IL CARDINAL STEPINAC
UN SOSTENITORE DEI «DIRITTI DI DIO» E DELL’UOMO
In questi giorni ricorre l’anniversario della morte dell’eroico Primate di Croazia che fu ucciso dai suoi carcerieri con un veleno che gli veniva somministrato un poco alla volta…
Un Vescovo nella vicenda del suo popolo
La recente beatificazione del card. Alojzije Stepinac, celebrata dal Papa il 3 ottobre 1998 durante la sua seconda visita in Croazia, ha riportato, dopo decenni di silenzio, all’attenzione dei cattolici e non cattolici di tutto a mondo, l’”eroica” e indimenticabile figura dell’arcivescovo di Zagabria (Come fonti abbiamo utilizzato: E. CAVALLI, Il processo dell’Arcivescovo di Zagabria, Roma, La Civiltà Cattolica, 1947; R. PATTEE, The case of cardinal Aloysius Stepinac, Milwaukee, The Bruce Publishing Company, 1953; N. ISTRANIN, Stepinac. Un innocente condannato, Vicenza, LIEF, 1982; H. BARBOUR – J. BATELJA, Luce lungo il sentiero della vita. Una biografia spirituale del Beato Luigi cardinale Stepinac, Zagabria, 1998: molte delle fonti che abbiamo utilizzato sono tratte da questo lavoro edito dalla “Postulazione del Beato Alojzije Stepinac”; J. BOZANIC, Il cardinale Stepinac Beato e martire della Chiesa del silenzio. Lettera pastorale in occasione del centenario della nascita del Servo di Dio, Bologna, EDB, 1998. Tra le fonti documentali ricordiamo: Archivio della Postulazione per la canonizzazione del cardinale Luigi Stepinac, arcivescovo di Zagabria, Zagabria, che noi indicheremo con la sigla AP; Positio (Beatificationis et canonizationis Servi Dei Aloysii Stepinac), e anche la relativa Informatio. Actes et documents du Saint Siège relatifs à la seconde guerre mondiale, Città del Vaticano, Lib. Ed. Vaticana, 1965-80). In verità, sebbene siano passati 38 anni dalla sua morte, la sua opera e il suo messaggio non sono stati mai dimenticati, specialmente da quanti hanno vissuto quegli anni tristi e quelle vicende dolorosissime.
La beatificazione, oltre ad accertare e dichiarare davanti al mondo il grado eroico delle virtù cristiane di questo “servo di Dio”, vuol essere anche un invito rivolto a tutti, in modo particolare agli studiosi, perché, lasciati da parte i pregiudizi ideologici, rivisitino con spirito critico – non per un superficiale intento revisionistico, ma per amore della verità – fatti, testimonianze e documenti (ora per la maggior parte accessibili, ma precedentemente stravolti nel loro significato e persino occultati), in modo da accertare una verità “storica” non ancora esplicitamente detta, quella cioè intorno al “caso Stepinac”. Con tale espressione intendiamo indicare il “tristissimo processo”, come ebbe a dire Pio XII, inscenato contro l’Arcivescovo di Zagabria dai comunisti di Tito una volta arrivati al potere, nel quale egli fu accusato di collaborazionismo con il precedente regime filonazista del croato Ante Pavelic e condannato a 16 anni di reclusione e di lavori forzati con la perdita dei diritti civili. Tale processo come anche la sua sentenza ebbero una grande risonanza sull’opinione pubblica europea alla fine degli anni Quaranta; cioè, proprio negli anni in cui, appena cessato il conflitto mondiale – un immane disastro di Paesi e una vera carneficina di uomini -, i vincitori erano intenti a ridisegnare i confini della vecchia Europa per crearne una nuova, più rispondente ai loro interessi. Ne uscì un’Europa non solo divisa, ma addirittura separata in blocchi rigidamente contrapposti da cortine di ferro che segnarono dolorosamente la successiva storia europea.
La vicenda che ebbe come protagonista il card. Stepinac fu, in quegli anni e anche successivamente, fortemente strumentalizzata dai due blocchi in lotta tra loro: dagli “occidentali” in funzione di propaganda anticomunista, dagli “orientali” come dimostrazione di forza contro presunte pressioni esterne e, allo stesso tempo, allo scopo di reprimere o scoraggiare ogni forma di dissenso interno. Sono passati molti anni ormai da quella vicenda e molte cose nell’Europa sono cambiate, eppure la figura del Cardinale di Zagabria rappresenta ancora per alcuni non un segno di unità, pur nel rispetto delle diversità, ma di contraddizione.
