Il biologo Henri Atlan, membro anziano del Comitato consultivo di bioetica di Francia, nel saggio L’uterus artificiel spiega come la costruzione di un utero meccanico presenti difficoltà oramai affrontabili e sostanzialmente non molto maggiori di quelle affrontate a suo tempo per il rene artificiale.
Quanto all’accettazione sociale della, diciamo, maternità delocalizzata, per il biologo potrebbe avvenire in due passaggi, riferisce Le Monde. La prima fase sarà terapeutica: si tratterà di prevenire le conseguenze delle nascite molto premature, proponendo la fine della gestazione al di fuori del corpo materno. Insomma, presentato come una sorta di superincubatrice l’utero meccanico comincerebbe a diventare familiare nei reparti maternità. La seconda fase comporterebbe la sostituzione vera e propria della gravidanza naturale, per donne che non siano in grado di avere figli, o vadano incontro a forti rischi. Con che argomenti, si chiede Atlan, si potrà negare il ricorso alla macchina in questi casi? Niente a che fare col terribile “Mondo nuovo” immaginato da Aldous Huxley, con la produzione industriale di esseri umani, dove la parola “mamma” diventava impronunciabile e oscena. Semplicemente, “l’uso, dentro uno spazio democratico, di una nuova tecnica della procreazione assistita”.
E un’altra tappa della dissociazione fra sessualità e riproduzione. La più totale. A scopi terapeutici, certo. Anche le prime fecondazioni in vitro erano destinate solo alle coppie sterili. Da allora, la stessa tecnica è stata allargata alla preselezione degli embrioni. Quando c’è una tecnica, la si usa. Le giovani donne che in America – è la nuova moda – congelano i loro ovociti a 20 anni, per potere avere senza problemi un figlio, se lo vorranno, a 40, quando avranno fatto carriera, potrebbero trovare vantaggioso, quando fosse possibile, non doverselo portare addosso per nove mesi. Non è fantascienza. In un congresso a Sydney, novembre 2004, i migliori esperti di tutto il mondo ne hanno concretamente discusso. Una sola voce stonata ha interrotto il dibattito ben avviato. “E l’ombelico?” ha chiesto la voce. Stupore, fastidio fra i presenti per quella insensata obiezione. Quale ombelico? “I bambini nati da una macchina non avranno l’ombelico” ha spiegato Rosemarie Tong, dell’Università della Carolina del Nord. Già, niente cordone ombelicale, nessun legame con nessuna madre, nessun dialogo segreto nel mistero del buio prenatale. Come si cresce nel freddo dell’acciaio? “Quei figli saranno solo creature del presente, senza legame alcuno con il passato”, ha ricordato la signora Tong. Ma forse già l’aula non ascoltava più, presa a discutere le meraviglie dell’utero meccanico, e dei suoi figli post-umani.
Marina Corradi
Tempi n°13 – 24 Marzo 2005
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