Le cellule staminali del feto accorrono a riparare lesioni nel corpo della madre

Dal piccolo figlio la corazza alla madre


Le cellule staminali embrionali è bene lasciarle stare. Non solo per ragioni etiche, per il rispetto della vita che nasce, ma anche per precise ragioni biologiche. Sono cellule difficilmente governabili. Come si è scoperto che le cellule staminali del feto corrono in aiuto della madre…

Le cellule staminali embrionali è bene lasciarle stare. Non solo per ragioni etiche, per il rispetto della vita che nasce, ma anche per precise ragioni biologiche. Sono cellule difficilmente governabili. Non è affatto agevole indirizzarle verso differenziazioni programmate, cioè avviarle a diventare quello che noi vogliamo che diventino: cellule del cervello, del cuore e via dicendo, secondo l’organo che bisogna riparare. A un certo punto, possono andare incontro a mutazioni geniche e diventare addirittura tumorali, oppure cellule di un tessuto diverso da quello che va riparato. Le sole staminali che finora abbiano dato risultati tangibili sono da cordone ombelicale e quelle da soggetto adulto, perché sono cellule “riparatrici”. Quelle embrionali, invece, hanno il compito di generare completamente un tessuto, ed è estremamente ridotto – rispetto alle attese – il numero di linee stabili di cellule staminali da embrione che si è riusciti a ricavare per poterle utilizzare nella ricerca e nelle terapie». Il professor Salvatore Mancuso conosce bene le eccezionali capacità delle staminali tratte dal cordone ombelicale. Dopo esperienze in università straniere (è stato ricercatore presso il famoso Karolinska Institut di Stoccolma) e una brillante carriera universitaria, ha ricoperto per quasi quindici anni l’incarico di direttore dell’Istituto di Clinica ostetrica e ginecologica al Policlinico Gemelli dell’Università Cattolica di Roma, e qui – dal 2000 – dirige il «Dipartimento per la tutela della salute della donna e della vita nascente». Mancuso sottolinea l’importanza delle ricerche italiane in materia di staminali da cordone ombelicale e da adulto, ed è entusiasta quando descrive la scoperta compiuta ad Harvard dall’italo-americana Diana Bianchi: durante la gravidanza, attraverso il cordone ombelicale e la placenta, le cellule staminali del feto accorrono a riparare lesioni in organi e apparati nel corpo della madre. Si installano nel midollo osseo materno, lo “colonizzano” – cioè vi si moltiplicano – e lì rimangono per tutto il resto della vita della donna. La madre porta sempre nel proprio organismo le cellule staminali del figlio. Si può dire perciò – rileva Mancuso – che le donne conservano l’unità del patrimonio genetico dell’umanità. E forse sta anche in questo il segreto della loro maggiore longevità rispetto agli uomini.


Come si è scoperto che le cellule staminali del feto (che ne possiede in grande quantità perché è un organismo in pieno sviluppo) corrono in aiuto della madre?
Se una donna nel corso della gravidanza contrae un’epatite virale molte cellule staminali del bambino che ha in grembo diventano cellule epatiche per riparare il fegato materno. Se una gestante ha un infarto nel suo tessuto miocardico si trovano cellule staminali del feto, migrate e trasformatesi in cellule miocardiche della madre. Certo, il figlio la protegge anche per poter arrivare sano e salvo al compimento dello sviluppo, cioè per poter nascere, ma il fenomeno è comunque molto affascinante. La prima prova la si è avuta quando un chirurgo ha dovuto asportare un gozzo tiroideo a una gestante. Il 50% delle cellule tiroidee della donna era di provenienza fetale.


Le cellule del feto non riescono a ricostituire tutto il tessuto malato della madre, o, in qualche caso, accade?
Bastano a guarire piccole lesioni. Stiamo studiando questa materia con modelli sperimentali nelle pecore gravide.


