“Bologna, non faccio scelte di campo:
la Madonna di San Luca unisce tutti”
L’arcivescovo Caffarra: in questa città unica punto sull’uomo. Nel confronto con l’Islam l’Europa rischia di perdere l’identità.
BOLOGNA – Oggi è il giorno del sessantaseiesimo compleanno di monsignor Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna, successore di Lercaro e di Biffi. Vicino al Papa – ha collaborato alla stesura della Veritatis Splendor – e a Comunione e Liberazione (“ma non ho mai fatto parte di alcun movimento”), per trent’anni docente di teologia, poi vescovo di Ferrara, la sua definizione di Eco e Vattimo come “cattivi maestri” ha animato un dibattito tra filosofia e politica. “Però non intendevo fare polemiche personali”. Neppure con Cacciari, che l’ha accusato di non aver letto i libri di cui ha parlato. “Certo che li ho letti. Compresi i romanzi di Eco. Con attenzione”. In clergyman, seduto tra il ritratto di Celestino V e del cardinal Lambertini, che mantenne la cattedra di san Petronio per 14 anni dopo essere divenuto Papa con il nome di Benedetto XIV, l’arcivescovo dice cose anche dure ma sempre sorridendo. È molto cortese. Di tanto in tanto sfiora il braccio dell’interlocutore per marcare i passi del discorso.
Monsignor Caffarra, la sua critica al “nichilismo gaio e tragico” è stata a sua volta criticata. Che cosa intende con questa espressione?
“Esprimere la preoccupazione sulle condizioni in cui versano molti giovani. E porre la questione di come rigenerare la loro soggettività umana e cristiana, attraverso l’uso corretto della ragione, il gusto forte della libertà, la capacità di istituire veri rapporti con altre persone. Purtroppo mi pare di individuare un segmento della modernità segnato da una visione del mondo non realistica”.
Nel senso che non sostiene l’esistenza di una realtà, ma solo di un’interpretazione della realtà?
“Un segmento secondo il quale l’intelligenza umana non è in grado di raggiungere la verità ultima sull’uomo e sul mondo: di passare dal fenomeno al Fondamento. Una sorta di esaltazione del dubbio. Anche Tommaso si pose il problema di come l’uomo nasca alla vita dello spirito, quale sia il suo atto di nascita. E’ “cio che è” accende e mette in moto, lo spirito. E’ l’apprensione dell’ente. Ma questo oggi è ampiamente dimenticato o negato. Per questo sono preoccupato, ma non disperato, perché nessuno può cambiare il cuore dell’uomo; e nel cuore dell’uomo è indelebilmente scritto il desiderio di verità”.
Il deficit di fede e di “pensiero forte” rischia di indebolire l’Occidente in questa fase di confronto con l’Islam?
“Esistono fattori di identità dell’Europa. Se questi fattori si sradicano sempre più dalla coscienza morale delle persone, l’Europa a mio giudizio rischia seriamente di perdere se stessa. E sarebbe una perdita grave per tutta l’umanità. Solo l’unità nella diversità è adeguata a quel che l’uomo veramente desidera; non l’unità fatta tagliando la testa alle diversità, o pensata come coesistenza di estranei. L’Europa rappresenta una di queste diversità. Se nel confronto la sua identità culturale andasse perduta, sarebbe un impoverimento anche per gli altri”.
Lei è un fautore del metodo del dialogo. Il principio vale anche con il mondo islamico?
“L’Europa deve prendere coscienza della sua diversità non come fattore di contrapposizione, ma di unità. Questo non è un discorso ideale; è un discorso realista, nel senso che afferma una vera esigenza dell’uomo. Il modello della tolleranza non mi pare adeguato, perché concepisce il diverso come un male da tollerare, anziché un bene da riconoscere, e l’unità come coesistenza di estranei”.
Esiste una mitologia della tolleranza?
“La tolleranza è un modello insufficiente da due punti di vista, come ho detto. Nessuna persona deve essere tollerata, perché di fronte a nessuna persona ho il diritto di dire: è un male che tu esista”.
Ma l’Islam è interessato al dialogo? E con quale approdo?
“Oggi la liturgia ricorda la figura di san Giustino, uno dei martiri di cui possediamo gli atti autentici del martirio. Giustino esprime le ragioni della sua convinzione; e quando Rustico, prefetto di Roma, gli chiede un atto pubblico che la contraddice, Giustino rifiuta e va incontro al martirio. Il sacrificio della vita è una prospettiva che non ci deve spaventare. Né posso dimenticare che anche nei confronti dell’Islam vale l’incondizionato imperativo dell’annuncio evangelico. Quanto al dialogo: è dato a ogni uomo conoscere le verità fondamentali su se stesso, la controversia sulle ragioni delle proprie convinzioni non è un conflitto ma la ricerca comune della verità che ci costituisce ed è unica. La verità ci lega, e in questo legame sta la vera libertà, che ci stimola a superare le illusioni dell’uomo. Agostino l’aveva capito: “Noi siamo riscattati solo se ci assoggettiamo alla verità”. Se si nega che esista una verità sull’uomo, il dialogo non perde la sua necessità ma molto della sua serietà”.
