Il cardinale Ruini interviene sulla questione terrorismo

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PATRIA E VALORI


Ruini: per battere il terrorismo serve l’aiuto dei leader islamici

«Non bisogna odiare ma nemmeno fuggire. Restiamo a Nassiriya per aiutare gli iracheni Un Occidente allargato a Russia e America Latina. E’ essenziale il rapporto con gli Usa»


l’intervista di Luigi Accattoli

«Non bisogna odiare, ma nemmeno fuggire. Credo che occorra rimanere a Nassiriya con un atteggiamento costruttivo, aiutando gli iracheni a combattere l’eversione che colpisce il loro Paese. Ma è necessario anche evitare iniziative che allarghino il fossato fra l’Occidente e il mondo islamico. Altrimenti si rischia di far vincere la logica del terrorismo». Il cardinale Camillo Ruini parla con voce piana, sottile: ma senza esitazioni. E’ un pomeriggio di sole romano. Nel salotto della sua abitazione al Vicariato, il presidente della Cei sembra ancora più esile che nelle foto ufficiali. Ma il suo messaggio al Paese è tutt’altro che debole. Ruini, classe 1931, emiliano, è un lettore di vecchia data del Corriere della Sera . «Lo leggo da quando avevo sette anni» racconta sorridendo. «Era l’unico giornale che entrava in casa: lo comprava mio papà. E quando avevo nove, dieci anni, mi ritrovai in grande vantaggio sui miei coetanei: sapevo cose di cui loro non sapevano nulla. La tv, invece, la guardo poco: al massimo qualche tg».


La sua idea dell’Italia è diversa da quella che appare in tv o sui giornali?
«Diciamo che in generale i mezzi di comunicazione tendono a privilegiare ciò che è insolito, e dunque spesso negativo».


È questo che le fa dire che non bisogna farsi travolgere dalla sindrome del declino?
«Penso alla litigiosità politica, ma non soltanto. Mi preoccupano altrettanto la frammentazione sia in termini di territorio che di categorie. Non dico che occorra dimenticare le proprie specificità e i propri interessi, ma mi impensierisce la tendenza a perseguire soltanto il proprio vantaggio, la chiusura alle ragioni degli altri».


Perché è così forte in Italia la tentazione di non credere, soprattutto tra i giovani? Non rivela una debolezza spirituale della Chiesa?
«La tentazione di non credere c’è sempre stata, ed è già attestata nei Vangeli. È difficile dire se oggi sia più forte. Di certo, è più forte la tendenza a credere a modo proprio e in maniera intimistica. Di fronte a questa prova, il credente sa che il rimedio è anzitutto nelle mani di Dio».


Non ne viene anche un richiamo a riesaminare la storia dell’evangelizzazione e le sue modalità?
«Lo si fa da tempo, lo ha fatto il Concilio e, sulla sua indicazione, il nostro episcopato è venuto concentrando gli sforzi nell’educazione alla fede. Su quella linea lavoriamo ancora oggi, spronati dal richiamo di Giovanni Paolo II che con l’enciclica Redemptor hominis ha indicato la necessità e la possibilità dell’evangelizzazione. Il suo grande merito è nella spinta che ha dato a reagire alla rassegnazione, che in questa materia costituisce il pericolo più sottile».


Lei ha additato il fenomeno delle «culle vuote», allarmato dal nostro tasso di natalità bassissimo. Che spiegazione si è dato?
«Ci sono due ordini di fattori. Il primo riguarda il carico fiscale, da proporzionare al numero dei componenti della famiglia; l’organizzazione del lavoro femminile, che va conciliato con la maternità; e ancora le abitazioni e gli asili nido».



Non le sembra che l’Italia sia in ritardo?
«Sì. Paesi come Francia e Svezia si sono mossi prima e hanno già ottenuto un riequilibrio demografico. Ma questa è soltanto la metà del problema: l’altra è legata a fattori culturali e intimi, che hanno un ruolo decisivo. Se è vero che mettere al mondo figli richiede capacità di nutrire fiducia nel domani, è altrettanto vero che i figli sono suscitatori di energie e di voglia di futuro».


