LE NON BUONE ISPIRAZIONI
DEL CARDINAL MARTINI
All’Angelus di domenica 4 febbraio, nella Giornata della Vita indetta dalla Chiesa italiana, Benedetto XVI ha detto: “La vita, che è opera di Dio, non va negata ad alcuno, neppure al più piccolo e indifeso nascituro, tanto meno quando presenta gravi disabilità. Allo stesso tempo, facendo eco ai pastori della Chiesa in Italia, invito a non cadere nell’inganno di pensare di poter disporre della vita fino a ‘legittimarne l’interruzione con l’eutanasia, magari mascherandola con un velo di umana pietà’”.
Nella prima frase, dedicata all’aborto, il Papa ha alluso al documento varato pochi giorni prima dalle Nazioni Unite sulla tutela dei disabili: documento che la Santa Sede ha rifiutato di sottoscrivere proprio per l’incoraggiamento all’aborto in esso contenuto. Nella frase relativa all’eutanasia, invece, Benedetto XVI ha implicitamente sconfessato le posizioni sostenute dal cardinale Carlo Maria Martini in un articolo su “Il Sole 24 Ore” di due domeniche prima.
L’intervento del cardinal Martini, difatto, si è rivelato «un importante aiuto ispiratore» per l’Ordine dei medici di Cremona nel prendere la decisione di archiviare in tutta fretta il procedimento disciplinare sul conto del dottor Riccio dopo la morte di Piergiorgio Welby. Il dottor Andrea Bianchi, presidente dell’Ordine dei medici di Cremona, riferendosi agli interventi dell’arcivescovo emerito di Milano e del senatore Cossiga, che aveva denunciato Riccio per omicidio di consenziente, ha affermato: «Un importante aiuto per la nostra decisione è arrivato inaspettatamente dal cardinal Martini, che con lucidità ha saputo distinguere tra eutanasia e interruzione del trattamento. Fuori luogo quelle di un noto senatore della Repubblica che invece ha parlato addirittura di omicidio». Questo conferma le gravi conseguenze dell’intervento del cardinal Martini.
Presentiamo un DOSSIER che aiuta a capire meglio come, in realtà, il «caso Welby» non sia stato un’interruzione di accanimento terapeutico, ma bensì un caso di eutanasia…
1) Accanimento ideologico di Emanuele Boffi
2) Eluso il cuore del problema di Enrico Negrotti
3) Morte di una bandiera Intervista al Dott. Giuseppe Casale, il medico che si rifiutò di staccare la spina a Welby
1)
Accanimento ideologico
Adesso tutti a dire non è stato un caso di dolce morte. «Ma su Piergiorgio c’è stata eutanasia». Parla Marco Maltoni, esperto di cure palliative
di Emanuele Boffi
Alle 5 del mattino il gallo cantò. «E fece svegliare tutto l’ospedale» racconta Marco Maloni, direttore dell’Hospice Valerio Grassi di Forlimpopoli a due passi da Forlì.
Gli hospice sono nati negli anni Sessanta in Inghilterra per iniziativa di Cicely Saunders, un’infermiera (che poi ottenne la laurea honoris causa in medicina) che si accorse del problema dell’abbandono e dell’accanimento terapeutico. La Saunders diede vita agli hospice, luoghi in cui si utilizzano cure palliative per accompagnare i malati terminali fino al loro ultimo giorno. Secondo l’idea originale della Saunders questi luoghi devono guardare la persona nella sua «totalità», sia quindi sotto l’aspetto fisico sia sotto quello spirituale. «E secondo la tradizione inglese – spiega Maltoni – si consente ai pazienti di portare nell’hospice anche piccoli animali come cani e gatti». La signora (che vedete riprodotta nella foto qui sopra) non aveva né gli uni né gli altri, «ma solo un bel galletto nero con la cresta rossastra. Ci chiese di poterlo introdurre in stanza. Acconsentimmo, dimenticandoci di quali siano le abitudini dei galli allo spuntare del nuovo giorno», sorride il medico.
