A due mesi dalla sua entrata in vigore, la legge sulla procreazione medicalmente assistita non cessa di suscitare polemiche, soprattutto dopo la sentenza del tribunale di Catania lo scorso 3 di maggio, quando il giudice Felice Lima ha decretato l’illegittimità della selezione embrionale pre-impianto per una coppia pugliese che aveva fatto ricorso alla fecondazione artificiale prima dell’emanazione della legge. Tutti i quotidiani nazionali hanno dato ampia risonanza al fatto, anche in vista del referendum di ottobre con il quale gli oppositori della normativa tenteranno di abrogarla o di modificarla. La vicenda è oramai nota: due coniugi portatori sani di betatalassemia stavano da tempo tentando di avere figli attraverso la fecondazione in vitro, riservandosi di “scegliere” fra gli embrioni “prodotti” quelli esenti dalla malattia per procedere all’impianto in utero. Poiché il medico curante aveva negato la sua collaborazione alla selezione a causa della vigente legge 40, la coppia aveva presentato un ricorso urgente al Tribunale di Catania, dove si trova il Centro di Unità di Medicina della Riproduzione da cui era seguita.
La richiesta era quella di poter esercitare il “diritto” all’impianto di embrioni sani, evitando così di mettere al mondo figli la cui malattia avrebbe potuto segnare irrimediabilmente la loro esistenza e avrebbe generato infiniti sensi di colpa nei genitori.
Nella sentenza, il giudice applica semplicemente la legge, e ne illustra con chiarezza il senso nel caso specifico: nella richiesta dei coniugi, scrive, “si confondono gli interessi del figlio ‘desiderato’ con quelli del figlio che concretamente verrà in essere, in ipotesi malato, e, per giustificare la concreta lesione degli interessi del figlio – reale – che concretamente verrà in essere, si invoca l’esigenza di tutelare la salute del figlio ‘desiderato’ che, diversamente da quello che realmente si sacrificherà, è entità virtuale, del tutto astratta, esistente solo nella rappresentazione mentale dei suoi aspiranti genitori”.
“Sicché, si dà l’impressione suggestiva di voler tutelare la salute del figlio, ma siccome il figlio tutelato non è quello reale, ma quello virtuale, non si difende in realtà alcun figlio, ma la propria volontà di averne uno conforme ai propri desideri, sacrificando a questo obiettivo, per tentativi successivi, tutti i figli reali difformi che venissero nel frattempo” (http://superabile.inail.it/Superabile/HomePage/PrimoPiano/fecondazione_testosentenza.htm).
Il punto è decisivo: lo snaturamento della procreazione causato dalla fecondazione in vitro si traduce quasi inesorabilmente nella “pretesa” del figlio, che da dono da accogliere diventa prodotto da costruire. E come ogni prodotto deve soddisfare la clientela, corrispondere il più possibile ai suoi desideri. In un mondo in cui tutto è teso ad accontentare la più piccola voluttà, in cui l’adesione al reale è rimpiazzata dalla tendenza insaziabile ad ottenere e possedere virtualmente ogni cosa, anche la maternità e la paternità sono percepiti da alcuni come un “diritto”, specularmente a quanto accade per il “diritto alla morte”. Anche qui, infatti, il desiderio di dominio assoluto si scontra con la realtà ineludibile della morte umana, e allora, illusoriamente, si pensa di averne la meglio decidendone autonomamente i tempi e i modi.
In effetti, fra il figlio accolto e il figlio preteso passa tutta la differenza che corre tra speranza e desiderio. È naturale che due genitori portatori di malattia genetica sperino, qualora concepiscano un figlio, che egli non erediti il gene patogeno, ma non è in loro potere modificare questo evento. Possono semmai adoperarsi affinché il bambino venga curato al meglio prima e dopo la nascita, chiedere aiuto perché possano portare più serenamente l’oggettivo peso di un malato o di un disabile in famiglia. E tuttavia non avranno ragione di sentire come una colpa la malattia del figlio, laddove per un figlio “costruito” in laboratorio si potranno invece imputare ad umani errori di procedura gli eventuali difetti.
Se il figlio non è accolto come un dono, se è una pretesa, un “diritto”, un desiderio da realizzare ad ogni costo, se è il risultato di una tecnica, allora ai “difetti di fabbrica” si potrà ovviare in un unico modo: con la selezione. Gli embrioni in vitro si prestano magnificamente a questa ulteriore manipolazione, che prevede l’esame del DNA e successivamente la “scelta” dei migliori per l’impianto. Dei restanti si possono fare due cose: congelarli in attesa di destinazione, oppure eliminarli subito, traendone materiale da utilizzare per la ricerca o per l’industria della cosmesi.
La legge 40 ha avuto il merito di impedire questa nuova violenza, stabilendo all’art. 14, c. 2 l’obbligatorietà dell’impianto di tutti gli embrioni prodotti (tre al massimo) indipendentemente dal loro stato di salute (cfr. C. Navarini, A chi piace la nuova legge sulla fecondazione assistita? ). In questo modo si è cercato di rendere “un po’ più simile” al concepimento naturale la fecondazione artificiale, strappandola alla volontà di controllo totale sulla vita.
Da più parti si è fatto notare che, tuttavia, la legge 194 consentirebbe l’aborto volontario di quegli embrioni coattivamente impiantati, e infatti proprio alla possibilità di abortire la donna pugliese si appellava nel caso non avesse ricevuto “giustizia”. Non sarebbe meglio allora non impiantarli affatto? Anche su questo il giudice Lima si è espresso con esemplare chiarezza: “è certo che la legge 194/1978 non autorizza un uso dell’aborto come strumento selettivo dei feti con riferimento alla loro salute. È questo un uso eugenetico dell’aborto certamente vietato dalla legge. […] La legge non consente alla donna di praticare l’aborto perché non “vuole” la nascita di un bambino malato o perché – come accade per gli odierni ricorrenti – vuole a tutti i costi la nascita di un bambino sano. […] Quindi, deve ritenersi giuridicamente infondata l’affermazione dell’esistenza di un ‘diritto’ della donna di abortire i figli malati in quanto tali, e ancor più l’affermazione di un tale diritto come preesistente alla gravidanza”.
È tuttavia doveroso ammettere che la liceità dell’aborto volontario (legge 194) e il dovere di garantire gli interessi del concepito (art. 1 della legge 40) sono effettivamente in collisione. Si tratta di capire quale delle due prospettive sia più in grado di tutelare il bene comune, se la rivendicazione del potere “di vita o di morte” della donna sui propri figli in crescita nel grembo, oppure la difesa del più debole, quale è certamente il bambino non nato.
Quando la manipolazione del linguaggio lascia il posto all’onesta spiegazione di quanto avviene nel momento del concepimento, nelle prime fasi della gravidanza, nello sviluppo fetale, e per contro nell’esecuzione dell’aborto procurato o nella selezione degli embrioni, lo stesso buon senso induce all’indignazione e alla condanna per i vergognosi delitti che, tragicamente, vengono oggi proclamati “diritti” (cfr. Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Evangelium Vitae, 1995).
Tali fraintendimenti vengono denunciati dal giudice Lima quando afferma che “su questa confusione di concetti e sui paralogismi che la nascondono si fondano le dottrine eugenetiche certamente ripudiate dal nostro attuale ordinamento giuridico”. Lo spettro dell’eugenetica che si cela dietro il ricorso del caso giudiziario di Catania, infatti, rievoca sinistri ricordi del tutto contrari allo spirito di una società che vuole dirsi civile.
Agenzia di stampa zenit.org – 6 giugno 2004