feto non sia l’eliminazione di una persona. Chiediamo che non si sostenga, con spensierato scientismo, che prima del quattordicesimo giorno non c’è né individuo né persona.
Noi difendiamo la famiglia come “società naturale fondata sul matrimonio”, esattamente come è scritto nella nostra Costituzione, e non intendiamo equipararla a qualsiasi altra forma di unione e legame, comunque verbalmente formulato. Siamo contro le unioni omosessuali, non perché discriminiamo le persone in base alle loro tendenze sessuali, ma perché riteniamo che il divieto delle forme matrimoniali o paramatrimoniali delle unioni omosessuali non sia una discriminazione, ma un saggia misura per evitare danni sociali, soprattutto ai figli.
Noi difendiamo la libertà religiosa, per chi aderisce alla confessione cristiana, per chi ne professa altre, per chi non crede. Perché la libertà religiosa è una forma fondamentale e universale della intangibile libertà di coscienza, che nessuna società e nessun Stato possono comprimere.
Noi sosteniamo il diritto alla libertà di educazione. Se l’educazione è un bene pubblico, non può essere garantita soltanto da scuole statali. La pluralità dell’educazione è una fonte di ricchezza per tutti.
Noi sosteniamo la sussidiarietà, perché è un sano principio cristiano e liberale, che esalta il primato della persona, non la rende suddita dello Stato, e le consente di sviluppare tutte le sue potenzialità.
Ma, soprattutto, noi sosteniamo la universalità dei nostri valori. Siamo fermamente convinti che la dignità della persona, il rispetto per la vita, l’uguaglianza degli uomini, la parità fra uomo e donna, la tolleranza per gli stili di vita, il rispetto di tutti – dico tutti – gli interlocutori siano princìpi che non riguardano solo noi, o beni di cui dobbiamo godere solo noi, o privilegi che competano solo a noi. Essi valgono per noi come per gli altri.
Per questo, quando ci rivolgiamo agli altri, chiediamo reciprocità. Non perché dobbiamo proibire le moschee se altri proibisce le chiese e le sinagoghe: questa sarebbe ritorsione, ed è contro i nostri princìpi. Al contrario, perché, come noi consentiamo moschee, altri, reciprocamente, debba consentire chiese e sinagoghe. E finché non lo consenta, continueremo a chiederlo.
Per questo noi siamo contro il relativismo e le politiche che ne conseguono.
Il relativismo è una grave malattia culturale che, come un fiume carsico, attraversa la storia del pensiero occidentale, da Gorgia alla filosofia “postmoderna”.
E’ una malattia perché nega che ci sia qualche fondamento o giustificazione o base per le nostre scelte.
E’ una malattia perché fa dei nostri valori, comprese la libertà e la democrazia, accidenti storici buoni oggi e qui ma non più buoni domani e altrove.
E’ una malattia perché chi professa il relativismo crede di essere con ciò tollerante e democratico, e invece è così dogmatico da negare i fatti, anche il fatto che gli uomini preferiscono la libertà alla tirannide, le donne preferiscono avere gli stessi diritti degli uomini, tutti preferiscono la libertà di espressione, di coscienza, di religione, tutti amano l’uguaglianza e non le discriminazioni.
Infine, il relativismo è una malattia perché ci lascia senza parole di fronte a chi ci critica o ci denigra o ci attacca. Se uno stile di vita o una cultura vale l’altra, perché l’una e l’altra, per il sol fatto di essere culture, hanno la stessa dignità etica, come possiamo difenderci?
Si dice: noi non dobbiamo difenderci, dobbiamo dialogare. Ma cosa significa dialogare? Dialogare non è intrattenere una conversazione, dialogare non è chiacchierare. Dialogare è cercare di convincersi l’un l’altro o arricchirsi l’uno della concezione dell’altro. Ma come possiamo convincere un altro se non siamo convinti di noi stessi? Come possiamo affermare un principio se non lo consideriamo valido anche per l’altro?
Proprio nel dialogo con l’altro, questo pensiero relativista ha prodotto una politica sbagliata: il multiculturalismo.Che il primo sia padre del secondo non c’è dubbio. Se tutte le nostre convinzioni sono relative, allora tutte le comunità devono essere tollerate, non solo quelle che hanno concezioni simili alle nostre, non solo quelle che ne hanno di diverse, anche quelle che ne hanno di opposte e ostili. Alla fine, dovremmo tollerare anche quelle comunità che violassero i diritti e i valori riconosciuti nella nostra società, ad esempio la parità uomo-donna, il rispetto dei bambini, o la dignità della persona.
Di fronte a queste violazioni non potremmo dire niente. E infatti poco o niente dice l’Europa, con la conseguenza che il multiculturalismo sta producendo “società arcobaleno”, in cui ogni comunità tende a vivere separatamente, fino al punto che la separatezza, soprattutto per gli svantaggiati, crea divisioni, ghetti e tensioni sociali. O fino al punto – come già si sente dire e richiedere – che in certe città o zone dovrebbero valere leggi diverse dalle nostre, ad esempio la legge coranica anziché quelle dello Stato di diritto.