Marco Maltoni è a capo di una delle 111 strutture presenti sul territorio italiano. Inaugurata nel 2002 ha accolto circa un migliaio di malati e «nessuno mai ha fatto richiesta di eutanasia» dice Maltoni che sul tema ha anche scritto un bel libro, La morte dell’eutanasia (Società editrice fiorentina). Il dottore sa bene che, soprattutto nel mondo anglosassone, l’hospice è oggi diventato il luogo dove l’eutanasia è praticata: «In Oregon l’80 per cento delle dolci morti avviene in ospedali come questo». Lui però preferisce rimanere fedele all’intuizione della Saunders che «era contraria all’eutanasia perché convinta che le cure palliative siano un mezzo per diminuire le sofferenze del malato, non uno stratagemma per provocare la morte».
Naturalmente Maltoni ha seguito con attenzione il caso di Piergiorgio Welby, il malato di distrofia muscolare progressiva che ha chiesto e ottenuto di staccare il respiratore artificiale cui era collegato. Secondo il direttore dell’hospice è stata fatta molta confusione nel dibattito che ha circondato la vicenda e, purtroppo, ancora oggi su molte parole si gioca a fraintendersi. Nel suo libro scrive: «Nella sedazione palliativa, l’intenzione è il sollievo di una sofferenza altrimenti intollerabile; la procedura è l’utilizzo progressivo e monitorato, fino al risultato, di farmaci sedativi per il controllo dei sintomi; il risultato soddisfacente è il sollievo. Nell’eutanasia, l’intenzione è l’uccisione del paziente; la procedura è la somministrazione di un farmaco con modalità e a dosi letali; il risultato soddisfacente è l’immediata morte del paziente». Maltoni conferma a Tempi che nel caso di Welby era chiarissima «l’intenzione di abbreviare la sua esistenza» e che oggi sia molto turbato dal fatto che si sia spostato il problema sul piano dell’accanimento terapeutico. «Caso che non c’entra nulla con Welby. Per esserci accanimento terapeutico il trattamento deve essere futile, sproporzionato e gravoso. Tre condizioni non vissute da Welby».
OMISSIONE DI SOCCORSO
Si è detto che al copresidente dell’associazione Coscioni è stata fatta una sedazione e contestualmente è stata staccata la spina. Mario Riccio, il medico che l’ha assistito, ha dichiarato di non aver fatto alcun «atto eutanasico». Molte sono state le parole spese per chiamare con altro nome quello che a tutta evidenza appare come pura eutanasia. Comunque la si voglia vedere – non un caso di eutanasia attiva, ma solo passiva – per Maltoni, che su questo concorda con monsignor Elio Sgreccia, presidente della Pontificia accademia per la vita, «il non fare nulla in casi come questo significa provocare la morte. è come l’omissione di soccorso per gli incidenti stradali. Se non aiuti il sofferente, questi muore».
Maltoni non riesce a capire perché «oggi il disperato suicidio di alcuni dovrebbe essere riconosciuto come un diritto dallo Stato. Non solo non condivido questa impostazione ideologica del problema, ma soprattutto mi chiedo: perché questo diritto dovrebbe diventare un dovere per il medico? Perché io medico devo acconsentire alla tua volontà di morire?».
TEMPI del 1 febbraio 2007
2)
Saraceni (medici cattolici): eluso il cuore del problema
«Il dottore non può essere ritenuto un mero esecutore della volontà del paziente, il suo compito è salvare e difendere la vita»
di Enrico Negrotti
«Sorprende la fretta con cui l’Ordine dei medici di Cremona ha deciso di archiviare il caso del dottor Riccio. E nello stesso tempo assumendo un atteggiamento di anticipazione di possibili scelte legislative, anzi quasi auspicandole». Vincenzo Saraceni, docente di Medicina fisica e riabilitazione all’Università «La Sapienza» di Roma e presidente dell’Associazione medici cattolici italiani (Amci), non vuole entrare nella valutazione specifica del medico, ma «sul piano generale – osserva – pare riduttivo che il medico possa essere considerato il mero esecutore della volontà del paziente, qualunque essa sia».
