QUEL KAMIKAZE DELLA PORTA ACCANTO
di MAGDI ALLAM
Per fortuna non c’è stata la strage. A causa del dilettantismo dell’aspirante kamikaze e grazie al tempestivo intervento dei vigili del fuoco. Ma ora è chiaro che l’intenzione del marocchino Mostafà Chaouki era di mietere il maggior numero di vittime tra gli avventori del McDrive alle porte di Brescia domenica scorsa.
La lettera inviata alla Questura di Brescia con cui legittima l’estremo sacrificio come una protesta contro la presenza militare italiana in Iraq conferma ciò che lasciavano supporre un insieme di indizi sulla modalità dell’attentato e la tipologia del bersaglio. Sin dalle prime ore è emerso il comprensibile orientamento delle autorità di pubblica sicurezza a tenere basso il profilo dell’evento. Perché è prioritario salvaguardare la tranquillità e la stabilità del fronte interno. Così come da parte dei magistrati inquirenti si tende a porre in evidenza il quadro psichico dell’attentatore. Arrivando a sostenere che l’allarmismo sarebbe ingiustificato perché ci troviamo di fronte a una «situazione psicologica anomala», che ha prodotto una «azione isolatissima e non facilmente ripetibile».
Ovviamente questo è l’auspicio di tutti. Tuttavia dal momento che stiamo parlando di un terrorismo suicida che massacra indiscriminatamente gli «infedeli» e gli «apostati», è fondamentale calarci nella mente e nell’animo dei suoi autori. Per capirne la realtà così come loro la percepiscono, non come ce la immaginiamo noi con i nostri parametri logici.
Ebbene dall’identikit tracciato dagli inquirenti e dai familiari, che fa emergere la realtà di un attentatore sostanzialmente laico, si conferma come il «martirio» non sia affatto una prerogativa dei gruppi terroristici islamici, ma sia stato elevato a un valore trasversale che raccoglie proseliti anche in ambienti non tradizionalmente religiosi. È una realtà affermatasi in Palestina sin dall’inizio del 2001 e che ha avuto il suo momento culminante con le stragi dell’11 settembre in America. Il capo del commando di 19 dirottatori kamikaze, Mohammad Atta, è l’emblema del laico che sposa l’integralismo islamico attraverso la fede nel «martirio».
Alla base di questa conversione c’è la crisi di identità degli immigrati che si sentono esclusi o rifiutano il sistema di valori dell’Occidente. Anche la situazione di Chaouki presenta un cocktail di emarginazione sociale, precarietà affettiva e crisi di identità. Non è un caso che i burattinai del terrore vengano ad arruolare gli aspiranti combattenti e i kamikaze islamici in Europa. Il nostro continente si sta rivelando un florido terreno di coltura dell’estremismo sia religioso sia laico, dando vita a una ideologia trasversale i cui capisaldi sono l’antiamericanismo e l’antiebraismo. Ciò che importante comprendere che Chaouki e Atta non sono dei casi singoli. Bensì il sintomo di una realtà più diffusa.
Ugualmente l’azione individuale non significa affatto che è «anomala». Casomai l’anomalia risiede nella nostra concezione tradizionale del «gruppo terroristico». Al riguardo la normativa giuridica italiana è in sintonia con la «Posizione comune» adottata dal Consiglio Europeo il 27 dicembre 2001. Dove per «gruppo terroristico» s’intende «l’associazione strutturata, e cioè non costituita fortuitamente per la commissione estemporanea di un reato, di più di due persone che agisce in modo concertato allo scopo di commettere atti terroristici». Ebbene questa nozione lascia aperti dei varchi per l’attività di singoli elementi fanatici con vocazione suicida che potrebbero anche non avere rapporti formali e organici con una organizzazione terroristica comunemente intesa. E che comunque agiscono in solitudine nella fase esecutiva e terminale dell’attentato. Ciò è quanto è probabilmente accaduto nel caso di Chaouki. E che impone a tutti la comprensione della specificità di questo terrorismo globalizzato che è al contempo religioso e laico, di gruppo o singolo. Ma che soprattutto è un terrorismo che ha messo radici a casa nostra.
© Corriere della Sera, 31 marzo 2004