Così l’annuncio della beatificazione del card. Stepinac, insieme a un ampio coro di consensi, ha registrato anche qualche voce di dissenso e di resistenza contro la decisione pontificia. Questa è giunta in seguito a un lungo e accurato processo di beatificazione, iniziato negli anni Ottanta in forma riservata, a causa delle difficoltà poste dal regime comunista iugoslavo, e proseguito secondo l’iter ordinario dal 1991 in poi. Il materiale abbondantissimo raccolto durante questo procedimento può essere utilizzato, al di fuori del processo che lo ha prodotto, anche in sede storica al fine di integrare le nostre conoscenze, in verità molto scarse e non sempre precise, sulla recente storia dei Balcani, e anche per spezzare clichés consolidati e non sempre utili per un’indagine storica obiettiva e critica.
L’annuncio della beatificazione dell’Arcivescovo di Zagabria ha sollevato, come era prevedibile, proteste in alcuni ambienti non cattolici: cioè da parte di alcune personalità (sia civili sia religiose) del trionfo serbo ortodosso, che hanno interpretato tale decisione come una “provocazione” contro di loro, e anche da parte dell’Ufficio europeo del Centro ebraico Simon Wiesenthal, con sede a Parigi, che ha pubblicamente chiesto al Papa di sospendere per il momento l’annunciata beatificazione e di ordinare sul “caso Stepinac” una nuova e più approfondita inchiesta, da condurre anche su archivi non ancora completamente esplorati.
Qual è l’accusa che coloro i quali contestano la beatificazione del card. Stepinac rivolgono contro di lui? Essi sostanzialmente lo accusano di complicità passiva con il “genocidio di centinaia di migliaia di serbi, giudei e zingari” perpetrato dagli ustascia (Movimento armato creato da Ante Pavelic allo scopo di istituire in Croazia un Governo autonomo e indipendente dalla Serbia. Esso ebbe l’appoggio di Mussolini, il quale concesse al Movimento una base in Italia) di Ante Pavelic appena giunti al potere; inoltre lo accusano di non avere “pubblicamente” denunciato questi crimini, e quindi, in ultima istanza, di essere stato un “collaborazionista” e un “connivente” con il Governo nazionalista instaurato dal “duce” croato con la protezione delle armi fasciste e naziste. Questa è poi in sostanza anche l’accusa che i comunisti di Tito mossero contro Stepinac e che stava a fondamento della sentenza di condanna che essi pronunciarono contro di lui nel 1946.
Ora, sia le recenti ricerche storiche sulle complicate vicende balcaniche di quegli anni (particolarmente interessanti quelle condotte dagli storici di lingua inglese), sia anche le preziose testimonianze di alcuni ambasciatori europei allora accreditati presso quegli Stati e, non ultimo, l’abbondantissimo materiale documentario, tutto di prima mano, prodotto e utilizzato nel lungo processo di beatificazione del Cardinale croato, mettono in grado di esprimere un giudizio attendibile e storicamente fondato sull’”affare” Stepinac. La verità dei fatti mostra che l’azione intrapresa dall’Arcivescovo di Zagabria a favore dei perseguitati da parte del nuovo regime nazionalista fu tutt’altro che passiva: egli infatti si oppose energicamente sia con gli scritti sia intervenendo di persona presso lo stesso presidente Pavelic e i suoi ministri, e infine anche attraverso “pubbliche” omelie, contro la legislazione antiserba e antiebraica emanata dai nuovi governanti, spesso per compiacere i loro potenti protettori stranieri. Ma di questo tratteremo in modo più documentato dopo aver dato qualche breve indicazione biografica sul card. Stepinac.
Alojzije Viktor Stepinac nasce l’8 maggio 1898 a Brezaric, nella parrocchia di Krašic presso una famiglia di contadini benestanti. Appena conseguita la maturità classica, si arruola nell’esercito austro-ungarico. Nel 1916 combatte sul fronte italiano dove è fatto prigioniero. Poco tempo dopo il suo ritorno a casa (1919) entra in seminario, e dal suo vescovo è mandato a Roma per gli studi teologici. Qui nel 1930 è ordinato sacerdote. Subito dopo ritorna in patria e diventa collaboratore dell’arcivescovo di Zagabria. Nel 1934 è consacrato suo vescovo coadiutore con diritto di successione. Pochi anni dopo, nel 1937, egli succede a mons. Bauer come arcivescovo metropolita di Zagabria.