C’è un modo non multiculturalista di affrontare il problema del confronto fra le culture? Detto in termini politici attuali, c’è un modo non multiculturalista, che di fatto è già fallito, per affrontare il problema della integrazione degli immigrati? Questo è il momento di rispondere alle obiezioni dei nostri critici. In particolare una, la più odiosa che ci sia stata mossa: quella di essere razzisti.
4. L’Europa, l’immigrazione e l’Islam
Di Islam nel nostro Manifesto non si parla. Si parla di integrazione. Siamo forse diventati politicamente corretti? Stiamo nascondendo la testa sotto la sabbia?
No. Noi riteniamo che il fondamentalismo islamico sia un pericolo e che il terrorismo che si fa scudo della religione dell’Islam sia un rischio mortale. Contro questo rischio e questo pericolo noi dobbiamo usare tutte le armi – culturali, diplomatiche, politiche, negoziali, economiche, dell’informazione – e, se i terroristi usano le armi della violenza, allora, ove ci fossimo da essi costretti, anche il Compendio del Catechismo della Chiesa cattolica viene in nostro soccorso.
L’arma più importante e più efficace resta però quella della cultura. Nelle relazioni internazionali, questa è l’arma della richiesta della reciprocità rispetto ai nostri diritti. All’interno dell’Europa, è l’arma dell’integrazione.
Ma integrare come? Noi diciamo mediante la accettazione e la condivisione da parte degli immigrati dei nostri princìpi e dei nostri valori, quelli garantiti dalla nostra Costituzione e dalle altre Carte, europee e internazionali. Quando si tratti di rispetto di princìpi e valori fondamentali, dunque, niente separatezza, niente autonomia, niente tolleranza. Siccome questi sono beni di tutti, essi devono essere rispettati da tutti.
Ma, ci si può chiedere, in questo richiamo ai “nostri” princìpi e valori non c’è una forma di razzismo? Tutto il contrario. Perché noi, grazie alla nostra tradizione giudaico-cristiana e alla sua evoluzione, crediamo che tutti gli uomini siano ugualmente persone; e perché noi abbiamo stabilito che essi abbiano tutti gli stessi diritti. In noi non c’è razzismo, perché noi non siamo interessati alle razze umane, a noi stanno a cuore i diritti umani.
Si obietterà ancora: richiamandoti ai “nostri” principi, non alimenti forse una distinzione fra civiltà e perciò non ne favorisci uno scontro? Rispondo: no, noi ci richiamiamo ai nostri princìpi proprio per evitare lo scontro di civiltà. Ma naturalmente abbiamo occhi per vedere e leggere. Lo scontro di civiltà di cui si parla è oggi quella “guerra santa” che ci è stata dichiarata nel modo più tragico a partire dall’11 settembre 2001, perché, secondo chi ce l’ha dichiarata, noi saremmo colpevoli di essere “giudei e crociati”, cioè ebrei e cristiani. Possiamo ignorarlo questo fatto?
Non possiamo. E allora dobbiamo cominciare col dire che, sì, siamo ebrei e cristiani, sì, ne siamo consapevoli e vogliamo esserlo, sì, come ebrei e cristiani abbiamo messo in piedi, dopo tanti errori e orrori, dalla guerre di religione all’Olocausto, una civiltà che è la migliore fra quante abbiamo attraversato, perché è la più aperta, la più disponibile, la più ospitale, la più universale.
Dunque, noi vogliamo evitare lo scontro. Ma se questo scontro esiste e se è contro di noi, allora noi dobbiamo vincerlo, perché o vinciamo la guerra che ci è stata dichiarata oppure la nostra civiltà scomparirà.
Non è l’Islam in sé il nostro problema, non sono gli uomini e le donne che professano la religione dell’Islam a preoccuparci, non è il confronto con le culture che ci reca timori. Ciò che ci preoccupa, qui in Europa, è l’indifferenza che vediamo, la cattiva tolleranza che pratichiamo, la scarsa convinzione di noi che abbiamo, il timore che nutriamo, la paura che mostriamo, e la resa a cui infine ci apprestiamo. Ciò che ci preoccupa è sentir sempre parlare di diritti delle minoranze e quasi mai di diritti della maggioranza.
Ripeto: il nostro nemico non è l’Islam. Il nostro vero nemico è la nostra incapacità a reagire a coloro che, facendo dell’Islam uno strumento, decidono di aggredirci nei nostri princìpi e valori più cari.
L’Islam, come qualunque altra religione che abbia convinzione di sé e volontà di proselitismo, è un rischio solo se l’Europa si arrende al buonismo, all’indifferentismo, al relativismo, al multiculturalismo, al pacifismo. L’Islam è un rischio se perdiamo la nostra identità, se decidiamo di non averne una, o, il che è lo stesso, se – come è scritto nel programma elettorale dell’Unione – accettiamo l’idea di una “identità in divenire”.
5. Opposte visioni del mondo
Sono alle ultime battute. Questo riferimento che ho fatto al programma dell’Unione dice che siamo vicini alle elezioni. Il nostro Manifesto non è un manifesto elettorale, non è nato durante la campagna elettorale e non si esaurirà il giorno delle elezioni. Ma poiché è stato sottoscritto da tanti candidati e dal premier Berlusconi, poiché contiene tanti impegni politici, poiché prende posizione su tante questioni politiche, esso dice qualcosa anche per le elezioni prossime.
