L’Osservatore Romano riapre il dibattito:
"La morte cerebrale non è sufficiente"
Quarant’anni dopo il «rapporto di Harvard», che cambiò la definizione di morte basandosi non più sull’arresto cardiocircolatorio ma sull’elettroencefalogramma piatto, L’Osservatore Romano riapre il dibattito. Il quotidiano della Santa Sede pubblica infatti in prima pagina un commento di Lucetta Scaraffia nel quale si legge: «L’idea che la persona umana cessi di esistere quando il cervello non funziona più, mentre il suo organismo – grazie alla respirazione artificiale – è mantenuto in vita, comporta una identificazione della persona con le sole attività cerebrali, e questo entra in contraddizione con il concetto di persona secondo la dottrina cattolica». Un argomento di grande importanza e di estrema attualità…
1) I segni della morte di Lucetta Scaraffia
2) «Sbagliato trattare quelle persone come cadaveri» Internista al professor Paolo Becchi
3) La “morte cerebrale” è davvero morte? di Mercedes Arzù Wilson membro della Pontificia Accademia per la Vita
1) I segni della morte
A quarant\’anni dal rapporto di Harvard
di Lucetta Scaraffia
Quarant\’anni fa, verso la fine dell\’estate del 1968, il cosiddetto rapporto di Harvard cambiava la definizione di morte basandosi non più sull\’arresto cardiocircolatorio, ma sull\’encefalogramma piatto: da allora l\’organo indicatore della morte non è più soltanto il cuore, ma il cervello. Si tratta di un mutamento radicale della concezione di morte – che ha risolto il problema del distacco dalla respirazione artificiale, ma che soprattutto ha reso possibili i trapianti di organo – accettato da quasi tutti i Paesi avanzati (dove è possibile realizzare questi trapianti), con l\’eccezione del Giappone.
Anche la Chiesa cattolica, consentendo il trapianto degli organi, accetta implicitamente questa definizione di morte, ma con molte riserve: per esempio, nello Stato della Città del Vaticano non è utilizzata la certificazione di morte cerebrale. A ricordare questo fatto è ora il filosofo del diritto Paolo Becchi in un libro (Morte cerebrale e trapianto di organi, Morcelliana) che – oltre a rifare la storia della definizione e dei dibattiti seguiti negli anni Settanta, tra i quali il più importante è senza dubbio quello di cui fu protagonista Hans Jonas – affronta con chiarezza la situazione attuale, molto più complessa e controversa.
Il motivo per cui questa nuova definizione è stata accettata così rapidamente sta nel fatto che essa non è stata letta come un radicale cambiamento del concetto di morte, ma soltanto – scrive Becchi – come "una conseguenza del processo tecnologico che aveva reso disponibili alla medicina più affidabili strumenti per rilevare la perdita delle funzioni cerebrali". La giustificazione scientifica di questa scelta risiede in una peculiare definizione del sistema nervoso, oggi rimessa in discussione da nuove ricerche, che mettono in dubbio proprio il fatto che la morte del cervello provochi la disintegrazione del corpo.
Come dimostrò nel 1992 il caso clamoroso di una donna entrata in coma irreversibile e dichiarata cerebralmente morta prima di accorgersi che era incinta; si decise allora di farle continuare la gravidanza, e questa proseguì regolarmente fino a un aborto spontaneo. Questo caso e poi altri analoghi conclusi con la nascita del bambino hanno messo in questione l\’idea che in questa condizione si tratti di corpi già morti, cadaveri da cui espiantare organi. Sembra, quindi, avere avuto ragione Jonas quando sospettava che la nuova definizione di morte, più che da un reale avanzamento scientifico, fosse stata motivata dall\’interesse, cioè dalla necessità di organi da trapiantare.