Professor Saraceni, come valuta la decisione dell’Ordine dei medici di Cremona di archiviare il procedimento disciplinare sul conto del dottor Riccio dopo la morte di Piergiorgio Welby?
Sono sorpreso dalla decisione della commissione disciplinare, in particolare dalla velocità con cui è stata assunta, quasi un atteggiamento frettoloso. È infatti discutibile sostenere che il comportamento è stato «ineccepibile» dal punto di vista deontologico ed escludere qualunque profilo eutanasico. Secondo noi si è trattato dell’interruzione della vita attraverso l’interruzione della terapia. Il rapido giudizio sembra quasi una volontà di passare oltre, senza affrontare il nodo del problema che era se si trattasse di accanimento terapeutico o di eutanasia.
Nel nuovo Codice deontologico ad accanimento terapeutico ed eutanasia sono dedicate parole chiare. Sono stati tenuti in considerazione adeguatamente?
È prevalso il riferimento al diritto del paziente a rifiutare un trattamento. Ma in questo modo, si è isolato un punto in un Codice che complessivamente è a difesa della vita e contro l’eutanasia. E anche la sospensione delle cure significa che si possono rifiutare cure inutili o che non danno sollievo al paziente, ma questo caso è diverso. Ripeto: non si può paragonare un trattamento futile a un intervento salvavita. E mi pare che non ci sia stato il tentativo di capire se si trattava di accanimento terapeutico o di eutanasia. Ma vorrei anche ricordare che nel Codice penale è tuttora previsto il reato di omicidio del consenziente.
La figura del medico assume i contorni del «tecnico» esecutore di qualunque volontà del paziente. È un profilo accettabile per voi?
Non direi. Il medico non può essere ridotto a esecutore di una volontà del paziente: occorre instaurare una relazione, una alleanza terapeutica, che porta a confrontarsi con le possibilità delle cure. Viceversa assumere un atteggiamento «notarile» verso le richieste del paziente contraddice la storia professionale del medico. Il problema di fondo infatti rimane l’incontro tra la volontà del paziente e il dovere del medico di salvare e difendere la vita.
Sul piano formale, la decisione dell’Ordine dei medici provinciale chiude la vicenda. Cosa succederà adesso?
L’atteggiamento un po’ disinvolto (e che arriva addirittura ad auspicare un intervento legislativo in materia) pare un desiderio di chiudere la vicenda ancor prima che fossero noti i risultati dell’autopsia e delle indagini della procura. Mi parrebbe opportuno che la stessa Fnomceo (Federazione nazionale degli Ordini dei medici e degli odontoiatri) prendesse posizione ed esprimesse una valutazione. Il Codice che vieta l’eutanasia è stato approvato solo il 16 dicembre scorso.
Avvenire Venerdi 02 febbraio 2007
3)
Intervista
MORTE DI UNA BANDIERA
Altro che atto di pietà: quaranta minuti di agonia. Parla il medico che si rifiutò di staccare la spina a Welby
di Boffi Emanuele
«No, non credo che il grande clamore sul caso di Piergiorgio Welby abbia avuto un’influenza infausta sui malati che vivono in situazioni simili. Perché chi è costretto a una grave sofferenza vuole vivere. Sempre. Invece penso che un’influenza l’abbia avuta sui sani, su di noi, sugli operatori, sui famigliari. Perché adesso mi capita sempre più spesso di incontrare parenti di persone indigenti che sono rosi dal dubbio: “Non farà mica la fine di Welby?”». Giuseppe Casale è il medico palliativista che fu contattato dall’associazione Luca Coscioni per prendersi cura di Piergiorgio Welby, il copresidente dell’associazione Luca Coscioni, malato di distrofia muscolare e morto alle 23.40 del 20 dicembre 2006. Il caso è finito su tutte le pagine dei giornali italiani. Welby ha chiesto al presidente Piergiorgio Napolitano di prendere in considerazione la sua volontà di essere ucciso. Secondo Casale, oggi, dopo il lungo dibattito sulla liceità o meno dell’atto, ciò che rimane è questo dubbio, depositatosi nell’animo non dei sofferenti, ma dei non sofferenti. «Proprio in questi giorni assisto un paziente, ex giornalista, di sinistra, un uomo colto e assolutamente lucido. Gli ho chiesto se farebbe la stessa scelta. Mi ha ribattuto: “e perché? Posso leggere e scrivere. Sono vivo, no?”». Secondo Casale il problema è degli “altri”, «di quelli che stanno vicino ai malati, oggi più angosciati. Capita spesso di sentire dei terminali affermare per stanchezza “non vedo l’ora che sia finita”. Ma tra questo lamento e il richiedere l’eutanasia c’è uno spazio infinito. Invece, dopo Welby, chi fino ad oggi li assisteva amorevolmente è preso dall’ansia che, forse, quelle frasi smozzicate sono una richiesta al suo buon cuore di ucciderlo».