Negli anni in cui Stepinac regge l’arcidiocesi di Zagabria, la Croazia faceva parte, insieme alla Serbia, al Montenegro, alla Macedonia e alla Slovenia, di un regno creato quasi artificialmente nel 1919, dopo la dissoluzione dell’Impero austro-ungarico da parte delle potenze europee allora dominanti, e affidato alla casa reale serba dei Karadjordjevic. Il re Alessandro prima e ancor più il suo successore, il principe Paolo, furono in pratica semplici esecutori dell’indirizzo politico loro imposto dalla classe dominante serba e dalla Gerarchia della Chiesa ortodossa. Ciò fece sì che la Corona, strettamente legata agli interessi serbo-ortodossi di cui di fatto era espressione, assumesse un atteggiamento apertamente contrario alla Chiesa cattolica. La situazione politica interna divenne ancora più grave dopo l’assassinio a Marsiglia del re Alessandro I nel 1934. Culmine della tendenza anticattolica fu la questione del Concordato tra il Regno di Iugoslavia (dal 1929) e la Santa Sede. Esso, dopo lunghi anni di trattative, fu firmato dalle due parti nel 1935 e successivamente votato dal Parlamento nazionale nel 1937; non fu però presentato per la ratifica in Senato, dopo che il Sinodo della Chiesa ortodossa aveva persino scomunicato coloro che lo avevano votato in Parlamento. Subito dopo il principe Paolo, per assicurarsi l’appoggio della Gerarchia ortodossa, ritirò il Concordato con la Santa Sede. La mancanza di un Concordato fece dei cattolici iugoslavi cittadini di seconda categoria, anche se la Chiesa cattolica in quegli anni moltiplicò i suoi sforzi in campo sia caritativo sia associativo e culturale. L’Arcivescovo di Zagabria infatti fece di tutto perché le organizzazioni e le opere cattoliche si consolidassero e si diffondessero il più possibile.
Nel 1939 scoppiava la seconda guerra mondiale, e la Iugoslavia prontamente si alleò con le potenze dell’Asse. Nel 1941 i nazisti e i fascisti insieme, in seguito a un fallito colpo di Stato (pare organizzato da servizi segreti stranieri) invasero il Regno di Iugoslavia, smembrandolo in due e dividendosene le zone di influenza: la Serbia rimase zona di influenza nazista e fu governata da un fantoccio di Hitler, il generale N. Nedic, mentre la Croazia fu lasciata a Mussolini (in cambio del suo assenso all’invasione tedesca dell’Europa orientale), il quale concesse al capo degli ustascia Ante Pavelic, allora in esilio in Italia, di istituirvi un Governo indipendente croato, sotto il diretto protettorato dell’Italia e anche dei nazisti. La creazione di uno Stato croato indipendente dava compimento alla secolare aspirazione di quel popolo, per lunghi secoli assoggettato a dominazioni straniere, ad avere un proprio Stato indipendente e sovrano. Così in realtà purtroppo non fu, perché insieme a Pavelic e ai suoi ustascia, arrivarono pure le camicie nere fasciste e i carri armati tedeschi, e tutto questo non faceva certo presagire il meglio. Pavelic intanto, appena nominato duce (Poglavnik) dei croati, cercò in tutti i modi di ottenere il riconoscimento internazionale del nuovo Stato. Innanzitutto egli cercò l’appoggio della Santa Sede, poiché dichiarava di costituire uno Stato cattolico, e chiese esplicitamente che essa inviasse un Nunzio apostolico a Zagabria. La Santa Sede non accondiscese alle compromettenti richieste del dittatore croato. Pio XII accettò di ricevere Pavelic in Vaticano, ma non in visita ufficiale, bensì in udienza privata; allo stesso modo anziché un Nunzio inviò a Zagabria un semplice “visitatore” per sbrigare gli affari ecclesiastici più urgenti.
Stepinac e il regime ustascia
Quale posizione assunse l’arcivescovo di Zagabria nei confronti del nuovo Governo indipendente della Croazia? All’inizio fu favorevole e del resto non poteva essere diversamente, considerando il fatto che Stepinac era un fervente sostenitore della causa autonomista del popolo croato (Stepinac non fu però mai un fanatico nazionalista, anzi egli condannò fortemente questo atteggiamento, ad esempio, in una sua omelia agli universitari di Zagabria il 27 marzo del 1938: “Se pertanto l’amore verso la nazionalità – egli disse – supera il confine del buonsenso, allora non è amore ma passione, non è utile e neppure di lunga durata […]. L’amore per la propria nazione non deve fare l’uomo una bestia feroce, ma nobilitarlo […]” La guardia croata, 29 marzo 1938, 2) e che con frequenza Pavelic pubblicamente dichiarava fedeltr alla Chiesa di Roma. Mons. Stepinac inoltre non era un uomo politico, ma soltanto un pastore zelante e attento al bene del suo popolo; inoltre non poteva neppure conoscere i retroscena di quella vicenda, in particolare gli accordi segreti conclusi tra Mussolini e il nuovo duce croato (Mussolini aveva chiesto, in cambio dell’appoggio italiano al Governo ustascia, la cessione al Regno d’Italia di alcuni territori della Dalmazia). Inoltre quest’ultimo aveva interesse a tenere dalla sua parte l’Arcivescovo in modo da sfruttarne al massimo l’ascendente sul popolo, anche se pare che egli non lo apprezzasse troppo come persona, considerandolo “un dilettante nella politica”. Dopo la proclamazione di indipendenza dello Stato croato (10 aprile 1941), mons. Stepinac scrisse ai suoi sacerdoti: “Poiché conosco gli uomini che oggi hanno in mano i destini del popolo croato, sono profondamente convinto che il nostro lavoro troverà in essi comprensione e sostegno. Credo e confido che la Chiesa potrà annunciare con piena libertà gli immutabili principi dell’eterna giustizia e della verità” (N. ISTRANIN, Stepinac. Un innocente condannato, cit., 169). Ma non era un ingenuo e si rendeva ben conto che la libertà e l’indipendenza appena proclamata erano in verità soltanto apparenti, poiché i veri padroni della Croazia, cioè i nazisti e i fascisti, già spadroneggiavano in tutto il Paese. Uscendo dalla cattedrale e avendo sentito che i giovani esultavano per la proclamata indipendenza dello Stato croato, nonostante ci fossero già in piazza i carri armati tedeschi, disse a mons. Hren: “Proprio questa ragazzaglia conosce cosa sia lo zoccolo prussiano! Chi più desideroso di me che ci sia una Croazia libera? Ma non me la posso aspettare dalla paganeggiante Germania. Non credo che Hitler voglia aiutarci a conquistare l’indipendenza” (Ivi, 170).