Naturalmente, in proposito si è aperta nel mondo scientifico una discussione, in parte raccolta nel volume, curato da Roberto de Mattei, Finis vitae. Is brain death still life? (Rubbettino), i cui contributi – di neurologi, giuristi e filosofi statunitensi ed europei – sono concordi nel dichiarare che la morte cerebrale non è la morte dell\’essere umano. Il rischio di confondere il coma (morte corticale) con la morte cerebrale è sempre possibile. E questa preoccupazione venne espressa al concistoro straordinario del 1991 dal cardinale Ratzinger nella sua relazione sul problema delle minacce alla vita umana: "Più tardi, quelli che la malattia o un incidente faranno cadere in un coma "irreversibile", saranno spesso messi a morte per rispondere alle domande di trapianti d\’organo o serviranno, anch\’essi, alla sperimentazione medica ("cadaveri caldi")".
Queste considerazioni aprono ovviamente nuovi problemi per la Chiesa cattolica, la cui accettazione del prelievo degli organi da pazienti cerebralmente morti, nel quadro di una difesa integrale e assoluta della vita umana, si regge soltanto sulla presunta certezza scientifica che essi siano effettivamente cadaveri. Ma la messa in dubbio dei criteri di Harvard apre altri problemi bioetici per i cattolici: l\’idea che la persona umana cessi di esistere quando il cervello non funziona più, mentre il suo organismo – grazie alla respirazione artificiale – è mantenuto in vita, comporta una identificazione della persona con le sole attività cerebrali, e questo entra in contraddizione con il concetto di persona secondo la dottrina cattolica, e quindi con le direttive della Chiesa nei confronti dei casi di coma persistente. Come ha fatto notare Peter Singer, che si muove su posizioni opposte a quelle cattoliche: "Se i teologi cattolici possono accettare questa posizione in caso di morte cerebrale, dovrebbero essere in grado di accettarla anche in caso di anencefalie".
Facendo il punto sulla questione, Becchi scrive che "l\’errore, sempre più evidente, è stato quello di aver voluto risolvere un problema etico-giuridico con una presunta definizione scientifica", mentre il nodo dei trapianti "non si risolve con una definizione medico-scientifica della morte", ma attraverso l\’elaborazione di "criteri eticamente e giuridicamente sostenibili e condivisibili". La Pontificia Accademia delle Scienze – che negli anni Ottanta si era espressa a favore del rapporto di Harvard – nel 2005 è tornata sul tema con un convegno su "I segni della morte". Il quarantesimo anniversario della nuova definizione di morte cerebrale sembra quindi riaprire la discussione, sia dal punto di vista scientifico generale, sia in ambito cattolico, al cui interno l\’accettazione dei criteri di Harvard viene a costituire un tassello decisivo per molte altre questioni bioetiche oggi sul tappeto, e per il quale al tempo stesso costa rimettere in discussione uno dei pochi punti concordati tra laici e cattolici negli ultimi decenni.
L\’Osservatore Romano – 3 settembre 2008
2)
«Sbagliato trattare quelle persone come cadaveri»
Il telefono non ha smesso di squillare per tutta la giornata. Ma la foga con cui il professor Paolo Becchi, ordinario di Filosofia del diritto all’Università di Genova, difende le sue ragioni non si è consumata. Perché è stato il suo libro «La morte cerebrale e il trapianto di organi» a scatenare un putiferio ieri, ancora prima della pubblicazione dell’editoriale che lo cita sull’Osservatore romano.
Immaginava di scatenare questo polverone?
«Lo speravo da tempo. Da oltre dieci anni mi occupo dell’argomento e vengo trattato come un reazionario».
Cosa spiega nel suo libro?
«Metto in evidenza che la morte cerebrale è un’invenzione creata ad hoc a fini trapiantistici».
Non è una buona causa quella dei trapianti?
«Certo che lo è, ma quando si tratta di cadaveri».
Che vuole dire?
«Com’è possibile che si difenda l’embrione e non si difenda una persona che ha 37 gradi di temperatura corporea, che è rosea in volto, calda al tatto?».
Lei vuole dire che la morte cerebrale non è morte?
«Io dico che bisogna trovare una giustificazione etica ai trapianti. La giustificazione non è dire che quelle persone sono morte».