Sono efficaci le cellule staminali del cordone ombelicale e quelle dell’adulto?
Anche se non sono totipotenti come le embrionali (che però risultano rischiose e non hanno dato sinora risultati), sono comunque multipotenti, già avviate verso una specializzazione e dotate di una grande mobilità: vengono addirittura “richiamate” dalla lesione e si dispongono attorno a essa per cominciare a ripararla. Prima nel feto, poi nel neonato e infine nell’adulto, le cellule staminali sono presenti in tutti gli organi e apparati, dal sistema nervoso fino al tessuto osseo. Si può inoltre ipotizzare che gli esseri umani abbiano un patrimonio genetico di sostanze che favoriscono e promuovono l’azione riparatrice delle cellule staminali, certo in misura diversa da individuo a individuo.


Perché nell’adulto, che ne ha più del feto, le cellule staminali non provocano una guarigione spontanea delle malattie?
Perché non hanno né la forza numerica né il tempo per riparare l’intera lesione. Il fenomeno, che abbiamo notato quando una gestante ha un infarto, si ripete in tutti i pazienti infartuati. Se una persona muore di infarto, tutt’intorno all’area colpita si ritrova una quantità delle sue cellule staminali, accorse nel tentativo di fronteggiare la situazione. Questo processo naturale potrà essere aiutato dalla scienza quando si riuscirà a produrre un numero sufficiente di cellule staminali. Potremo prelevarle dallo stesso soggetto, oppure da cordone ombelicale. Nel primo caso, si evita il rischio di rigetto: l’organismo riconosce quelle cellule come proprie. Le varie aree del corpo dell’adulto sono altrettanti serbatoi di cellule staminali, già differenziate o avviate alla differenziazione.


Quali malattie vengono già curate con cellule staminali da cordone ombelicale o da adulto?
Nel midollo osseo abbiamo staminali in grado di formare tutti gli elementi del sangue (globuli bianchi, globuli rossi e piastrine): si tratta delle cellule “ematopoietiche”. Tenute in coltura, possono assumere la forma e la funzione di cellule epatiche, muscolari e nervose. Negli anni ’80 si è cominciato a usare queste cellule per curare le leucemie trapiantando il midollo osseo. Nel mio istituto partimmo quindici anni fa per affrontare i tumori dell’ovaio. Aumentando le dosi di chemioterapici riuscivamo ad annientare le cellule neoplastiche, ma venivano colpite anche le cellule del sangue, come tutte quelle in rapido accrescimento. La soluzione? Prelevare le cellule staminali dal midollo osseo, o meglio, dal sangue circolante del paziente. Il procedimento si chiama “aferesi” (che in greco significa “sottrazione”): il sangue viene fatto passare attraverso un’apparecchiatura che raccoglie le cellule staminali e rimanda quelle normali nel circolo sanguigno. Le staminali, una volta reimmesse in circolo, vanno direttamente a localizzarsi nel midollo osseo e lo colonizzano formando nuovi elementi del sangue. Nel giro di una settimana, il midollo osseo si ripopola. Ma le cellule staminali ematopoietiche, in opportune condizioni e a temperature appropriate, possono differenziarsi diventando cellule del cuore, del fegato, di muscolo o di osso.


In quali altre terapie il trattamento a base di staminali comincia a dare risultati?
In dermatologia, per esempio. Oggi curare un paziente ustionato non è più un’impresa impossibile. Basta prelevare frammenti di pelle contenenti cellule staminali, isolarle, e si possono “fabbricare” metri quadrati di pelle nuova dello stesso soggetto. Nel prossimo futuro non sarà più necessario trapiantare cornee prelevate da cadavere: già oggi alcuni oculisti prendono un piccolo frammento di cornea dal paziente, isolano le cellule staminali, le fanno moltiplicare e il paziente ha la sua cornea risanata.