Poco tempo dopo la proclamazione di indipendenza, Ante Pavelic iniziò a dare esecuzione al suo famigerato programma di “pulizia etnica” (imitando in questo Hitler) per realizzare il suo antico sogno di uno Stato croato forte e compatto dal punto di vista sia etnico sia religioso. Così squadre di feroci ustascia, sicuri dell’impunità, attaccarono molti villaggi di serbi ortodossi massacrandone gli abitanti. Molti di essi furono deportati oppure tenuti come ostaggi per scoraggiare possibili rappresaglie contro i sostenitori del nuovo regime. Fu inoltre disposta dalle autorità civili, con una circolare del Governo emanata nel novembre 1941, la cosiddetta “conversione forzata” degli ortodossi al cattolicesimo: in questo modo si cercava di preservare l’indipendenza anche religiosa del nuovo Stato (che si voleva interamente cattolico) da possibili influenze serbe. Provvedimenti altrettanto feroci furono immediatamente presi anche contro gli ebrei e gli zingari (aprile 1941): in questo il duce croato eseguì, forse senza eccessiva convinzione, gli ordini che gli venivano dalla Germania.
L’atteggiamento che l’arcivescovo di Zagabria assunse di fronte a questi orrori fu di condanna e di ferma denuncia, come risulta chiaramente dalla documentazione prodotta nel processo di beatificazione, ma in parte già nota anche precedentemente. Da essa risulta che l’Arcivescovo intervenne subito e insistentemente presso il dittatore, inizialmente con appelli e lettere private in favore dei perseguitati, e più tardi con pubbliche denunce. Già nel maggio del 1941, all’indomani del massacro di 260 serbi ortodossi a Glina da parte degli ustascia, inviò una lettera di protesta a Pavelic: “Credo – egli insisteva – che sia mio dovere di vescovo alzare la mia voce e dichiarare che questo non è lecito secondo la morale cattolica, quindi vi prego di prendere le misure più urgenti in tutto il territorio dello Stato croato indipendente, affinché non venga ucciso nemmeno un serbo, salvo sia comprovato il delitto per il quale merita la morte. Altrimenti non possiamo attendere la benedizione del Cielo, senza la quale siamo destinati a soccombere” (Positio, vol. III, 556). Tali denunce dell’Arcivescovo furono tanto frequenti (In una lettera inviata da mons. Stepinac a un destinatario sconosciuto, leggiamo tra l’altro: “Impossibile presentare tutto perché se riassumiamo tutti gli interventi personali presso il Poglavnik, presso i singoli ministri o altri funzionari dello Stato, che abbiamo fatto per le singole persone o per intere comunità, non basterebbe un libro, ma ci vorrebbero parecchi libri. Possiamo tranquillamente dire che non c’era giorno in cui non abbiamo fatto un intervento sia per i serbi, sia per gli ebrei, sia per le persone che ci stanno vicino o del nostro popolo”: Archivio del Pontificio Collegio Croato di San Girolamo a Roma) che Pavelic nel giugno del 1941, irritato per le sue continue pressioni a favore dei perseguitati, nel decreto col quale ordinava ai non croati di lasciare il Paese entro otto giorni pena l’espulsione forzata, concludeva proibendo ogni intervento, “di tutti e di ciascuno”, a favore dei deportati e degli ostaggi politici. Il decreto inoltre concludeva: “Ogni intervento sarà considerato sabotaggio e punito severamente”. Ma mons. Stepinac non si lasciò intimorire da questo provvedimento e continuò a protestare. Poco dopo intervenne presso il dittatore per denunciare l’uccisione (ordinata come rappresaglia) di ostaggi innocenti: “L’Arcivescovo – egli scrisse a Pavelic – è venuto a sapere che questa notte si è deciso di fucilare i serbi che sono in ostaggio, imprigionati a Zagabria […]. Secondo la morale cattolica non è lecito uccidere l’ostaggio per un delitto commesso da altri. Questo sarebbe paganesimo e non potrebbe portare la benedizione di Dio” (Positio, vol. I, 238).