Non le pare ci sia un deficit di dialogo e di riconoscimento reciproco nella politica italiana?
“Le rispondo spogliandomi della mia qualità di vescovo, da uomo comune cui stanno a cuore i destini della sua patria. Ci dev’essere una unità che preceda le legittime e anche forti contrapposizioni. Temo che la coscienza di questa unità si stia oscurando. La società civile vive una lacerazione che certo non promuove il bene comune”.
Una contrapposizione più aspra ancora di quella del dopoguerra?
“Credo di sì, e mi chiedo come sia possibile. Temo dipenda dall’ideologia dell’individualismo: si afferma la concezione che nella prassi non esistano relazioni originarie tra le persone, ma l’incontro tra le persone è risultato di contrattazioni tra opposti interessi, contrattazioni che presuppongono la parità del dare e dell’avere”.
Ritiene che la Chiesa debba recuperare spazio nell’educazione dei giovani? Che cosa intende quando li definisce “poveri di senso”?
“I giovani sono all’inizio del loro cammino verso la beatitudine, che è più della felicità perché indica la pienezza dell’essere. Per questo molti tra i mille ragazzi che ho incontrato l’altro giorno allo sferisterio di Bologna mi chiedevano come discernere il giusto dall’ingiusto, o se sia davvero meglio subire l’ingiustizia piuttosto che farla. La Chiesa ha già i luoghi in cui può guidare i giovani in questo pellegrinaggio verso il Senso, nella consapevolezza che il criterio ultimo non può essere l’utile o il piacevole. Ma esiste il rischio di ridurre l’educazione a una proposta moralistica”.
Che cosa intende per moralismo?
“Una proposta che non educa al Senso ultimo della vita, il quale non coincide con il rispetto di una norma ma con il restare affascinati da una realtà che si presenta come vera, bella, buona. Altrimenti Gesù Cristo diventa l’occasione per parlare d’altro, sia pure di cose degnissime: la pace, la solidarietà”.
Al movimento per la pace partecipano molti cattolici.
“In una prospettiva pedagogica non è adeguata alla domanda di Senso una proposta educativa che si riduca al richiamo moralistico dei valori. Al centro dell’educazione cristiana non c’è l’impegno della persona, ma il dono di una grazia che esalta l’umanità. Quando incontra Zaccheo, capo dei pubblicani cioè dei ladri, Gesù non fa una predica sull’onestà, gli dice: vengo a mangiare a casa tua. La conversione seguirà. Gesù non può essere l’occasione di parlare d’altro. Péguy – se non sbaglio – diceva: presentatemi Cristo in tutti modi, ma non come una suocera”.
Lei è entrato in seminario a Fidenza nel 1949, a 11 anni. Pensava già di farsi prete? Sentiva la vocazione?
“Sì. Vedo i limiti di quella formazione, che però è stata molto bella. Ricordo la venerazione per la figura di Pio XII. E l’incontro con Giovanni Guareschi. Con un amico sacerdote eravamo ospiti nel suo ristorante, le sere d’estate”.
La sua visione dell’anticomunismo era davvero segnata dalla bonomia, o da una visione aspra della contrapposizione?
“Guareschi era stato in campo di concentramento, e aveva maturato il timore per ciò di cui l’uomo è capace. Però ha raccontato Peppone con le mani riscaldate dal Bambino dopo aver fatto il presepe, in una delle pagine più belle mai scritte sull’amore divino”.
Bologna è stata il cuore del comunismo italiano. Che cosa resta dell’età delle ideologie?
“Quand’ero cappellano incontravo tutti, e anche chi aveva posizioni ideologiche marcate mandava i figli all’oratorio e in parrocchia. Sono reduce dalla settimana della Madonna di San Luca. Chi non ha visto non può capire quanta unità di popolo susciti, più forte di qualsiasi contrapposizione”.
Che impressione le ha fatto Bologna? E’ davvero una città “sazia e disperata”? Le sue critiche all’intellighentsia di sinistra sono state lette anche come una scelta di campo. È davvero così?
“Bologna mi ha fatto un’impressione straordinaria. L’ho amata fin da subito, e non solo perché, come diceva Burckhardt, è la città più bella del mondo. Bologna è un po’ unica, una città della cultura, dove le persone vivono bene insieme. Mi pongo al di fuori delle qualificazioni di destra e di sinistra, ma una scelta di campo l’ho fatta: l’uomo. La difesa della sua grandezza, la cura della sua miseria. Quando Cristo mi ha chiamato come vescovo, mi ha chiesto di prendermi cura dell’uomo. Questa è la mia scelta”.
Aldo Cazzullo – Il Corriere della Sera – 2 giugno 2004