Non sarà condizionato da motivi religiosi?
«Mi considero un cattolico non praticante».
Una battaglia dura: lei polemizza con medici e Vaticano.
«Non voglio sparare sui medici né sul Vaticano tout court. Voglio solo mettere in luce le contraddizioni di questo sistema».
di Gaia Cesare
Il Giornale n. 210 del 2008-09-03
3)
La “morte cerebrale” è davvero morte?
Un intervento di Mercedes Arzù Wilson membro della Pontificia Accademia per la Vita
È scientificamente provato che una persona realmente morta non può fornire un cuore adatto ad un trapianto. Solo una persona in vita con un cuore sano è adatta per un espianto. Per questa ragione, la “morte cerebrale” è stata inventata per favorire l’espianto degli organi.
È deplorevole che membri anche autorevoli delle professioni mediche, e un tempo anche la gerarchia cattolica e laica considerino la morte cerebrale morte. Sembrerebbe che essi siano stati abbindolati da interessi di gruppi che perderebbero miliardi se la verità venisse rivelata e la pratica sospesa grazie alla leadership della Chiesa cattolica.
Dopo tutto, una Chiesa che, come quella cattolica, ha migliaia di ospedali sotto la sua cura e la sua influenza, rappresenta per i sostenitori dell’espianto degli organi uno straordinario strumento di incremento del numero di donatori.
Il fine di coloro i quali considerano la “morte cerebrale” morte a tutti gli effetti è, sia quello di ottenere il silenzio delle autorità della Chiesa Cattolica di fronte all’espianto di organi vitali da donatori in vita, sia quello di spingere tali autorità ad esprimersi ufficialmente in favore della “morte cerebrale” quale vera morte.
È inoltre spaventoso scoprire fino a dove alcuni membri delle professioni potrebbero spingersi pur di espiantare organi da quei pazienti affetti da lesioni cerebrali che loro chiamano donatori cerebralmente morti. Senza dimenticare che alcuni organi vengono venduti per essere trapiantati nel corpo di un altro paziente a considerevoli somme di denaro.
Facciamo loro queste domande:
– Se il donatore “cerebralmente morto” è davvero morto, perché continuano ad alimentarlo con le flebo?
– Perchè, a volte, gli si fanno delle trasfusioni?
– Perchè si somministrano ormoni tiroidei e surrenali?
– Perchè necessitano dell’anestesia per espiantare gli organi? È forse perchè l’anestesista e le infermiere si troverebbero a disagio nel vedere il supposto “cadavere”, che respira con l’assistenza di un ventilatore, muoversi mentre loro tagliano il torace del donatore per prelevarne il cuore, il fegato o il pancreas?
– Perchè gli somministrano una sostanza paralizzante? È forse per evitare che il donatore si dimeni con paura quando il chirurgo dà inizio all’espianto dei suoi organi, oltre che per rassicurare l’impensierito staff medico che il donatore “cerebralmente morto” è realmente morto? Prima di cominciare ad usare droghe paralizzanti è stato necessario convincere alcuni membri dello staff che dubitavano che il donatore fosse davvero morto.
– È curioso notare che anche se il donatore è paralizzato, il battito del cuore e la pressione del sangue aumentano non appena il cuore inizia ad essere estratto.
– Come può una donna incinta, così detta “cerebralmente morta”, continuare per mesi a mantenere in vita nel suo grembo un bambino ed essere definita cadavere?
– Come mai questi così detti “cadaveri non si decompongono per giorni e a volte per mesi?
– Come può una mamma così detta “cerebralmente morta”, dopo aver dato alla luce un bambino vivo, produrre latte materno quando invece il chirurgo ha assicurato la sua famiglia che il suo cervello è morto?
In quest’ultimo caso se si riscontra una pur minima attività cerebrale, è ovvio che la tecnologia esistente, allo stato attuale, è incapace di individuare una nascosta attività del cervello, così come le complesse funzioni della ghiandola pituitaria legate all’ipotalamo, (una parte addizionale del cervello che influisce sulla ghiandola pituitaria in modo tale da rendere nei donatori “cerebralmente morti” apparentemente inesistenti le sue funzioni).