L’Arcivescovo alzò la sua voce anche contro le “conversioni forzate”, imposte dal regime (nel novembre del 1941) attraverso una circolare governativa. La Conferenza dei vescovi croati, proprio in quei giorni riunita a Zagabria (dal 16 al 20 novembre 1941) e di cui mons. Stepinac era il presidente, comunicò immediatamente al Poglavnik, una risoluzione nella quale si criticava fortemente la decisione appena presa dal Governo in materia di “conversioni religiose”. Essa chiedeva che ai serbi “venissero garantiti ed effettivamente concessi tutti i diritti civili e particolarmente la libertà personale, il diritto di proprietà e si pronunciassero condanne soltanto dopo un processo regolare, uguale a quello degli altri cittadini. In primo luogo fosse punita con estremo rigore ogni iniziativa privata intesa a distruggere le loro chiese o cappelle o ad asportarne i loro beni” (AP, vol. LXV, 864). Inoltre, contro le pressioni delle autorità governative sulle popolazioni serbe ortodosse perché si convertissero al cattolicesimo, Stepinac inviò una sorta di istruzione riservata ai suoi sacerdoti, nella quale li invitava ad accogliere nella Chiesa cattolica tutti quelli che ne avessero fatto richiesta, lasciando ad altro tempo il discernimento della serietà della conversione: “Quando vengono da voi – egli scriveva – persone di religione ebraica od ortodossa, che si trovano in pericolo di vita e desiderano convertirsi, accoglieteli per salvare loro la vita. Non esigete da loro una formazione religiosa particolare, in quanto gli ortodossi sono cristiani come noi e la religione ebraica è quella da cui il cattolicesimo trae le origini. Il compito e il ruolo dei cristiani è in verità quello di salvare gli uomini. Quando questi tempi di pazzia e di barbarie saranno passati, rimarranno nella nostra Chiesa coloro che si saranno convertiti per convinzione, mentre gli altri, passato il pericolo, torneranno alla propria religione” (Positio, vol. I, 239). Questa decisione del vescovo di Zagabria, nel suo tenore sorprendentemente attuale e profetico, era animata da profonda e vera carità cristiana. Essa ci sembra la risposta più esauriente alle accuse di “collaborazionismo” con un regime che Stepinac considerava “barbaro” e “pazzo”.
Quanto abbiamo detto risulta confermato anche da altre fonti, come per esempio da una “informazione”, contemporanea ai fatti che ci interessano, di agenti segreti inglesi, presenti allora in Croazia, del dipartimento informativo della Marina Militare Britannica, nella quale leggiamo: “In Croazia il regime di Pavelic cercava in ogni modo di ottenere l’appoggio della Chiesa cattolica, ma il clero romano cattolico, seguendo le direttive dell’arcivescovo di Zagabria, protestava fortemente per le persecuzioni contro gli ebrei e i serbi, come anche per il tentativo del Governo di costringere tali popoli ad abbracciare la fede cattolica” (R. PATTEE, The case of cardinal Aloysius Stepinac, cit., 43).
Allo stesso modo (e sono moltissime le testimonianze in tal senso) furono frequenti gli interventi dell’arcivescovo di Zagabria in difesa e in aiuto degli ebrei ormai perseguitati in mezza Europa, e ciò anche prima che Pavelic giungesse al potere. Infatti ancor prima della guerra molti profughi ebrei, per sfuggire alle deportazioni ordinate da Hitler, fuggendo dalla Germania si rifugiarono a Zagabria. La maggior parte di loro furono aiutati dalle opere assistenziali della diocesi; a questo scopo infatti l’Arcivescovo aveva creato un apposito “Comitato per i profughi”, di cui si occupò personalmente. Quando poi arrivarono i tedeschi in Croazia, mons. Stepinac prese sotto la sua personale protezione, mettendo a rischio la propria vita, gli ebrei perseguitati, nascondendo i vecchi e gli ammalati nella tenuta arcivescovile di Brezovica e organizzando il trasporto in treno di decine di bambini in Israele attraverso la Turchia. Ad altri invece procurò cibo, vestiario e passaporti per emigrare in luoghi sicuri (La comunità ebraica croata a proposito della beatificazione del card. Stepinac così si è espressa: “Siamo grati al cardinale Stepinac per aver contribuito durante lo Stato indipendente ustascia a salvare molti ebrei. Non abbiamo niente da obiettare alla sua beatificazione”). Quando poi fu demolita la sinagoga di Zagabria, egli protestò pubblicamente in cattedrale contro tale fatto e si adoperò in tutti i modi per salvare la vita del rabbino capo di quella comunità. Questa sua attività in favore degli ebrei era nota agli agenti della Gestapo di stanza a Zagabria, i quali pare fossero pronti a uccidere l’Arcivescovo, cosa che poi, per “ordini provenienti dall’alto”, dovettero differire; i capi infatti sapevano che era molto amato dal popolo e che il suo assassinio sarebbe stato controproducente. In un “dispaccio” del Ministero degli Interni al capo della polizia tedesca in Zagabria si legge: “L’arcivescovo Stepinac è conosciuto come un grande amico degli ebrei e proteggerà gli ebrei con tutto il suo potere” (Informatio, vol. I, 236).
