Cina: urge globalizzazione dei diritti umani
Il Ministro per le Politiche Comunitarie appoggia la petizione di AsiaNews per la liberazione di vescovi e sacerdoti imprigionati. Verso la Cina non servono dazi, ma una globalizzazione dei diritti, senza di cui la globalizzazione economica non tiene e il colosso cinese rischia la distruzione.
di Bernardo Cervellera
Ecco l’intervista completa rilasciata dall’on. Buttiglione ad AsiaNews.
Come vede la situazione della Cina e come siete interpellati da questa situazione a livello italiano ed europeo?
Dobbiamo fare la storia della nostra politica estera verso la Cina, che è simile a quella degli Stati Uniti. In un primo tempo abbiamo pensato di privilegiare l’espansione del libero mercato, la liberalizzazione, chiudendo gli occhi sulla grande questione della democrazia e dei diritti umani. Credo sia stata una decisione tutto sommato giusta: serviva a smuovere la situazione e dava alla Cina la possibilità di uscire dalla grande depressione causata dal periodo maoista e della rivoluzione culturale. Adesso però i cambiamenti ci sono e dobbiamo fare una riflessione: prima chiudevamo tutti e due gli occhi sulla questione dei diritti; ora, per continuare il dialogo, dobbiamo aprirne almeno uno. Perché non ci può essere libertà economica senza libertà religiosa, culturale, di associazione e politica.
Perfino il problema dell’invasione dei nostri mercati ha a monte l’oppressione dei diritti dell’uomo, la mancanza di protezione dei diritti dell’uomo e del lavoratore in Cina e nei paesi emergenti.
Quando nel 1986 a Punta del Este (Uruguay), ci fu l’accordo globale del Gatt (Accordo generale per le tariffe doganali e del commercio), dissi che questo passo non era completo senza un accordo parallelo sulle condizioni internazionali di lavoro. Certo, occorreva un accordo flessibile perché i costi di lavori nei paesi emergenti servono a concorrere sul mercato. Ma alla fine non si è fatto nulla. Oggi nel mondo c’è una competizione nel lavoro, ma è una competizione squilibrata, fra lavoro libero e lavoro senza sicurezza, fra libertà e schiavismo. Questo porta a una distorsione del mercato. L’enciclica del papa Centesimus Annus dice che il mercato è uno strumento eccellente, ma occorre verificare che i diritti umani non vengano maciullati da esso. È venuto il tempo che questo discorso sia fatto con la Cina, perché si giunga ad un accordo sui diritti del lavoro.
E la libertà religiosa?
Il tema dei diritti del lavoro è legato alla libertà religiosa. Non si può dividere l’ambito della libertà: del mercato, del lavoro, di religione. E teniamo presente che la libertà religiosa è il cuore di tutti diritti. Del resto la Cina sta cercando una nuova anima alla sua vita: il comunismo regge come struttura politica, ma i cinesi cercano un senso di pienezza nella vita individuale. Il comunismo come religione laica non tiene più. Che fare? Occorre lasciare i cinesi liberi di cercare la verità e lasciare libertà alla presenza missionaria delle chiese. Occorre che in Cina vi sia libertà di avere o non avere fede, libertà di convertirsi, di cambiare religione, di associarsi, di avere rapporti con comunità religiose all’estero. La Cina non può entrare nella globalizzazione delle merci senza entrare nella globalizzazione dei diritti umani, degli scambi. Pechino non può considerare con sospetto i rapporti con comunità religiose all’estero, col papa, sospettando che questi rapporti minino la sua sicurezza. I rapporti dei cattolici Usa (circa il 30% della popolazione americana) con il Papa non mettono in crisi la sicurezza dell’America; i rapporti dei cattolici in Italia (e sono oltre il 90%) col papa non mettono in crisi la sicurezza dell’Italia. Non capisco come mai i cattolici cinesi (l’1% della popolazione) possano essere sospettati di minare le basi del regime.
AsiaNews ha pubblicato una lista di 19 vescovi e 18 sacerdoti scomparsi, imprigionati o impediti a svolgere il loro ministero.
