Togliatti, un uomo di specchiata doppiezza
La falsità lo ha tutelato sul piano politico, ma non di fronte alla Storia…
Il famoso «rapporto segreto» con cui Nikita Krusciov denunciò nel 1956 i crimini staliniani fu per Togliatti un colpo terribile.
La Nomenklatura sovietica non aveva pianto la morte del tiranno, anzi se n’era sentita sollevata: e fu forse sorpresa, ma non scandalizzata e nemmeno rattristata, dalla franchezza di Krusciov nello svelare le tenebre di anni cupi.
Nel sistema chiuso del regime l’eco d’un pronunciamento di quella portata poteva essere riportato all’ortodossia ideologica: o addirittura presentata come un recupero dell’ortodossia stessa. Le pagine della storia erano là soggette a ordini superiori, come quelle mutevoli dell’enciclopedia sovietica. Ma il giuoco era enormemente più complesso in Occidente, dove i capi comunisti – tra loro Togliatti era di gran lunga il più prestigioso – avevano a che fare con mezzi d’informazione liberi, con un’opinione pubblica libera, con polemiche accese, con una zavorra di loro bugie su molte delle quali il «rapporto segreto» era calato come un macigno, polverizzandole. Maestro di doppiezza, “il Migliore” era messo qui a una prova di estrema difficoltà.
La relazione ufficiale di Krusciov, in quel fatidico XX Congresso del Pcus, era stata rassicurante, sulla scia della tradizione. Il corrispondente dell’Unità, Boffa, aveva decantato l’annunciata riduzione della giornata lavorativa, erano stati vantati i successi nella produzione di patate, di granturco, di maiali. Tutto secondo un copione strarecitato. Ma Togliatti aveva saputo fin dal primo momento del tremendo j’accuse! a Stalin. Secondo la biografia a lui dedicata da Giorgio Bocca ne fu informato così: «Salgono nella sua stanza d’albergo due ufficiali sovietici, posano sul tavolo un cofano di metallo, lo aprono. Dentro c’è il rapporto. Togliatti (che conosceva alla perfezione il russo, ndr) può leggere ma i due ufficiali stanno di guardia alla porta. L’ordine per ora è di tacere. Ad Amadesi (un componente della delegazione italiana, ndr) che anche a nome degli altri gli chiede notizie sulla misteriosa ambasceria, risponde: «Niente, sciocchezze, tu li conosci con la loro mania della segretezza».
Togliatti tacque. Ma le indiscrezioni crescevano e filtravano, e del resto la vecchia guardia del partito, con il suo fiuto per i sottintesi degli eventi sovietici, aveva subodorato che covava qualcosa di grosso. Il 7 marzo (1956) Togliatti arrivò a Roma da Mosca. Con Giancarlo Pajetta, Negarville e Amendola che l’avevano accolto alla stazione Termini tenne la bocca cucita. Poi il 13 marzo, nel Comitato centrale del Pci, ridimensionò Stalin ma con cautela («è stato e rimane una grande figura di tutto il movimento… il suo errore successivo fu di mettersi, a poco a poco, al disopra degli organi dirigenti del partito». Ai primi di aprile, durante un Consiglio nazionale del Pci – la pubblicazione sul New York Times del «rapporto segreto» avvenne il 4 giugno, ma già le voci erano incalzanti – pronunciò un discorso generico applaudito senza entusiasmo dai presenti. Uscendo dalla sala in cui era stata tenuta la riunione chiese a Giorgio Amendola come fosse andata. Risposta: «È andata male. Non hai parlato della sostanza del XX Congresso, delle critiche a Stalin: avevamo deciso che tu parlassi esplicitamente». E Togliatti, con ostentato candore: «Ah, me ne sono dimenticato».
Dove la doppiezza e la dissimulazione attingono le vette del sublime.
Togliatti tentò di spiegare – nell’intervista a Nuovi Argomenti – la stupefacente svolta del Cremlino. E osò ribadire che il sistema sovietico era «molto più democratico progredito di qualsiasi sistema democratico tradizionale». Gli fu chiesto conto dell’approvazione data alle purghe staliniane. Replicò che i comunisti di tutto il mondo avevano sempre avuto «una fiducia senza limiti nel Partito comunista sovietico e nei suoi dirigenti» e che «di questo rapporto di fiducia e di solidarietà non vi è nessuno di noi che abbia a pentirsi».
Ma Togliatti non aveva a che fare con il mondo mediatico chiuso, servile e mentitore in cui era vissuto quando alloggiava all’hotel Lux di Mosca, e in cui vivevano ancora Krusciov e gli altri notabili sovietici, o dei Paesi vassalli. Aveva a che fare con una stampa democratica e con denunce serie, documentate, incessanti. Gli veniva rinfacciata l’adesione data alle peggiori nefandezze del comunismo non mentre viveva da esiliato politico in Urss, e poteva temere le vendette del despota, ma mentre era leader di partito nella libera e democratica Italia. Nel suo discorso al VII congresso del Pci – aprile 1951 – aveva vantato successi mirabolanti ottenuti nei Paesi del socialismo reale, avviati verso un futuro radioso. «È vero – tuonava – che vi è stato il passaggio della cricca di Tito al campo degli imperialisti, ma lo smascheramento di questa cricca di rinnegati è stato rapido, completo. Tutti i tentativi poi fatti dagli imperialisti per allargare questa breccia, sono falliti grazie alla vigilanza rivoluzionaria dei partiti comunisti e operai e dei governi dei Paesi di democrazia popolare, come hanno dimostrato i processi dei traditori Rajk e Kostov, come dimostrano le recenti energiche misure del partito cecoslovacco per smascherare e punire i provocatori e le spie che erano riusciti a penetrare nelle file del nostro movimento».
Le «energiche misure» erano consistite nel giustiziare, dopo processi farsa, dirigenti e militanti di partito rei d’avere magari qualche idea un po’ diversa dalle idee di Stalin. Accusati, quei dirigenti e militanti, di inesistenti crimini e di congiure inventate. L’aspetto peggiore di questa denuncia togliattiana non sta nell’aver condiviso gli orrori d’una pseudo-giustizia dettata da Stalin. Si può aver fede sincera in sentenze sbagliate. L’aspetto peggiore è questo: Togliatti sapeva che le sentenze di morte derivavano da caricature di processi, che i reati addebitati alle vittime erano costruiti a tavolino, che le confessioni erano estorte con la tortura. Sapeva perfettamente tutto questo, forte oltretutto d’una esperienza fattasi come ospite di Stalin, uno di quegli ospiti e collaboratori che sempre temevano d’essere d’improvviso assoggettati ai suoi capricci letali. E pur sapendo tutto questo, e trovandosi in territorio sicuro, l’Italia democratica, ingannava i congressisti che forse non chiedevano altro che d’essere ingannati – ma ingannava anche tanti operai e contadini italiani che di lui e del Pci si fidavano.
Questa la spaventosa doppiezza di cui aveva dato prova prima del «rapporto segreto» e di cui diede prova dopo.
La doppiezza è stata per lui un’arma potente, lo ha tutelato sul piano politico, ma non lo tutela al vaglio della storia.
di Mario Cervi
Il Giornale 8 marzo 2006