Egli inoltre protestò energicamente contro le leggi razziali promulgate dal regime ustascia contro gli ebrei, le quali in realtà ricalcavano quelle emanate in Germania e in Italia. L’Arcivescovo fece sentire la sua voce soprattutto contro l’obbligo imposto agli ebrei, anche cattolici, di portare una fascia gialla al braccio, come segno di riconoscimento e di appartenenza razziale. Egli protestò, perché sapeva che molti ebrei negli anni passati si erano convertiti al cattolicesimo anche a costo di duri sacrifici, e questo fatto li avrebbe duramente discriminati all’interno della comunità cattolica. A questo riguardo egli il 22 maggio 1941 scrisse al ministro Artukovic (AP, XCIII, 4639): “Come faranno essi adesso a adempiere ai loro doveri religiosi? Andranno forse a messa con la fascia gialla e con essa si accosteranno ai sacramenti? In questo caso sarò costretto a dire agli ebrei di fede cattolica di non portare tali segni perché non sia causa di disturbo e agitazione in chiesa” (Ivi). L’Arcivescovo ripeté questa stessa protesta personalmente anche davanti al Poglavnik, minacciandolo di denunciare pubblicamente “dal pulpito” queste norme, perché, come egli scrisse, “sono antiumane”. Alla fine Pavelic cedette e abrogn la disposizione.
La sua protesta contro le leggi razziali antiebraiche aveva inoltre anche un’altra finalità: quella cioè di incitare il Governo ustascia e il suo duce a opporsi alle continue e indebite ingerenze straniere e a portare avanti un indirizzo politico più autonomo e indipendente, e soprattutto più rispettoso della dignità umana. A questo riguardo egli scrisse a Pavelic: “Se c’è di mezzo l’ingerenza di qualche potenza straniera nella nostra vita nazionale e politica, allora non temo che questa mia voce e protesta [a difesa delle unioni matrimoniali interrazziali] venga a conoscenza degli organi della potenza in questione. La Chiesa cattolica non teme nessuna potenza terrena, quando si tratta della difesa dei più fondamentali diritti dell’uomo” (Positio, Vol. III, 616); e in un’altra occasione egli, incitando il duce croato ad essere più determinato e coraggioso nei confronti degli stranieri, scrisse: “Poglavnik! Battete il pugno sul tavolo e dite apertamente a tedeschi e italiani che così non si può andare avanti” (Informatio, vol. III, 552). Da queste parole sembra di capire che l’Arcivescovo sottovalutasse il fatto che il nuovo regime ustascia doveva la sua esistenza unicamente alla protezione della Germania e dell’Italia.
Stepinac: un difensore dei diritti dell’uomo
Il suo servizio a difesa dell’uomo continuò ininterrottamente dall’inizio del suo ministero episcopale fino alla sua morte (In una lettera a Pavelic del 24 febbraio 1942, egli protestn energicamente contro i misfatti del Lager di Jasenovac: AP, vol. CIX, 3494). Stepinac in quegli anni difficili e a rischio della propria vita alzò la sua voce, insieme ad altri pochi spiriti coraggiosi, per chiedere ai potenti “l’assoluto rispetto della persona umana senza distinzione di età, sesso, religione, nazionalità o razza” (Ivi, 4393), quando invece molti altri – soprattutto tra gli intellettuali – tacquero davanti agli orrori che si stavano consumando sotto i loro occhi. Egli, da vero pastore, protestò coraggiosamente contro i soprusi e le violenze che si stavano compiendo nei confronti di uomini inermi, e lo fece con i pochi strumenti consentiti: prima attraverso lettere inviate sia al Poglavnik sia ai suoi ministri, poi attraverso pubbliche catechesi e omelie, come per esempio quelle due celebri pronunciate nella ricorrenza della festa di Cristo Re nel 1942 e nel 1943 nella cattedrale di Zagabria, davanti a una grande folla di fedeli, negli anni più duri della repressione del regime ustascia.
