La Cina vuole diventare l’Unione sovietica del terzo millennio

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Perché la Cina sta correndo al riarmo


La Tigre asiatica è impegnata a tecnologizzare il suo esercito. Acquista, copia e riproduce armi dalla Russia. Pechino vuole accreditarsi come potenza alternativa agli Usa. In una parola: la nuova Urss…

La Cina punta a diventare l’Unione sovietica del terzo millennio. In un mondo non più bipolare, la Tigre asiatica mira a raccogliere il testimone che fu dell’impero con la stella rossa. E per farlo gioca su tutti i tavoli possibili con il fine di accreditarsi, soprattutto in Asia, Africa e Sudamerica, quale alternativa alla superpotenza americana.
Una strategia di largo respiro, che si occupa di qualsiasi piano, non escluso quello militare.
Se dell’offensiva economico-commerciale lanciata da Pechino all’Occidente sappiamo ormai molto, poco o nulla di si legge della Cina sotto il profilo delle armi e dei soldati. Anche se è difficile immaginare che la nazione che sta mettendo in ginocchio i mercati di mezza Europa, sia sprovveduta sotto il profilo bellico. «La Cina – ci conferma in proposito Gianandrea Gaiani, direttore della rivista on line Analisi difesa e docente presso l’Istituto Superiore degli Stati Maggiori interforze di Roma – è impegnata a migliorare le sue capacità militari e in questo settore, soprattutto negli ultimi anni, ha dimostrato un notevole dinamismo».
Di perché al riguardo, ce n’è più d’uno. Per prima cosa, l’aggiudicazione delle materie prime, indispensabili per far muovere le grandi industrie del loro Paese. «Se da un punto di vista economico l’aggressività cinese sui vari mercati è nota – spiega Gaiani – meno lo è quella dimostrata per mettere le mani sulle grandi risorse. Non per niente infatti, la Cina si sta dimostrando assai tollerante e collaborativa verso molti regimi africani, dai quali riceve in cambio il via libera per lo sfruttamento di ingenti quantità di materie prime. E tutti sanno che qualunque politica aggressiva su scala globale per acquisire questo tipo di mercati ha bisogno di una certa capacità militare da affiancare a quella politica e commerciale».


Per avere un’idea, attualmente come potremmo definire l’esercito cinese?
«L’organizzazione militare della Repubblica popolare sta vivendo una fase di “passaggio”. Una transizione mossa proprio dall’espansione economica degli ultimi decenni. Il suo grande esercito “di popolo” nasce essenzialmente con funzioni difensive. Una forza soprattutto terrestre, che sfruttava le masse umane per poter fermare velocemente ogni tentativo di invasione. Ciò non vuol dire che non fosse in grado di effettuare attacchi (basti solo pensare al conflitto con il Vietnam del 1979) ma la sua funzione era quella di difesa dei confini nazionali. Oggi, come sappiamo, questo tipo di organizzazione è sorpassata. Più che con il numero dei soldati, le guerre si combattono e si vincono con la tecnologia. E la Cina si sta adeguando…».


Quale strategia ha messo in campo per evolversi in questa direzione?
«Cerca di acquisire tecnologia militare all’estero, la copia e la riproduce. Questo gli sta riuscendo molto bene con la Russia. Mosca ha grosse difficoltà economiche, la sua industria bellica ha assoluta necessità di vendere prodotti e la Cina ha i fondi per acquistarli. Da qui sono partiti alla volta della Tigre asiatica aerei, navi, sottomarini, carri armati, armi terrestri. Gli standard sono ancora lontani da quelli occidentali, lontanissimi da quelli americani, ma l’evoluzione è in questa direzione. Ovviamente, per completare il progetto la Cina ha bisogno anche di tecnologia ed elettronica sofisticata. Questa difficilmente si può reperire in Russia, ma sui mercati europei sì. L’Ue ha un embargo verso la Cina che esiste dai tempi dei fatti piazza Tienanmen. E, evidentemente non caso, ci sono diverse lobby che spingono per revocare le limitazioni e consentire questo tipo di forniture. Se Francia e Italia sono più che possibiliste, l’embargo viene mantenuto soprattutto per volontà di Usa e Gran Bretagna. Se toglierle avvantaggerebbe il business di tecnologia infatti, nessuno potrebbe impedire che entro breve la Cina possa diventare a sua volta produttrice ed esportatrice in questo campo. L’hanno fatto con l’elettronica di consumo, ci riuscirebbero anche con quella applicate al settore militare».