Ritiene che la Chiesa abbia qualcosa da rimproverarsi, in termini culturali?
«Anche la Chiesa deve fare la sua parte, forse più che in passato. Ma la sua parola non è mancata. Anch’io ne parlo continuamente, da quando sono presidente della Cei. Ma a livello politico la questione è rimasta a lungo ignorata. Ora non più: da qualche anno è possibile ascoltare giudizi molto netti, in materia, in particolare da parte del Presidente della Repubblica Ciampi. Ma anche i media dovrebbero fare la propria parte. Ha grande importanza il modello di famiglia che si propone; e se quel modello prevede o no di avere figli».


La Chiesa chiede una politica per la famiglia, ma è intransigente sulle coppie di fatto. Una maggiore tolleranza per queste che sono pur sempre famiglie, non favorirebbe le vostre richieste?
«Non è intransigenza, ma preoccupazione che il patto coniugale non venga svilito con un’equiparazione indebita tra coppie di fatto, magari omosessuali, e coppie legate da un impegno reciproco pubblicamente contratto. Una privatizzazione radicale dell’istituto familiare e del suo ruolo avrebbe conseguenze molto pesanti per il nostro Paese e in particolare per i più giovani».


Parte del mondo cattolico accusa la Cei di interessarsi della famiglia e della scuola ma di tacere sulle violazioni delle regole, che l’opposizione attribuisce al governo Berlusconi. Lei accetta queste accuse?
«Le conosco bene, ma sinceramente non mi sento di accettarle. Può essere vero che non parliamo di certi temi nei termini graditi all’una o all’altra posizione politica. Ma non è vero che non ne parliamo: semplicemente, lo facciamo in modo diverso. La differenza consiste nell’orizzonte nel quale certe tematiche vanno inserite: oggi questo orizzonte non può non comprendere, accanto alla questione sociale e a quella delle istituzioni democratiche, una questione che riguarda l’uomo come tale, la sua differenza dal resto della natura, con tutte le conseguenze che ne derivano, anche a livello pubblico e politico, ad esempio per la bioetica o per la concezione della famiglia».


Eminenza, l’accusa di alcuni cattolici è di indulgenza verso il centrodestra.
«A dire il vero ce n’è anche un’altra, di segno diverso: quella di non essere abbastanza energici nel contrastare la presenza dell’Islam. Di fronte al protagonismo dell’Islam e alle gesta del terrorismo islamico, c’è stato un soprassalto in termini di riscoperta dell’identità cristiana. È un fenomeno da governare e pilotare, che però ha alla radice qualcosa di positivo: l’identità cristiana anche come fatto culturale. L’accusa che ci viene rivolta è di non difenderla abbastanza. Ma la difesa non può essere il rifiuto degli altri: va modulata sui principi cristiani di libertà, accoglienza, dialogo. La percezione collettiva è mutata. E in positivo. Simboli come il Crocefisso non sono più visti solo come espressione religiosa, ma, appunto, come emblemi di un’identità storico-culturale. In altri termini, l’ottica non è più quella della laicità o meno dello Stato, ma dell’identità complessiva del nostro popolo».


Vuole dire che le categorie di laico e cattolico sono superate?
«Se vengono usate per una contrapposizione sistematica, voi di qua noi di là, sì, sono anacronistiche. Occorre capire che cosa sia un laico e che cosa un cattolico. Cattolico anagrafico si può definire il 95 per cento degli italiani; ma i credenti sono di meno. E rimane la differenza fra chi è credente e chi non lo è. Si tratta di una diversità, non di una contrapposizione, che riguarda non soltanto la fede in Dio e in Gesù Cristo, ma anche la concezione dell’uomo e quindi della società».


Anche in economia si è parlato per anni di finanza laica e cattolica.
«Mi pare una distinzione anch’essa un po’ datata».


La sua omelia per i militari italiani uccisi a Nassiriya è stata giudicata un atto di cattolicesimo patriottico. E’ un sentimento che lei avverte nel Paese?
«Credo che parole come patria e nazione abbiano un significato positivo: quello di una comunità storica, sociale, culturale, che si riconosce in un’identità e sa amarla. È qualcosa di diverso dal nazionalismo vissuto in contrapposizione agli altri. È quella che con espressione felice Giovanni Paolo II ha chiamato “famiglia di Nazioni”».


Qualcuno potrebbe persino citare Giuseppe Mazzini: nazionalità e non nazionalismo.
«Il cattolicesimo italiano della seconda metà dell’800 è stato vissuto in antitesi con la “nazionalità” di Mazzini e di altri. Ma siamo nel XXI secolo, e questa contrapposizione si è sciolta. Nessun cattolico, ormai, avverte in modo problematico il rapporto con la patria. L’identità italiana non si risolve nel cattolicesimo, ma il cattolicesimo ne è grande parte».