Personalmente, sono candidato di Forza Italia in Emilia, Toscana, Piemonte. Ma altri qui e fra gli aderenti al Manifesto per l’Occidente sono candidati in altri partiti della Casa delle Libertà e stanno facendo campagna elettorale dicendo le stesse cose che dico io. Di ciò c’è una ragione profonda.
Nel programma elettorale della Casa delle Libertà, proprio all’inizio, c’è un punto in piena consonanza col nostro Manifesto. Lì si dice che nel 2006 alla libertà “si deve aggiungere un altro valore complementare alla libertà, la sicurezza della nostra identità”. Questo concetto di identità è ripetuto quattro volte nella stessa pagina. E ad esso si aggiunge un appello alla “difesa delle radici giudaico-cristiane e a contrasto di ogni fondamentalismo”, per poi concludere:
«Questo è il cuore del nostro programma. Questo è il centro strategico del nostro disegno tanto sul lato politico quanto sul lato economico, tanto in Italia, quanto in Europa: la difesa dei valori religiosi e dei princìpi morali, la difesa della famiglia e delle nostre radici, l’impegno a rispettare la nostra civiltà da parte di chi entra».
Se questi concetti erano assenti nel programma del 2001, significa che la Casa delle Libertà ha compreso ciò che è cambiato in questi cinque anni. E se questi concetti non sono presenti nel programma del 2006 dell’Unione, significa che essa non ha capito, o che ha capito diversamente da noi.
Lì, in quel programma dell’Unione, si parla di unioni di fatto, a definire le quali – è scritto – “non è dirimente il genere dei conviventi né il loro orientamento sessuale”. Lì si parla di “diritto di elettorato amministrativo, attivo e passivo” per gli immigrati e di “diritto di voto a livello locale agli stranieri dotati di un regolare titolo di soggiorno di lunga durata”. Lì, insomma, si parla di “nuovi diritti”, anche se vanno a detrimento dei vecchi, e si parla di diritti delle minoranze, senza curarsi di quelli della maggioranza del popolo italiano.
Il professor Prodi non ama parlare di Pacs, ma poi scrive ad Arcigay e Arcilesbisca per dire che, sì, si faranno, anche se è bene non fare “chiasso” durante la campagna elettorale. Al professor Prodi piace parlare della famiglia, ma poi da un manifesto di Rifondazione comunista si apprende che “la famiglia si articola in una vasta molteplicità di opzioni e di libere unioni”. Il professor Prodi si considera un credente rispettoso, ma poi l’onorevole Boselli dice che “l’Italia è diventata una specie di sorvegliata speciale per le gerarchie ecclesiastiche”, e la onorevole Bonino, a proposito delle parole del Santo Padre, parla di “un colpo alla laicità delle istituzioni”, mentre la Margherita si divide fra le idee della professoressa Binetti e del dottor Bobba e quella della onorevole Rosy Bindi. Mi chiedo: il professor Prodi ha un programma politico o è costretto a indossare le vesti di Arlecchino?
E poi c’è quello che … non c’è. Nel programma dell’Unione e nel dibattito fra le forze che la compongono non c’è riferimento ad un’Europa identitaria, non alle nostre radici cristiane, non al diritto alla vita, non alla sussidiarietà, non alla pluralità dell’educazione. C’è invece, tra quelle forze, una tracotante protesta contro la Chiesa e il Papa, una ideologica chiusura verso le scuole cattoliche, un’idea di Europa angelica e senza responsabilità, una tendenza a distaccare l’Europa dall’America, e anche – come è scritto – “un segnale forte di discontinuità sia al popolo iracheno sia alla comunità internazionale”, senza curarsi né del popolo iracheno né del nostro interesse nazionale. Non sono mancati neppure coloro che hanno scandito slogan come “10, 100, 1000 Nassyria”, in spregio al nostro Paese e ai nostri valorosi militari.
Ecco perché io non accetto il programma dell’Unione. Perché voglio la mia identità. Voglio la mia tradizione. Voglio la mia cultura. Voglio la mia storia. Lo voglio, tutto questo, non perché sono tracotante o arrogante o oppressore. Lo voglio non perché non rispetto gli altri. Lo voglio perché rispetto me stesso. Lo voglio perché se nel mio Paese, nella mia Europa, si aggrava ancora di più la crisi spirituale e morale che stiamo attraversando, allora il mio futuro sarà perduto.
Noi già il 9 aprile quel futuro eviteremo di perderlo. Abbiamo capito che la discriminante fra noi e i nostri oppositori politici della sinistra è, come ha scritto il presidente Berlusconi a Isabella Bertolini, “lo scontro fra due opposte visioni del mondo”. Abbiamo capito la posta in gioco. E siccome abbiamo capito, intendiamo vincerla, quella posta, per noi, per i nostri figli, per l’Europa, per l’Occidente.
http://www.marcellopera.it/diario/2006/04/02/mp-20060402/