Esse rappresentano veri e propri “proclami”, quasi “carte costituzionali” (scritte prima ancora che queste venissero riformulate in tutta Europa) sui diritti inviolabili dell’uomo e sulla dignità della persona umana, e conservano ancora intatta tutta la loro forza ideale e la loro attualità. Prima di ogni altra cosa in queste omelie è condannato il razzismo, perché contraddice – scrisse Stepinac – il piano di Dio, che ha voluto che tutti gli uomini fossero uguali: “E che cosa sono davanti a Dio le razze e i popoli della terra? È opportuno chiedercelo e ragionarci sopra, in questo tempo in cui le teorie di classe, di razza e di nazionalità sono divenute l’argomento principale delle discussioni tra gli uomini […]. Ogni popolo e ogni razza provengono da Dio. Realmente esiste una sola razza, e cioè la razza divina […]. Gli appartenenti a questa razza possono essere più o meno progrediti, possono essere di colore bianco o nero […], ma essenzialmente restano la razza che proviene da Dio […]. La terza cosa che affermiamo è che ogni popolo e ogni razza quale oggi esiste sulla terra, ha diritto a una vita degna dell’uomo e ad un trattamento pure degno dell’uomo. Tutti, siano zingari o di altra razza, siano negri d’Africa o progrediti europei, siano odiati ebrei o superbi ariani” (Positio, Vol. III. 1, 608).
Alcuni brani delle omelie dell’Arcivescovo, che si facevano ormai sempre più frequenti, contro il razzismo e a difesa della dignità dell’uomo, venivano trasmesse anche da Radio Londra e fatte circolare stampate tra i partigiani che si nascondevano nei boschi. I tedeschi e gli ustascia iniziarono una campagna diffamatoria contro Stepinac, accusandolo di “collaborazionismo” con il nemico comunista. L’Arcivescovo rispose a queste insinuazioni nell’omelia della festa di Cristo Re del 1943, nella quale, riaffermando con forza i principi precedentemente espressi, aggiungeva: “Risponderemo oggi anche a quelli che ci accusano di filocomunismo e del cosiddetto disimpegno […]. E forse coloro che ci rimproverano questo farebbero meglio a bussare alle porte della loro coscienza e chiedere: non sono forse molti coloro che si nascondono nei boschi, non perché abbiano una qualche convinzione sulla verità del comunismo, ma spesso per disperazione contro metodi inumani di individui incoscienti, che hanno pensato di poter fare quello che volevano e che per loro non esiste legge né umana né divina?” (Positio, Vol. III, 1, 632).
Stepinac e Tito
Sorprendentemente però, una volta finita la guerra e arrivati al potere i comunisti di Tito (8 maggio 1945), iniziò contro l’arcivescovo di Zagabria e contro i cattolici una persecuzione ancora più feroce di quella precedente, come del resto stava avvenendo in tutti i Paesi comunisti. Egli fu accusato di collaborazionismo con il precedente regime ustascia (addirittura la radio comunista di Belgrado dichiarò l’Arcivescovo “criminale di guerra”), e insieme a lui anche la Chiesa cattolica in Croazia fu accusata della stessa colpa. Iniziò in tutto il Paese, ormai unificato sotto il giogo comunista, una dura repressione contro i cattolici, e centinaia di sacerdoti furono massacrati. Ironia della storia: Stepinac fu accusato dello stesso “crimine” (quello cioè di essere “collaborazionista” con il nemico) sia dai pretesi “amici” ustascia, sia dai nemici comunisti. In verità egli da pastore zelante della “causa di Dio” si prodigò sempre, prima e dopo, per la difesa e la tutela dei diritti naturali dell’uomo, perché questi secondo l’Arcivescovo sono “divini”.
Stepinac è arrestato dai comunisti la prima volta il 17 maggio 1945, ma subito dopo viene rilasciato (3 giugno) anche in seguito alla pressione dell’opinione pubblica internazionale. Durante l’arresto dell’Arcivescovo, il maresciallo Tito, ormai padrone assoluto dello Stato, ebbe un incontro con alcuni esponenti del clero di Zagabria allo scopo di farli collaborare con il nuovo regime e suggerì loro la fondazione di una libera Chiesa cattolica croata indipendente da Roma. I rappresentanti del clero e i due vescovi ausiliari di Zagabria dichiararono apertamente di non essere autorizzati a trattare questioni di questo tipo senza l’autorizzazione dell’Arcivescovo; e ne chiesero l’immediata liberazione. Il giorno successivo egli fu rilasciato e il maresciallo Tito ebbe un incontro con lui. Il dittatore promise all’Arcivescovo di rispettare i diritti della Chiesa cattolica, ma soltanto a patto che essa si staccasse da Roma. Stepinac su questo tema fu irremovibile, egli disse al dittatore: “Nessun cattolico, anche a costo della vita, può eludere il suo foro supremo, la Santa Sede, altrimenti cessa di essere cattolico” (Positio, vol. I, 286); egli propose invece di stipulare accordi con la Santa Sede.