In vent’anni d’attività, Casale con la sua associazione è venuto in contatto in tutta Italia con circa diecimila malati terminali. Welby è stato il primo a chiedergli la morte. Racconta che due mesi prima dell’evento fu contattato dai radicali. «Andai a casa sua. Viveva in un appartamento alla periferia di Roma». Una casa piuttosto piccola, raggiungibile solo con uno stretto ascensore che s’inerpicava per quattro piani. «Stava sdraiato su un letto addossato al muro, lontano dalla finestra. Non poteva vedere il paesaggio esterno. L’unica ad assisterlo era la moglie Mina, una donna minuta, mentre lui era un marcantonio di quasi due metri, ragione per cui la consorte certo faticava molto per spostarlo». Piergiorgio, oltre che dalla moglie, era assistito «due, tre volte la settimana, per un paio di ore al giorno, dagli addetti comunali». Mina lo sosteneva in tutto, dalle cure igieniche al nutrimento, alla pulizia del respiratore artificiale cui Piergiorgio era stato attaccato nel 1997. «Si nutriva con pappe fluide perché aveva difficoltà a ingoiare. Parlava poco e solo la moglie era in grado di comprenderne i suoni. Posso testimoniare che era assolutamente lucido e presente. Si può dire che era una persona assolutamente vivace, ma che riversava tutta questa sua vitalità verso un solo intento: morire con la bandiera in mano».
In quei giorni, il dottor Casale dichiarò ai giornali di «essere contrario all’eutanasia. è la risposta sbagliata di una società che non sa prendersi cura di chi soffre». Aggiunse anche che Welby era «un caso straziante di strumentalizzazione per fini politici».
UNA STANZA PER VEDERE IL CIELO
«E tuttora sono convinto che sia stato un caso a forte tasso ideologico», ribadisce a Tempi. Casale ricorda che la richiesta di Welby fu subito chiara: «Voleva essere staccato dal respiratore e basta. Però aveva anche paura di soffrire perché aveva capito che sarebbe andato in crisi respiratoria e sarebbe morto per soffocamento». Il medico gli propose delle alternative: l’aiuto di uno psicologo, di infermieri, di altri volontari. Gli disse anche che avrebbe potuto portarlo in un hospice, un ospedale accogliente in cui avrebbero potuto con più facilità spostarlo dal letto, condurlo in giardino, fargli prendere “un po’ d’aria”, mostrargli quel cielo che, ormai da un anno, non poteva scorgere dalla finestra del suo appartamento. «Niente, era determinato nel suo intento. Nel gergo di noi esperti, chiamiamo questa situazione un caso di “sofferenza spirituale”, che non ha niente a che fare con la religione. Significa che il soggetto è in preda a una profonda crisi esistenziale». Ma Welby non accettò nemmeno il trasferimento all’hospice. «E nemmeno l’assistenza domicilare. Ha rifiutato anche la terapia ansiolitica». Dopo questa serie di dinieghi, Casale gli ha allora prospettato una sedazione sottocutanea. «Questo, ho precisato, non però per ucciderlo, ma per abbassargli il livello di coscienza, per non farlo soffrire. Le cure palliative infatti non servono per “far morire”, ma per “non far soffrire”. Avesse accettato sarebbe comunque andato incontro alla morte, ma in modo naturale, indolore, non traumatico». Niente. Welby voleva essere sedato e contestualmente staccato dal respiratore. è quello che è accaduto la notte del 20 dicembre quando Mario Riccio, anestesista di Cremona, gli ha dato la morte.