Che cosa si sente di dire alle truppe italiane in Iraq?
«Confermo quanto ho già detto: non bisogna odiare, ma nemmeno fuggire. Si possono aiutare gli iracheni a combattere il terrorismo proprio rimanendo lì. Ma attenzione: occorre evitare iniziative che allarghino il fossato col mondo islamico».


A che cosa allude? Guerra preventiva all’Iraq? Legge francese sulla laicità che ha proibito il velo nelle scuole? Uccisione mirata dello sceicco Yassin da parte di Israele?
«Sono stato tra i primi, fin dal settembre del 2002, a mettere in guardia sulle gravi implicazioni della guerra preventiva. Occorre trovare la strada, certo non facile, per reagire adeguatamente al terrorismo senza ferire il legittimo senso di identità dei popoli islamici. In concreto tocca ai politici cercare il mezzo giusto e proporzionato al fine che si vuole raggiungere. E una grande responsabilità spetta anche alle guide religiose e politiche dell’Islam, per procedere verso la pacificazione, che è nell’interesse di tutti».


Lei sarebbe favorevole ad una legge italiana come quella francese contro il velo?
«No, sarei contrario. In Francia è stata approvata perché lì il regime di separazione tra sfera statale e religiosa è assoluto. La laicità francese è cosa diversa dalla nostra».


Ritiene che lo scontro di civiltà fra Occidente e Islam sia un rischio irreversibile?
«Il rischio c’è, ma esiste la possibilità di scongiurarlo. L’Occidente ha avuto circa due secoli di predominio incontrastato, che adesso si sta esaurendo. Giunti alla fine della subalternità del mondo all’Occidente, lo scontro è sempre possibile. Si tratta di riuscire a governare questa evoluzione, orientandola verso la coesistenza e la collaborazione, senza illudersi di impedirla».


Accompagnare la fine dell’egemonia occidentale?
«In qualche misura sì, facendo in modo che il meglio della nostra civiltà sia accettato e fatto proprio dai non occidentali».


Che cos’è per lei l’Occidente?
«È qualcosa di più largo sia dell’Europa che degli Usa. Considero la storia dell’Occidente anche come storia della libertà. Bisogna inoltre avere presente ciò che viene unito dalle radici culturali cristiane: i due polmoni dell’Occidente e dell’Oriente, per usare l’immagine del Papa. Il problema è se questi popoli sanno riconoscere la propria matrice comune. Se ci riescono, i valori cristiani possono assumere valore mondiale; altrimenti prevalgono altre logiche».


In questo senso, “Occidente” sono anche l’America Latina e la Russia?
«In questo senso, sicuramente sì. In America Latina esiste una tradizione cristiana rilevante e non troppo diversa da quella italiana. Quanto alla Russia, come altri Paesi esteuropei, è marcata dall’identità religiosa. Dietro settant’anni di comunismo è rimasta, forte e profonda, la tradizione religiosa dell’Europa orientale».


Nel suo Occidente allargato c’è anche Israele?
«Sì. Seppure con una specificità di cui credo quel popolo sia il primo ad essere geloso».


Qual è il pericolo che corre l’Occidente?
«Forse quello di non avere abbastanza coscienza di sé: è importante che abbia una buona, non una cattiva coscienza di se stesso. Non può rendere equivalenti i suoi valori portanti – la dignità della persona, la libertà, la fraternità – alla negazione di questi valori. Altrimenti rischia di perdere le proprie radici. Il relativismo culturale è sempre un grande pericolo».


Come vede i rapporti fra Usa e Europa?
«Posso dire che spero si evolvano positivamente. Non vedo motivi oggettivi che lo impediscano. Esistono una profonda affinità delle matrici culturali e una chiara complementarietà. E per noi, gli Stati Uniti sono un fattore essenziale per la rilevanza complessiva dell’Occidente. Dobbiamo esserne consapevoli».


Da anni la Chiesa italiana non prende posizione alle elezioni. Continuerà a non farlo, a non avere partiti di riferimento?
«Credo proprio di sì. E non solo nel breve periodo. Da dieci anni non prendiamo posizione per una o più forze politiche che voi definite di riferimento: né per le elezioni né fuori dalle elezioni. Ma in positivo indichiamo dei contenuti. Rilevanti per gli elettori».


© Corriere della Sera, 28 marzo 2004