Per esempio, la ghiandola pituitaria è alle volte chiamata “ghiandola guida” del sistema endocrino, in quanto controlla il funzionamento delle altre ghiandole endocrine. La ghiandola pituitaria non è più grande di una pera ed è situata alla base del cervello. È unita all’ipotalamo (una parte del cervello che incide sulla ghiandola pituitaria) attraverso fibre nervose. La ghiandola pituitaria stessa è costituita da tre sezioni responsabili della produzione dei seguenti ormoni:
– ormone della crescita;
– prolattina che stimola la produzione di latte dopo il concepimento;
– ACTH (ormone adrenocorticotropico) che stimola la ghiandola surrenale;
– TSH (ormone tiroideo) che stimola la ghiandola tiroidea;
– FSH (ormone stimolante dei follicoli) che stimola ovaie e testicoli;
– LH (ormone della luteina) che stimola ovaie e testicoli;
– ormone produttore della melatonina che stimola i pigmenti della pelle;
– ADH (ormone antidiuretico) che aumenta il riassorbimento dell’acqua nel sangue attraverso i reni;
– ossitocina che permette la contrazione dell’utero al momento del parto e stimola la produzione di latte.
La società dei trapianti non ignora forse che il latte materno è il risultato dell’attività della ghiandola pituitaria nel cervello che invia i segnali per la produzione della prolattina, i cui livelli aumentano in vista della produzione di latte per il bambino?
E interessante notare come quest’ultima domanda fu posta, su richiesta personale di Sua Santità Giovanni Paolo Il, ai medici favorevoli alla “morte cerebrale” che frequentavano, nel febbraio 2005, un convegno della Pontificia Accademia delle Scienze.
Nessuno di loro negò che una madre incinta, dichiarata “cerebralmente morta”, potesse produrre latte dalle proprie mammelle dopo la nascita del figlio. Tali ammissioni incrinarono la loro sicurezza che nei pazienti con commozione cerebrale non ci fosse attività del cervello.
Per questo è logico concludere che fino a che la persona così detta “cerebralmente morta” o quella che versa in uno “stato vegetativo” mostra di avere le medesime funzioni metaboliche e le funzioni cerebrali, per quanto silenti, ha diritto a quelle stesse cure così ben delineate da Sua Santità Giovanni Paolo II in un discorso del 20 marzo 2004 Sui Trattamenti di Sostegno alla Vita e sullo Stato Vegetativo pronunciato durante il Congresso Internazionale Progressi Scientifici e Dilemmi Internazionali:
«Di fronte a pazienti in simili condizioni cliniche, c’è chi mette in dubbio la persistenza della stessa “qualità umana”; quasi come se l’aggettivo “vegetativo” (il cui uso si è pienamente affermato), che simbolicamente descrive uno stato clinico, potesse o dovesse essere invece applicato al malato in quanto tale, attualmente tende a sminuirne il suo valore e la sua dignità personale.
Il malato in uno stato vegetativo, in attesa di guarigione o di fine naturale, ha ancora il diritto alle cure mediche di base (nutrimento, idratazione, pulizia, calore), e alla prevenzione da complicazioni dovute alla sua lunga permanenza a letto. Egli ha inoltre il diritto a ricevere appropriate cure riabilitative e deve essere monitorato per riconoscere eventuali segni di miglioramento.
Mi piace soprattutto sottolineare come la somministrazione di cibi e bevande, anche se effettuata artificialmente, è sempre volta a preservare la vita, non è un atto clinico. Il suo uso, inoltre, può essere considerato, in principio, un atto ordinario ed adeguato, e in quanto tale moralmente obbligato, almeno fino a quando esso mostri di perseguire le proprie finalità, che nel caso presente consistono nel nutrire il paziente e nell’alleviarne le sofferenze».
L’anima non si è ancora separata dal corpo?
