Il gran narratore del mistero della vita
È morto a 82 anni Mario Rigoni Stern, che visse in prima persona la tragedia degli Alpini durante la Campagna di Russia e la fece conoscere al mondo…
di Roberto Beretta
Il \’sergent magiù\’ sarà arrivato, finalmente, \’a baita\’? Mario Rigoni Stern ha chiuso gli occhi sulle brume ovattate del suo Altopiano, in un’estate che tarda a scrollarsi di dosso la pioggia: ma poco sarà importato a lui, che – come il Giacomo di un suo libro noto – aveva imparato ad apprezzare tutte le stagioni.
Dell’anno e della vita. Perché il sergente maggiore matricola 15454, battaglione Vestone, divisione Tridentina, era uscito davvero dal famoso sottopassaggio della ferrovia di Nikolajewka, dove il 26 gennaio 1943 il comandante l’aveva spedito con la mitragliatrice \’pesante\’ a scavare un varco per i compagni sfiniti. Lui era sortito sul serio da quella sacca di ghiaccio in cui aveva lasciato i suoi più cari amici e dalla quale non riuscirono più a liberarsi, a distanza di anni, neppure molti dei superstiti, schiacciati dal peso di una sopravvivenza non meritata. Lui no, il sergente non era rimasto a vita \’nella neve\’, neppure come scrittore – sebbene la storia sembra gli abbia riservato il destino di identificarlo per sempre con l’opera sua maggiore. La sua missione, una volta narrata la fine crudele di tanti compagni, era stata quella di ricominciare a raccontare la vita che a troppi era stata bruciata invano. Rigoni ce l’aveva fatta, a prezzo di una rinuncia alla facile ma ripetitiva gloria degli autori che riescono al primo colpo (Il sergente nella neve, il suo esordio, è del 1953) nonché all’usura di confrontarsi ogni volta con l’inarrivabile se stesso del passato. Lui – ormai divenuto quieto impiegato del catasto – è riuscito faticosamente a \’sganciarsi\’, come gli avevano insegnato nelle tattiche di guerra della scuola alpina, dapprima riprendendo le storie dei \’recuperanti\’ (che poi fornirà in sceneggiatura a Ermanno Olmi, con il compositore Bepi De Marzi componente della trinità asiaghese di poeti-contadini in cui Rigoni indubbiamente rappresentava \’il padre\’), quindi pescando nelle narrazioni della Grande Guerra, soprattutto però leggendo tra le inesauribili note a margine del libro della natura. Non era tipo da \’fughe\’ snobistiche nel verde, Rigoni Stern: della montagna sapeva fin da bambino tutte le durezze e la miseria. E certo amava troppo i boschi per desiderare che servissero soltanto a seppellire le sue disillusioni di uomo fatto, magari con gli urogalli a cantarci sopra un raro richiamo. Il \’sergent magiù\’ non avrebbe mai dimenticato: né quelli della ritirata di Russia, né quelli del lager – e nemmeno i molti altri le cui storie di guerra aveva più volte ascoltato, raccolto, narrato. Anzi, ci avrebbe studiato sopra con puntiglio alpino, cercando di venire a capo – documenti storici alla mano – dell’impossibile \’perché\’ di uomini che si uccidono l’un l’altro, di uomini che ne mandano altri a morire. Per giungere però infine a spiegare il mistero con le parole più semplici, quelle di sempre, prese a prestito per l’occasione da un vecchio pastore: «La guerra è una brutta bestia, che gira il mondo e ogni tanto si ferma qua e là». Ovvero, la sapienza di chi cerca miglior saggezza non nelle elucubrazioni degli intellettuali, ma nella concretezza di ciò che – da quando il mondo è tale – non ha mai tradito le attese: le venature sempre uguali e sempre diverse di una foglia, gli affetti veri e i ricordi del passato, le grandezze e persino gli eroismi dei piccoli \’nessuno\’ della storia. E intanto le stagioni riprendono a girare la ruota, verrà l’estate che non vuole ancora venire e poi la neve a coprire l’Altopiano; e anche l’anno prossimo i caprioli scenderanno a brucare nella radura vicino al paese, dove ogni primavera un uomo anziano con la barba stava a spiare le tracce che – nonostante tutto – il mondo aveva ancora voglia di ricominciare a vivere.
Avvenire del 18 giugno 2008