Dopo questi fatti la persecuzione contro il clero cattolico fu ancora più feroce: senza alcun processo furono uccisi due vescovi e diverse centinaia di sacerdoti, religiosi e religiose. I vescovi, riuniti a Zagabria dal 17 al 22 settembre 1945, in una lettera pastorale collettiva denunciarono i crimini commessi contro la Chiesa cattolica e chiesero al Governo il rispetto delle libertà della Chiesa. Quando alla fine il nuovo regime capì che in nessun modo avrebbe piegato la volontà dell’Arcivescovo, e che mai egli avrebbe collaborato alla creazione di una Chiesa cattolica croata indipendente dal Papa, fu nuovamente arrestato il 18 settembre 1946. Fu inscenato un processo nel quale furono portate testimonianze false e parziali contro l’Arcivescovo; in base ad esse egli fu condannato, come persecutore dei serbi e collaborazionista del regime ustascia, a 16 anni di carcere e di lavori forzati (11 ottobre 1946). In sua difesa pronunciò queste poche parole profetiche, che oggi possiamo intendere pienamente: “Io dico questo: quando la situazione si normalizzerà e quando potranno essere pubblicati tutti i documenti, quando gli stessi potranno essere studiati in pace, quando tutti potranno esprimere liberamente la loro parola, senza paura, pienamente liberi, alla luce della pura verità, dal punto di vista sia politico sia morale, allora non si troverà nessuno che punterà il dito contro l’arcivescovo di Zagabria” (AP, vol. LXX, 2153; Informatio, vol. I, 345 ).
La verità di queste parole si è andata affermando decisamente e risolutamente soprattutto in questi ultimi decenni (nonostante qualche recente voce dissonante e non sempre disinteressata), anche se già subito dopo la condanna di Stepinac furono molte le voci che si levarono in sua difesa in ogni parte del mondo. Queste proteste provenivano da parte sia di ebrei che ebbero salva la vita in seguito al suo aiuto, sia di vescovi ortodossi che ne riconobbero apertamente l’innocenza. Uno di essi all’indomani della sentenza affermò: “Il processo fu preparato nei circoli politici; il suo scopo era di separare la Chiesa cattolica in Croazia dal Vaticano […]. Il processo non era basato sulla giustizia. Io prevedo il martirio dell’arcivescovo Stepinac” (Le parole sono del responsabile della Chiesa serbo-ortodossa degli Stati Uniti e del Canada, Milovojevic. Positio, vol. I, 1, 1.509).
Le vicende successive della vita dell’Arcivescovo sono note; basta perciò richiamarle sommariamente. Il 5 dicembre del 1951 Stepinac fu trasferito dalle carceri di Lepoglava al domicilio coatto presso la parrocchia di origine a Krašic; anche qui egli continun a fare ciò che aveva fatto fino allora, cioè, come egli stesso ebbe a dire, “soffrire e lavorare per la Chiesa”. Era ancora agli arresti domiciliari quando il 12 gennaio 1953 Pio XII lo nominava cardinale. Fu una porpora ben meritata, universalmente approvata, fuorché da quelli che lo avevano condannato. Infatti egli realmente diede la propria vita (Sembra ormai accertato che il Cardinale fu ucciso dai suoi carcerieri con un veleno che gli veniva somministrato un poco alla volta. Questo risulta anche dalla testimonianza di uno dei suoi carcerieri: “Io ho ricevuto il compito di avvelenare il criminale di guerra Stepinac. Dai nostri medici specialisti […] ricevetti un veleno speciale che mettevo nei cibi; questo veleno lento negli effetti, non li produsse mentre Stepinac dimorava tra noi. Gli effetti letali cominciarono a mostrarsi quando egli fu a Krašic. Nessun medico al mondo poteva constatare che il criminale Stepinac era stato avvelenato”. Positio, vol. III, 1550) per difendere la causa del Vangelo e la libertà della Chiesa, e per affermare i diritti imprescrittibili e assoluti dell’uomo contro ogni forma di regime totalitario e tirannico, di qualunque colore esso sia.
Morì il 10 febbraio 1960, pronunciando le parole che aveva sempre ripetuto: “Fiat voluntas tua”.
di Giovanni Sale S.I.
La Civiltà Cattolica 3563, 5 dicembre 1998
Vedi anche:
Card. Stepinac: un eroe sconosciuto