La prima cosa che dobbiamo chiedere è la libertà per questi vescovi e sacerdoti, che abbiano libertà di movimento, libertà di lavorare con le loro comunità e di visitare il papa. Su un altro versante, noi siamo impegnati in una guerra contro il terrorismo e collaboriamo con la Cina. Nello stesso tempo Pechino è anche vittima di alcune frange terroriste islamiche nell’ovest del paese. La Cina ha quindi bisogno del nostro aiuto. Ma per poter lavorare insieme, bisogna avere un concetto comune di cosa è terrorismo. Non possiamo accettare che vescovi, preti , gruppi religiosi che chiedono la libertà siano tacciati di essere terroristi, controrivoluzionari, nemici della Cina. Non possiamo accettare che la lotta contro il terrorismo diventi una cappa sotto cui soffocare il desiderio di libertà dei cattolici, ma anche degli islamici in quanto tali. Bisogna distinguere fra integristi islamici e terroristi.
Di tutto questo io voglio suggerire che se ne parli quando Peter Mandelson, Commissario europeo per il commercio estero parlerà con il ministro cinese.
Quanto questo pensiero è condiviso in Italia e in Europa? Non dimentichiamo che in Europa diversi paesi premono per la fine dell’embargo sulla vendita delle armi alla Cina…
Ho l’impressione che se si presenta una mozione, ci potrà essere una buona base di supporto e di forte consenso sia in Italia che in Europa. Il PPE senz’altro, nella sua maggioranza la sosterrebbe. Così anche i socialisti, sempre pronti a difendere i diritti del lavoro.
Quando avverrà? Il ministro degli esteri Li Zhaoxing, giunge in Europa in questi giorni…
Il presidente Mao diceva che ogni lunga marcia comincia con un primo passo. Io mi voglio muovere da subito. Ho già suggerito al vicepresidente Fini che parli di questo quando il ministro cinese sarà in Italia (il 18 marzo -ndr). Tutto questo impegno va fatto insieme agli Stati Uniti. Il presidente Bush continua a sottolineare che il tema del presente e del futuro è la libertà. Del resto la questione della libertà è importante a livello interno: siamo tutti preoccupati dei segni di instabilità presenti in Cina. Se un processo di sviluppo non è accompagnato da politiche di libertà e di diffusione del benessere, il paese rischia il caos. Se in Cina vi sono 150 milioni di ricchi, ma vi sono 900 milioni di poveri che vivono fianco a fianco, le premesse dell’instabilità sono già presenti.
Il mondo del capitale italiano ed europeo è interessato a questo impegno per la libertà in Cina? Quanto è interessato alla libertà religiosa e ai diritti dei lavoratori?
La mia impressione è che noi stiamo scoprendo adesso quello che gli americani hanno scoperto decine di anni fa, e cioè il legame fra mercato e libertà. Da noi non c’è ancora la percezione chiara per cui o il sistema economico ha alla base la libertà, oppure non c’è futuro. Mi sembra che vi sia più miopia che cattiveria. Il fatto è che non c’è vera riflessione fra libertà economica e le altre libertà. Le libertà umane sono anche nell’interesse del capitale. Il problema è che la Cina spesso è trattata solo come un partner economico, non come un soggetto politico, in cui le libertà civili hanno tutto il loro peso.
In Italia vi è chi pensa che la concorrenza cinese sia frenata con i dazi…
Il problema dei dazi va preso con le pinze. Non possiamo pensare di bloccare lo sviluppo economico della Cina. I dazi sono moralmente sbagliati e anche economicamente svantaggiosi. Bisogna trovare un accordo fra la crescita della Cina e la nostra. Non possiamo ridurci a fare ripicche. In fondo, il mercato non è altro che una struttura di cooperazione mondiale. Per questo parlerei più di diritti che di dazi. Per questo non può esserci globalizzazione del mercato senza la globalizzazione dei diritti. Porre la questione dei diritti non è una intromissione nella vita di un altro paese, ma è sollecitare le basi comuni a tutti i popoli. Se non c’è questa attenzione globale ai diritti nasceranno inevitabilmente tensioni sociali che metteranno in crisi la pace mondiale.
14 Marzo 2005