Quei medici che vogliono sostenere la analogia di queste due malattie, “morte cerebrale” e “stato vegetativo”, devono dimostrarlo al mondo scientifico. Fino a quando non lo dimostreranno, l’insegnamento della Chiesa Cattolica continuerà a proteggere l’essere umano fino al suo ultimo respiro e fino all’ultimo battito del suo cuore. Questa è, ed è sempre stata considerata, la fine naturale dell’uomo.
L’argomento della “morte cerebrale” è di estrema importanza per chiunque rispetti la vita di una persona creata a immagine e somiglianza di Dio. La Chiesa Cattolica non può dichiarare nessuno morto fino a che non sia assolutamente certo che lo spirito si sia separato dal corpo. Il Papa Giovanni Paolo II afferma, nelle riflessioni rivolte ai partecipanti al convegno della Pontificia Accademia delle Scienze del 3 febbraio 2005 intitolato I Segni della Morte.
«Nell’ambito dell’antropologia cristiana è ben noto che il momento della morte per ciascuna persona consiste nella definitiva perdita della originaria unità di anima e corpo. Ogni essere umano, infatti, è vivo proprio fino a che lui o lei è “corpore et anima unus” (corpo e anima uniti) (Gaudium et Spes, 14), e lui o lei rimangono tali finché questa sostanziale unità sussiste nella sua interezza».
Perciò, quando i chirurghi espiantano un organo vitale da un donatore cerebralmente morto, come per esempio un cuore che batte, stanno causando la morte di un paziente vivente innocente. Questo intervento medico è una chiara violazione del Quinto Comandamento.
In un recente comunicato a Parigi contro la pena di morte la Santa Sede fissa la posizione della Chiesa come segue: «la Santa Sede accoglie ben volentieri questa opportunità ed afferma una volta di più il suo sostegno a tutte quelle iniziative che hanno a cuore la difesa del valore innato e l’inviolabilità di tutta la vita umana, dal concepimento alla morte naturale».
Come cristiani crediamo che Dio ci ha donato la vita. Viviamo nella speranza di vivere abbastanza da meritarci la ricompensa del Paradiso. Ma solo Dio sa quando la nostra vita avrà fine. Nessuno, né noi né gli altri, ha il diritto di togliere a Dio il potere sulla vita e sulla morte. Anzi dovremmo adottare l’approccio di Dio alla vita e viverla più pienamente.
Questo è conforme ad ognuno di noi, ma in particolare ai medici, agli infermieri, al restante personale medico, al clero, che deve proteggere, preservare e difendere la vita, sostenendo la sua santità ed innalzando la sua qualità. La ragione ultima e fondamentale della pratica della medicina è permettere la sopravvivenza del paziente.
Come dice il dott. Paul Byrne: «Il sostentamento della vita umana, attraverso la fornitura di cibo ed acqua, il nutrimento, la consolazione e l’affetto nei confronti di un innocente, non è un ATTO medico, ma piuttosto è volto ad ottenere la misericordia e la grazia di nostro Signore. Basti osservare l’esempio di Madre Teresa.
La comunicazione spirituale, questa Santa Comunione tra il paziente, il Suo figlio, e lo Spirito Santo non si è mai interrotta. Questo tempo di grazia che nostro Signore usa per parlare al cuore di ogni persona, rivolgendo l’invito al Suo Regno e alla vita eterna, può diventare lo scopo di coloro i quali si assumono la responsabilità di fornire cure fino alla fine”.
Affrettare la morte con ogni mezzo e non permettere che questo Divino appuntamento sí compia, che questa chiamata dello Spirito Santo e del Consolatore porti pace, gioia e speranza, è un crimine perpetrato da molti.
Perchè non si riesce a capire che ogni persona umana sulla terra è sempre una unità di anima e corpo, della quale 1’ anima è essenziale e predominante? Solo Dio sa quale è il momento giusto per morire. Il corpo fisico perisce ma l’anima continuerà a vivere per l’eternità, in Paradiso o all’inferno!
