Dopo accese reazioni di indignazione di fronte all’accusa di volere un ritorno all’eugenetica, i fautori della selezione genetica preimplantatoria sembrano cambiare direzione. Si affacciano infatti nuove espressioni linguistiche che hanno il preciso scopo di riconciliarsi con la scomoda pratica: già la “diagnosi preimplantatoria” o l’“esame del DNA” suonano abbastanza innocue agli orecchi del grande pubblico, mentre termini come “prezigote”, “ootide” o come il rinato “pre-embrione” confondono la percezione comune sul valore della vita prenatale, per non parlare di termini ancora più elaborati, come “progenetica” o “eubiotica”. Ma ora sono soprattutto le locuzioni “eugenetica positiva”, “eugenetica buona” o “eugenetica innocente” ad osare di più, insinuando l’esistenza di una differenza etica fra diversi tipi di eugenetica. Varie voci si sono levate in questo periodo ad ammonire contro i pericoli insiti in tale distinzione: ad esempio il nuovo libro La vita in vendita. Biologia, medicina, bioetica e potere del mercato, in cui, dialogando con il filosofo Charles Godin, il genetista Jacques Testart osserva che “ci incamminiamo verso una vera e propria possibilità di scelta del figlio a venire, grazie alla genetica diagnostica”. Di conseguenza, “la selezione embrionale è un’eugenetica positiva sulla coppia genitoriale e negativa sulla quasi totalità dei suoi embrioni” (cfr. Metamorfosi di medicina ed eugenetica, parola che non fa più orrore, “Il Foglio”, 15 settembre 2004, p. 2).
È un eugenismo mascherato di spirito democratico, che pretende di tenere le distanze da quello totalitario “legato per sempre al nazismo, ma pur sempre parte del pendio scivoloso che dall’impossibilità di mettere in discussione la ‘medicina dei desideri’, […] arriva a considerare l’embrione (a fin di bene, per carità) come materiale medico da vagliare per offrire un prodotto-figlio il più possibile ‘perfetto’” (N. Tiliacos, Nasce l’eugenetica innocente, “Il Foglio”, 21 settembre 2004, p. 1).
È, ancora, un eugenismo in cui si confonde il desiderio del figlio con il diritto al figlio sano, coltivando contemporaneamente la titanica illusione di potere eliminare ogni dolore e sofferenza dell’uomo, e magari sconfiggere la morte entro i confini della vita terrena (cfr. A. Socci, Paradossi della buona genetica, che ucciderebbe Dostoevskij, “Il Foglio”, 21 settembre 2004, p. 1; Editoriale: La buona vita e la buona morte. L’eugenetica e l’eutanasia sono solo l’ultimo anello di una lunga catena, “Il Foglio”, 18 settembre 2004, p. 3).
È infine un’eugenismo che si tenta di fare apparire come normale, consueto, quasi scontato: “un po’ di eugenetica c’è già: le ‘primipare attempate’, e dunque ormai quasi tutte le donne, si sottopongono a villocentesi o amniocentesi” (Marina Terragni, L’eugenetica non c’entra con i desiderio di sfuggire alla sofferenza, “Il Foglio”, 28 settembre 2004, p. 2). E se sorge il sospetto che la “costruzione” del figlio ideale assomigli un po’ troppo ad un mercato procreativo, arriva pronta la rassicurante risposta che tanto “questo mercato c’è già. La ricerca sulle staminali si fa già, importando embrioni da paesi che ne permettono il congelamento. Gli embrioni malati, legge o non legge, i medici non li impiantano” (ibidem).
Comunque venga intesa e definita, l’eugenetica non può che risolversi in un radicale fraintendimento del valore della vita umana, dal momento che rappresenta l’ “inquietante […] tentativo di far coincidere i confini dell’umano con quelli, molto più ristretti del biologico” (intervista di ZENIT a Cristian Fuschetto, autore di Fabbricare l’uomo. L’eugenetica tra biologia e ideologia , Armando Editore, 2004,), promuovendo una “utopia sanitaria” che produce aberranti discriminazioni fra gli esseri umani. In altre parole, con la selezione genetica pre-impianto l’inizio della vita si trasforma da mistero da accogliere e accettare a semplice “ipotesi” o “progetto” da verificare e, solo se soddisfacente, realizzare.
