Aborto: chi vuole far cedere l’America Latina?
Il Parlamento di Città del Messico ha depenalizzato l’aborto fino alla 12ª settimana; in Brasile, Perù, Cile e Uruguay l’aborto è argomento di estrema attualità. Quanto ancora riuscirà a resistere il continente latinoamericano?
La depenalizzazione dell’aborto nelle prime 12 settimane di gestazione – approvata dal Parlamento locale di Città del Messico – riaccende i riflettori su un tema caldo in tutta l’America latina. Se ne discute in Brasile, ma è argomento di estrema attualità anche in Perù, Cile e Uruguay. Il continente latinoamericano non presenta un panorama omogeneo sul fronte legislativo: in numerosi Paesi è totalmente proibito, altri hanno scelto la via della depenalizzazione parziale e altri ancora (come Cuba) permettono l’aborto libero fino a 14 settimane di vita del feto.
In Brasile – il Paese più cattolico del mondo per numero di fedeli – è stato il nuovo ministro della Sanità José Gomes Temporao a riaprire il dibattito, qualche settimana fa. In un’intervista al quotidiano Folha de Sao Paulo, si è detto favorevole a un referendum sull’aborto, come accaduto lo scorso febbraio in Portogallo (Paese in cui il ministro è nato). «Dal punto di vista della salute pubblica – ha dichiarato – il mio punto di vista è a favore della legalizzazione». Secondo il ministro, «si tratta prima di tutto di una questione di sanità pubblica, perché ogni anno migliaia di donne muoiono a causa di aborti insicuri. L’argomento – ha riconosciuto – è polemico, perché riguarda aspetti morali, religiosi, psicologici. Ma il tema, fondamentalmente, è vincolato alla politica della salute». «La proposta di un referendum – ha poi chiarito – è personale, ma il dibattito è nel seno del governo». Un particolare cruciale, visto che il presidente Luiz Ignacio Lula da Silva ha preso le distanze dall’idea del referendum: «Qualsiasi dibattito sull’aborto – ha ribadito Lula – si consumerà in Parlamento e non verrà affrontato dal governo». Per una parte della stampa il presidente ha voluto “lavarsi le mani” su un tema spinosissimo, soprattutto in vista della visita del Papa in Brasile. Ma in realtà la questione non provoca malessere solo nella Chiesa. Stando ai dati del sondaggio pubblicato dallo stesso giornale, oltre il 65% della popolazione si oppone alla modifica dell’attuale legge, che permette l’interruzione volontaria di gravidanza solo in caso di rischio di morte della madre, se la gravidanza è frutto di uno stupro o se il feto è affetto da anencefalia (mancanza di cervello). Soltanto il 16% dei brasiliani vorrebbe estendere la depenalizzazione ad altri casi, mentre uno scarso 10% è favorevole alla legalizzazione totale. Le dichiarazioni del ministro sono state accolte da dure critiche da parte di numerose associazioni di ispirazione religiosa (non solo cattoliche) e dai 175 deputati e senatori che costituiscono il Fronte Parlamentario in Difesa della Vita e Contro l’Aborto.
In Perù il dibattito riguarda l’aborto terapeutico. Teoricamente l’interruzione volontaria della gravidanza è illegale in ogni caso, ma negli ultimi due anni sono sorte delle eccezioni (terapeutiche) nell’ospedale San Bartolomé di Lima e nel Belén di Trujillo. Da qualche settimana, però, si discute di un polemico “protocollo” in funzione presso l’Istituto Materno Perinatale di Lima, che secondo le associazioni pro-vita aprirebbe le porte ad una legalizzazione mascherata da aborto terapeutico. Il “protocollo” permette l’aborto in 17 situazioni cliniche: dall’insufficienza cardiaca all’ipertensione arteriale cronica, passando per l’insufficienza renale o vari tipi di tumore della paziente.« Dietro alla definizione di “aborto terapeutico” – ha denunciato l’ex ministro della Sanità Luis Solari a El Comercio – si potrebbe introdurre l’aborto eugenetico».
Un caso realmente interessante, in America latina, è quello del Cile, dove l’interruzione volontaria di gravidanza è totalmente proibita. È il Paese più sviluppato del continente dal punto di vista economico, ammirato anche per la forza civile con cui ha superato l’orrore della dittatura e ha costruito le basi dell’attuale sistema democratico. La stampa internazionale si è occupata ampiamente della presidentessa Michelle Bachelet e del suo governo di centrosinistra, metà donne e metà uomini. Poco ha parlato, invece, della durissima sconfitta incassata dalla sinistra, quando lo scorso novembre cercò di fare approvare una proposta per depenalizzare l’aborto entro le prime 12 settimane: il Parlamento cileno bocciò il progetto con una forte maggioranza (61 voti contro 21).
In Uruguay un gruppo di deputati del Fronte Ampio (al governo) ha deciso di andare avanti con una proposta di legalizzazione dell’aborto, nonostante la netta opposizione del presidente (di sinistra) Tabaré Vasquez. Il capo di Stato (medico di professione) ha assicurato che veterà qualsiasi progetto di depenalizzazione durante il suo mandato, per una «questione di coscienza».
In Colombia, invece, la Corte Costituzionale lo scorso anno eliminò la pena da uno a tre anni prevista dal Codice Penale per chi ricorre all’aborto. Tre i “casi speciali” accettati dal paese sudamericano: violenza sessuale, malformazione grave del feto o rischio di morte della madre.
Gli unici paesi dell’area in cui l’aborto è totalmente libero in qualsiasi circostanza – per volontà della donna – entro le prime 14 settimane di gestazione, sono Cuba, Porto Rico e Guyana. In numerosi paesi come l’Argentina o il Messico (al di à della legge della capitale) è permesso solo in caso di pericolo per la vita della madre o stupro, mentre in alcuni (come la Bolivia) è legale anche in caso di incesto o “rapimento non seguito da matrimonio”. Resta assolutamente vietato, invece, in Cile, Salvador, Honduras, Nicaragua (dopo una riforma dello scorso anno), Paraguay e Repubblica Dominicana.
di Michela Coricelli
Avvenire 3 maggio 2007