Ma non si sente ancora parlare di cuori e fegati risanati dalle cellule staminali…
Su questi fronti si registrano tentativi di riparare gli organi che hanno subìto una lesione. Dico tentativi, perché non si è ancora usciti dalla fase sperimentale ed entrati nella routine clinica. Ma già s’intravvedono potenziali successi contro il cancro. Nascono centri di terapie cellulari. L’attenzione si sposta anche su altri tipi di cellule, come quelle “dendritiche”, che sono cellule “adiuvanti” dei linfociti, globuli bianchi di importanza essenziale per il funzionamento del sistema immunitario, cioè delle difese naturali dell’organismo. I linfociti infatti riconoscono una cellula estranea, un agente patogeno – l’antigene – e sono in grado di sviluppare anticorpi specifici contro di esso. Ma ogni tumore, a causa delle mutazioni geniche che avvengono nelle sue cellule, produce proteine specifiche che lo rendono diverso da qualsiasi altro tumore, anche se morfologicamente identico. Ciò spiega perché, in genere, il sistema immunitario, da solo, non vince il braccio di ferro con il cancro. Ma se noi mettiamo accanto alle cellule dendritiche del paziente gli antigeni prodotti dal particolare tumore che lo ha colpito, esse acquisiranno l’informazione e produrranno in laboratorio linfociti capaci di riconoscere gli agenti tumorali e di attaccare e distruggere le cellule neoplastiche. Con la “memoria immunitaria”, è come se avessero la “foto del ricercato”. Questo approccio potrà offrire una grande opportunità terapeutica.


E tutto questo può essere fatto con le cellule staminali dell’individuo adulto?
Certo. Si potranno curare le malattie degenerative, le gravi epatiti, il diabete (in questo caso le cellule staminali dell’adulto saranno indotte a differenziarsi nelle “isole di Langerhans” del pancreas, che producono l’insulina). Intanto già si parla di banche di cellule staminali adulte.


Si può cioè organizzare una “banca” del genere?
L’Italia è l’unico Paese in cui questa pratica non ha ancora attecchito realmente. All’estero è possibile sottoscrivere una polizza assicurativa per sostenere l’alto costo della conservazione delle proprie cellule staminali. Con il tempo questo costo si ridurrà progressivamente, e forse simili banche spunteranno anche in Italia. Se i risultati verranno incontro alle nostre attese, e con le cellule staminali sarà possibile curare le malattie degenerative tipiche dell’età anziana (che oggi costano molto allo Stato), è assai probabile che anche la sanità pubblica possa sostenere la spesa.


Oggi il cordone ombelicale va sprecato, nel senso che le cellule staminali che contiene non vengono utilizzate?
Si può fare una donazione di queste cellule a chi ne ha bisogno, ma il costo per la conservazione è elevato. Eppure i vantaggi della metodica sarebbero molto concreti. A Sciacca, in provincia di Agrigento, c’è una banca di queste cellule. I medici che curavano un bambino affetto da un tumore cerebrale hanno potuto utilizzare cellule staminali ricavate dal sangue del suo cordone ombelicale. La mamma lo aveva fatto conservare, anni prima, al momento della nascita del figlio.


In questo settore d’avanguardia, è già arrivato un intervento pubblico?
Manca un sostegno finanziario. Eppure nelle “banche” potrebbero essere conservate non solo le cellule ematopoietiche circolanti ma anche cellule della pelle, o della cornea. Durante le artroscopìe – cioè le ispezioni nelle articolazioni – gli ortopedici raccolgono il liquido “sinoviale”. Lì c’è una grande quantità di cellule staminali: possono diventare non solo cartilagine ma osso o anche muscolo. Lo stesso discorso vale per le cellule staminali neuronali, presenti in notevole quantità nel sistema olfattivo. Possono essere prelevate, amplificate e conservate per trattare malattie del sistema nervoso dello stesso soggetto. Certo, si va avanti a piccoli passi. I progressi sono lenti. Periodicamente la comunità scientifica si ritrova per analizzare e mettere a confronto i risultati ottenuti. Potremmo accelerare il cammino, se l’impegno della ricerca si concentrasse tutto in questa direzione con risorse adeguate, invece di inseguire la rischiosa e controversa via delle staminali da embrione.


Luigi Dell’Aglio – Avvenire 1/3/05