La scelta riformista di Benedetto XVI
Tradizione e cambiamento, guardare avanti senza rinnegare il passato
di Vittorio Messori
L’occasione sembrava formale e routinière: lo scambio degli auguri natalizi tra il Papa e coloro che lavorano nella Curia, la complessa macchina che gestisce la Chiesa universale e alla quale ogni diocesi deve cedere qualcuno dei suoi sacerdoti migliori.
Ma, in qualunque luogo debba parlare, Joseph Ratzinger non sa essere scontato, la sua serietà di tedesco e la sua formazione di teologo gli impediscono i discorsi di circostanza. Così, invece di cose destinate ad esaurirsi nell’intreccio un po’ frivolo di auspici e di parole buoniste, Benedetto XVI ha proposto ai suoi collaboratori riflessioni profonde su alcuni dei temi più impegnativi. Tanto da sconcertare alcune agenzie che, invece di troppo ardue sintesi, hanno preferito riportare letteralmente brani dal testo stampato del discorso. Uno dei temi è stato tra quelli cari al suo «venerato predecessore», come sempre lo chiama: quel rapporto tra fede e ragione al quale Giovanni Paolo II ha dedicato un’enciclica tra le più dense. Altro punto, la libertà religiosa, con il rischio che una lettura distorta porti i cattolici al relativismo. Infine (ma era il tema che ha preceduto, giustamente, ogni altro) l’interpretazione autentica da dare al Concilio, a quarant’anni dalla sua chiusura.
È su questo che, nell’impossibilità di tutto esaminare, vorremmo attirare l’attenzione. Qui, in effetti, sta la radice di quegli schieramenti ecclesiali che sono tuttora presenti, che si fronteggiano da antagonisti, incapaci di dialogo e, magari, di fraternità. «Progressisti» e «tradizionalisti» — per usare termini imprecisi, logori, mutuati dal linguaggio politico ma comprensibili ai più — hanno trovato, e trovano, i motivi delle loro discordie non tanto nella lettera dei singoli documenti, quanto nella interpretazione dello «spirito» che li animerebbe.
Per i primi, il Vaticano II è stato un nuovo inizio, una rifondazione della Chiesa: una «Costituente» per usare la parola usata ieri del papa. I Padri riuniti in Concilio, quasi senatori chiamati a rifondare uno Stato in rovina o ormai sclerotizzato, avrebbero inteso gettare nuove basi: anzi, ritrovare quelle antiche, quelle direttamente evangeliche, scrostate dalle sovrastrutture di venti secoli di storia. Il Concilio, dunque, non sarebbe stato il ventunesimo ecumenico della Chiesa cattolica ma una provvidenziale frattura, un discrimine, l’alba di un nuovo giorno la cui luce avrebbe cancellato un passato ambiguo, ormai impresentabile e improponibile.
Per i «tradizionalisti», al contrario, il Vaticano II non solo non avrebbe, in sostanza, cambiato nulla, al di là di un certo rinnovamento del linguaggio; ma non meriterebbe nemmeno lo status di Concilio. In effetti, osservano, si propose esplicitamente come «pastorale » e non «dogmatico», non definì alcuna verità né condannò alcun errore. Nei documenti, dunque, non ci sarebbero che esortazioni e buoni consigli. Parole, insomma, legate alle prospettive, spesso alle illusioni degli anni Sessanta del ventesimo secolo e che ora non avrebbero più nulla da dirci. Tanto rumore, tanta agitazione, tanti drammi e magari rovine per nulla. A queste categorie del «progressismo» e del «tradizionalismo», schizzate qui in modo un po’ caricaturale, Ratzinger oppone quella del «riformismo», intendendo con questo una sintesi tra tradizione e cambiamento. Non è certo una posizione che abbia assunto dopo l’elezione alla cattedra pontificia.
La via media tra rivoluzione e reazione è nella struttura stessa del cattolicesimo che si basa sull’equilibrio tra gli estremi, sull’unione degli opposti e che ha, in fondo, l’ossimoro come suo modo di intendere e di vivere la fede. Per il figlio di una Bavaria che—zona celto-germanica all’interno del limes imperiale — sin dall’inizio dell’evangelizzazione è stata impregnata a fondo dalla fede romana, è istintiva la sintesi cattolica. L’avvertii subito, più di vent’anni fa, quando misi la mia esperienza di cronista a servizio della sua decisione di stendere un «rapporto sulla fede» che fu poi rumorosamente frainteso, quasi fosse un manifesto della restaurazione, un rinnegamento del Vaticano II, un allineamento alle tesi tradizionaliste. Il nuovo Prefetto della Fede, in realtà era già «riformista»: rispetto del Concilio, riconoscimento del suo ruolo e, al contempo, consapevolezza che al pari della natura, Ecclesia etiam non facit saltus.
Dunque, la marcia del popolo di Dio nella storia come un lavoro di approfondimento delle ricchezze evangeliche, come uno scoprire nuove complessità, senza rinnegare il passato la cui lezione, anzi, permette di avanzare senza uscire dalla rotta. Tra le immagini con cui il Nuovo Testamento definisce la Chiesa, mi disse che una delle più care gli era quella dell’albero frondoso: il buon contadino lo cura perché sempre più vigoreggi, consapevole che quella vita viene dalla radici, il cui taglio provocherebbe la rovina. Né di «sinistra» né di «destra» (per usare ancora categorie grossolane), questo Maestro della fede sta — per istinto e per ragione — al «centro»: conservare ed innovare, guardare avanti non rinnegando il passato è il dovere di chi voglia prendere davvero sul serio il Vaticano II. Può sembrare tanto scontato da costeggiare il banale: eppure, dopo tanti decenni, la lezione non sembra ancora appresa da parte di chi, nella Chiesa, sogna «rivoluzioni» o «restaurazioni» e nel Concilio vede una «frattura» o un’«inezia».
Corriere della Sera 23 dicembre 2005