Proprio come un prodotto, la vita umana allo stadio embrionale viene così spogliata della sua dignità personale, per sprofondare nel regno delle cose da scegliere e manipolare. Le cause continuamente addotte sembrano nobili: impedire la propagazione di malattie come la fibrosi cistica, curare la talassemia, salvare milioni di vite utilizzando gli embrioni “scartati “ per la ricerca sull’Alzheimer o sul Parkinson. Ma l’imprescindibile domanda resta quella posta da Ernesto Galli Della Loggia: “Quale è il prezzo?” (E. Galli Della Loggia, Se fuggiamo dal dolore, “Corriere della Sera”, 17 settembre 2004, p. 1). Il sacrificio di minuscole vite umane innocenti, chiamate forzatamente all’esistenza per poi essere non meno forzatamente eliminate potrà mai essere “il giusto prezzo da pagare” per ottenere tali benefici?
Il senso etico comune aborrisce l’eventualità di una soppressione selettiva delle persone su base genetica o sanitaria, ricordando non solo quanto è accaduto nella Germania nazional-socialista e, sebbene meno dibattuto, nell’ex impero sovietico, ma quanto è avvenuto “democraticamente” nel nord dell’Europa fino agli anni Settanta o avviene tutt’oggi “umanitariamente” – spesso con fondi ONU – in Cina e nei paesi in via di sviluppo. Se la selezione degli embrioni appare meno aberrante, invece, è perché non vi è una giusta e coerente concezione della loro dignità umana.
“Ma l’embrione chi è?”, ha chiesto alcuni giorni fa Giuliano Ferrara durante la trasmissione televisiva “Otto e mezzo”, mirando dritto al punto chiave. “Perché se è uno di noi, allora ha diritto allo stesso trattamento che riserviamo agli altri esseri umani”. Chi si schierava dalla parte della selezione genetica ha dovuto ammettere: “L’embrione non è uno di noi”. Tanto meno il pre-embrione, o il pre-zigote, o l’ootide. Ma ciò equivale a disfarsi, in nome del progresso scientifico, di quanto la scienza è andata dimostrando da anni sull’impossibilità di individuare un momento nello sviluppo embrionale in cui l’essere in formazione non sia una vita umana (cfr. C. Navarini, La storia infinita del pre-embrione e la fecondazione artificiale , 19 settembre 2004).
E qui è doveroso fare un passo avanti, superando i confini della scienza ed entrando nella giurisdizione dell’indagine filosofica, che può autorevolmente rispondere alla domanda se una vita umana possa essere distinta dalla vita personale. Ciò che per essenza distingue un essere umano da ogni altro essere è anche la sua dignità propria, e tale dignità non coincide con la materia biologica che compone il corpo dell’uomo, o con le singole dimostrazioni di bontà, di intelligenza, di sensibilità, di passione.
Tale dignità è piuttosto qualcosa che sussiste al di sotto di tutti gli aspetti osservabili dell’uomo, e che ha a che fare con l’unione indissolubile di elemento materiale (corpo) ed elemento spirituale (anima) di cui già parlava Aristotele. Come spiega l’illuminante definizione di Boezio, la dignità umana consiste nell’essere una sostanza individuale di natura razionale, ossia una persona ( rationalis naturae individua substantia), uno spirito incarnato ovvero un corpo spiritualizzato (cfr. R. Lucas Lucas, L’uomo. Spirito incarnato. Compendio di filosofia dell’uomo, Paoline, Cinisello Balsamo 1993).
Il Catechismo della Chiesa Cattolica precisa che il corpo dell’uomo “è corpo umano proprio perché è animato dall’anima spirituale” ( CCC , n. 364). Se dunque la scienza ha accertato che lo zigote e l’embrione sono corpi umani, e il corpo umano è tale perché animato da uno spirito di natura razionale, lo zigote e l’embrione sono, al pari di noi, spiriti incarnati, cioè persone (A. Zimmerman, Probabilism, Use and Misure , d.n.p., 2000). Nessuna caratteristica acquisita nel corso della vita e nessuna condizione contingente dell’individuo possono identificare il sorgere della dimensione personale umana. Ciò che qualifica come persona un essere umano è cioè una dignità che trascende le sue manifestazioni esteriori, le sue potenzialità residue o il suo stadio evolutivo.
La conclusione, forse empiricamente poco intuitiva, ma logicamente ineccepibile e filosoficamente necessaria, è che lo zigote e l’embrione hanno gli stessi diritti degli altri uomini. E dunque non possono essere selezionati e uccisi per qualsivoglia scopo, nemmeno per una “giusta causa”, nemmeno se affetti da tare ereditarie e difetti genetici. Svuotare una provetta è un’operazione semplice, quasi impercettibile, che non corrisponde alla nostra idea di omicidio. Eppure una grande responsabilità grava su coloro che commettono consapevolmente quel gesto o che lo approvano: quella del più grande genocidio della storia.
Codice: ZI04100305
Data pubblicazione: 2004-10-03
ROMA, domenica, 3 ottobre 2004 (ZENIT.org)