MARTINI SARÀ MALE INFORMATO
È curioso notare che quella che è sempre stata presentata come una battaglia in nome dell’eutanasia (e che così era intesa da Welby) sia oggi presentata in altri termini. Riccio ha dichiarato all’Unità che «da parte mia non c’è stato un atto eutanasico». E anche il cardinale Carlo Maria Martini, in un suo recente articolo sul Sole 24 Ore, dà a intendere che casi come questi – «su cui in futuro la Chiesa dovrà dare più attenta considerazione anche pastorale» ha scritto – siano da considerare semplici interruzione di accanimento terapeutico. Ipotesi, però, esclusa nel pomeriggio del decesso dal Consiglio superiore di sanità che, richiesto di un parere dal ministro della salute Livia Turco, aveva sentenziato non trattarsi di accanimento. Casale non vuole polemizzare con l’ex arcivescovo di Milano («è una persona che stimo. Sarà stato male informato») però ci tiene a sottolineare il fatto che «il ventilatore che lo teneva in vita non era né inutile né dannoso per la sua salute. Le sue condizioni non facevano assolutamente pensare che la sua morte fosse prossima».
Anche un convinto sostenitore della dolce morte come l’oncologo Umberto Veronesi ha detto, durante l’audizione parlamentare, che «eticamente quello di Piergiorgio Welby è stato un suicidio». In questo caso, un suicidio assistito. «E certamente non indolore», chiosa Casale. «Perché quel che purtroppo vedo ancora non essere chiaro è che, sebbene il paziente sia stato sedato, non è possibile pensare che la morte sia giunta “come dormendo”». Il suo corpo deve aver reagito al distacco del respiratore. Casale si chiede: «Ma eutanasia non significa dolce morte? Qui di dolce c’è stato ben poco. Se l’hanno sedato e contestualmente staccato, significa che per 30, 40 minuti quel corpo ha sussultato nel letto prima che sopraggiungesse la fine della sofferenza». Il dottore non era presente quella sera a casa Welby – c’era la moglie Mina con Marco Cappato dei radicali e Riccio – ma può assicurare che «se è vero che Welby non era cosciente, il suo corpo, però, avrà cercato lo stesso ancora aria». Questo significa che la morte è giunta per «soffocamento».
LA PIAGA DELL’ABBANDONO
«è stata una delle vicende più difficili della mia vita» dice Casale. Che se la rideva tristemente quando leggeva sui giornali «le opinioni di quei grandi luminari che parlavano della necessità pietosa di esaudire la volontà di Welby. Quante interviste abbiamo letto di medici che si dicevano disposti a staccare la spina?». S’intristiva Casale perché, poi, davanti alla porta di casa «non è che ci fosse la fila…». Lui, piuttosto, rimane convinto che «oggi non sappiamo più affrontare la morte. Anche negli ospedali; si muore dietro un paravento». La nostra è una società «che sta molto bene e non sa più come comportarsi davanti alla malattia, al dolore, alla fine». Casale non ha particolari ricette, ma è convinto che «oggi il problema più grave non sia discutere quale legge sia più adeguata, ma piuttosto risolvere altri più urgenti questioni: la formazione dei medici sulle malattie terminali, la loro preparazione sulle cure palliative, la piaga dell’abbandono». «Se ti prendi cura di qualcuno, è altamente improbabile che quello ti chieda di morire», assicura. «L’abbandono è il vero avvio alla richiesta di eutanasia. Invece, posso testimoniare che anche gli ultimi trenta, quaranta giorni di vita – è questo il periodo restante dei miei pazienti – possono essere un tempo prezioso». A Casale sembra che oggi ci si ritrovi immobilizzati in una palude che «non c’entra nulla con il cuore della vicenda: il rispetto della vita».
Tempi num.5 del 01/02/2007
Per approfondire leggi anche l’ INTERVENTO DI MONS. ELIO SGRECCIA