La nostra responsabilità in quanto medici o personale para medico, è quella di proteggere e preservare la vita di una persona e di convincere gli altri, soprattutto parenti, amici ed ecclesiastici a proteggere e preservare a loro volta la vita e a non provocare mai la morte. Quanto ancora ci resta da vivere? Tanto abbastanza da meritare la misericordia di Dio.
Noi dobbiamo essere sinceri nella difesa di ogni vita, non solo di “alcune vite” dal concepimento alla morte naturale.
Il male (…) include (…) qualsiasi violazione della integrità della persona umana, come mutilazioni, torture fisiche o psicologiche e tentativi di distorsione della volontà».
Questo include l’espianto di organi vitali singoli, che sono già stati additati: «Gli organi vitali necessari singolarmente nel corpo non possono essere espiantati se non dopo la morte e dal corpo di una persona che è sicuramente morta. Questa esigenza è di per sé evidente, il contrario infatti vorrebbe dire causare volontariamente la morte di un donatore per disporre dei suoi organi».
Il mondo si è sempre fidato dell’autorità di onorevoli uomini e donne che credono che la vita sia un dono di Dio. Questa responsabilità ricade in primo luogo sui membri delle professioni mediche che per secoli hanno aderito al Giuramento di Ippocrate fornendo una guida, una protezione e una difesa della santità di quella vita che hanno giurato di difendere.
A causa del loro silenzio odierno, la selvaggia uccisione di innocenti donatori di organi vitali singoli per allungare la vita di un’altra persona con la scusa della compassione verso il beneficiario, continua senza una ufficiale protesta della professione medica.
Combattere per la giustizia
Con la scusa di essere giudiziosi e/o “prudenti”, i medici hanno spesso ostacolato importanti decisioni in materia di etica con risultati molte volte devastanti per i pazienti. Anche un bambino sarebbe in grado di riconoscere l’esistenza della vita in un paziente che respira e il cui cuore continua a battere.
Non è necessario essere un medico per sapere che finché i segni vitali sono presenti, e la decomposizione del corpo non ha avuto luogo, l’anima non si è ancora staccata dal corpo del donatore.
L’inganno della “morte cerebrale”, non solo è un affare da milioni di dollari, ma ha come conseguenza ancor più seria quella di non permettere alle anime di partecipare alla Eterna Salvezza. In aggiunta, essendo una rappresentazione falsa di una morte vera, fa si che milioni di anime non ricevano il Sacramento della estrema unzione della Chiesa Cattolica per ottenere la salvezza.
Come padre John Corapi spesso afferma: «Arrendersi non è una alternativa, soprattutto se pensiamo che stiamo lottando contro le seducenti e idolatre pratiche di quello che oggi viene definito “mondo civilizzato”».
Noi possiamo accettare la sfida o rifugiarci nel silenzio. L’unico testimone della nostra resa sarà Dio, ma la nostra coscienza non ci darà tregua se abbiamo ricevuto i giusti insegnamenti dalla Chiesa Cattolica. In altri termini, l’essere umano ha il potere di fare un gran male o un gran bene. Possiamo essere grandi santi o possiamo sottometterci al male. Dobbiamo amare la verità o arrenderci all’inganno. È urgente che le odierne pratiche del male vengano riconosciute quali materia di vita o di morte.
Il nostro compianto Giovanni Paolo II spesso ci ricordava: «Non siate soddisfatti nella mediocrità» e «non abbiate paura».
Del resto, anche se molte persone stanno violando il loro codice etico, lasciamo che ricordino che ciò che è sbagliato è sempre sbagliato anche se ci sono persone che lo fanno; ciò che è giusto è sempre giusto anche se non c’è nessuno che lo faccia.
Famiglia Domani Flash, n. 2 – 2008, p.4-6
Paolo Becchi,
Morte cerebrale e trapianto di organi
Prezzo € 12,50
Editore Morcelliana 2008, 200 p.
Curatore Roberto de Mattei,
Finis vitae. La morte cerebrale è ancora vita?
Prezzo € 35,00
Editore Rubbettino 2007, IX-481 p.