Gaiani, lei ha firmato su Panorama un’interessante inchiesta con la quale segnala che la Cina ha appena comprato una portaerei dalla Russia, ufficialmente per realizzare un casinò galleggiante da ormeggiare nel porto di Macao. Ma invece…
«Invece la “Varyag”, così si chiama in russo la nave di cui stiamo parlando, sta fungendo da “modello” per la realizzazione di portaerei militari. Un Paese che voglia giocare una strategia globale quale è quella cinese, non può prescindere dall’avere una forte marina. In questo gli Stati Uniti insegnano. La Variag invece di essere riconvertita in casinò è finita in un porto nel Sud del Paese dove è stata studiata al millimetro dai tecnici militari cinesi. Si tratta di una nave acquistata prima che venisse ultimata perché i russi non avevano più i fondi per terminare i lavori. Un mezzo quindi, funzionante e non usurato. Oggi infatti, anche dal punto di vista visivo, colore e numero sulla chiglia, è una nave militare in forze a tutti gli effetti. Non si tratta di una vera e propria portaerei, ma è il primo passo per acquisire la tecnologia necessaria per produrne altre in maniera autonoma ed essere potenza globale anche lontano dalle proprie coste».


E la questione Taiwan non potrebbe essere tra i motivi del riarmo della marina militare? I cinesi non hanno mai rinunciato all’idea di risolvere la questione con quella che continuano a definire una “provincia ribelle”.
«Non è da escludere. O meglio, se la Cina riuscirà a dotarsi di un grande esercito capace di renderla pericolosa anche lontano dai suoi confini, Taiwan sarà senza dubbio un possibile bersaglio. Oggi quest’isola è inattaccabile perché la Cina non ha la capacità navale sufficiente per superare lo stretto di Formosa e attaccare con forze sufficienti a piegare un esercito che conta circa mezzo milione di soldati. La Cina potrebbe distruggerla con un bombardamento nucleare, ma quasi paradossalmente, non conquistarla sbarcandovi con il proprio esercito».


Un attacco nel breve periodo quindi è difficilmente ipotizzabile. Ma nel medio-lungo?
«Taiwan, ma anche il Giappone o gli Usa è normale siano allarmati dagli investimenti militari cinesi. Nel caso di Taiwan, per i motivi che sappiamo, il pericolo è ancora più forte. Spingersi a ipotizzare un attacco è difficile, ma certo un mutare della situazione politica interna della Cina comunista potrebbe accelerare i tempi di un’avventura bellica. Mi spiego. Noi siamo abituati a pensare la Cina come un monolite, un grande paese che macina successi uno dietro l’altro correndo verso la modernità. Già oggi però sussistono scompensi pesanti fra diverse aree del paese, scontri etnici e tensioni sociali. Il regime copre e reprime qualsiasi forma di dissenso, ma non è detto che riuscirà sempre a farlo. Quindi nel caso in cui qualcuno di questi problemi “interni” dovesse diventare troppo scomodo, non è detto che una guerra contro Taiwan non possa essere un valido escamotage per distrarre l’attenzione da quanto sta avvenendo entro i confini nazionali».


Nel frattempo, Pechino mostra i muscoli e sfrutta il fattore “minaccia” per giocare da protagonista sullo scacchiere geopolitico mondiale.
«In un mondo non più bipolare, la Cina si sta accreditando, soprattutto in Africa e Sudamerica, come la potenza globale alternativa agli Usa. Per farlo, come abbiamo detto, ha bisogno di un esercito in crescita per essere credibile anche sul piano militare. Certi Stati del resto, soprattutto se hanno forme di governo non proprio democratiche, hanno molta più convenienza a trattare con la Cina di quanta ne avrebbero a farlo con l’Occidente. L’Europa o gli Usa per collaborare con un paese del Terzo mondo chiedono che ci sia una liberalizzazione dell’economia, una democratizzazione del sistema politico o almeno il rispetto dei diritti umani. Subordina gli aiuti a dei cambiamenti in questa direzione. La Cina no. Anzi, accetta qualunque regime, basti che questo rispetti la fornitura di materie prime».


Parliamo della Russia. Sotto il profilo militare l’ex Urss sembra una delle migliori alleate della Cina. Come ha spiegato lei è la principale fornitrice di armi alla Cina. Fanno persino delle esercitazioni congiunte come quelle dell’agosto scorso nell’area attorno a Vladivostok, nella penisola dello Shandong e sul Mar Giallo. Ma Mosca davvero non teme la nascente potenza militare della tigre asiatica?
«La temono eccome. Oggi come oggi, per affrontare la crisi economica e per cogliere l’opportunità di costituire un asse alternativo agli Usa non possono che vendere armi e porsi come buoni partner commerciali. Ma questo non impedisce ai russi di vedere i rischi che si addensano all’orizzonte. La Siberia, ad esempio. In questa regione, enorme e scarsamente popolata, dove si concentra la maggior quantità di risorse russe, è in atto una colonizzazione lenta ma inesorabile di popolazioni cinesi. Questo un domani potrebbe diventare un serio problema. Facciamo uno scenario: la Siberia “cinesizzata” potrebbe chiedere l’indipendenza o l’annessione alla Cina. E questo per la Russia vorrebbe dire il tracollo economico. Sono ipotesi futuribili e forse anche fantascientifiche, ma in Russia intanto si è aperto un dibattito sui rischi che si corrono a stare troppo vicini ai cinesi».

di Paolo Bassi
Il Federalismo Anno 9 – Numero 41 – Lunedì 17 Ottobre 2005