ROMA, lunedì 26 aprile 2004 (ZENIT.org).- Alcuni giorni fa, ZENIT ha riportato i commenti del cardinale Francis Arinze, secondo il quale i politici che sostengono apertamente l’aborto non dovrebbero fare la Comunione e i sacerdoti dovrebbero negare loro questo sacramento.
Nel gennaio scorso, il vescovo Raymond L. Burke di La Crosse, Wisconsin, ha emesso un’ordinanza che proibisce ai legislatori cattolici a favore dell’aborto o dell’eutanasia di ricevere la Santa Comunione.
Per spiegare alcune delle implicazioni canoniche e pastorali di queste dichiarazioni, ZENIT ha intervistato il teologo americano padre Thomas D. Williams, Decano della Facoltà di Teologia dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma.
Sembra che la Chiesa abbia iniziato ad adottare una posizione inflessibile sulla possibilità di ricevere la Santa Comunione, cosa ne pensa?
Padre Williams: La Chiesa ha sempre preso sul serio questo argomento. San Paolo ha ammonito severamente la Chiesa a Corinto: “Perciò chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice” (1 Cor 11, 27-28).
Il Codice di Diritto Canonico del 1983, riprendendo gli insegnamenti del Concilio di Trento (can. XI), stabilisce che, “a meno che non vi sia una ragione grave”, chi è consapevole di aver commesso un peccato mortale dovrebbe astenersi volontariamente dalla Comunione. “Colui che è consapevole di essere in peccato grave… non comunichi al Corpo del Signore senza premettere la confessione sacramentale” (can. 916).
Non c’è, però, una grande differenza tra l’incoraggiare ad astenersi dalla Comunione chi si trova in una condizione di peccato e invece il proibirla a certe persone?
Padre Williams: Sì, certamente. Mentre chi è consapevole di aver commesso un peccato grave di qualunque tipo, privato o pubblico, dovrebbe astenersi volontariamente dalla Santa Comunione, solo peccati gravi commessi apertamente o pubblicamente portano ad una non ammissione alla Comunione da parte di sacerdoti e vescovi.
Il riferimento a ciò si può trovare nel canone 915 del Diritto Canonico, che recita: “Non siano ammessi alla Sacra Comunione gli scomunicati e gli interdetti, dopo l’irrogazione o la dichiarazione della pena e gli altri che ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto”.
Questo canone prende in considerazione due ipotesi in cui i fedeli non devono essere ammessi alla Comunione. La prima ha a che fare con la scomunica e l’interdizione (censura ecclesiastica che proibisce la partecipazione ai sacramenti), la seconda si riferisce alla persistenza ostinata in peccato grave manifesto.
Nel caso dei politici a favore dell’aborto, quindi, ci si troverebbe di fronte ad un caso di peccato grave manifesto? Cosa vuol dire?
Padre Williams: Il linguaggio tecnico del Codice che si riferisce a coloro che “ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto” deve essere analizzato con attenzione. Sono in gioco quattro elementi fondamentali, tutti necessari per rispecchiare le condizioni esposte nel canone 915. Il primo elemento è il “peccato grave” (gravi peccato). Questo può essere considerato solo dal punto di vista dell’azione ( o omissione), senza implicare necessariamente un giudizio di colpevolezza soggettiva. “Peccato grave”, in questo caso, significa semplicemente una condotta oggettivamente negativa e di natura grave.
Il secondo requisito richiesto dal canone 915 si riferisce al carattere aperto (manifesto) del peccato. Questo limita la sanzione ai peccati di natura pubblica e ribadisce la dimensione pubblica ed ecclesiale della Santa Comunione, che significa unione dottrinaria, morale e spirituale con Cristo e la Sua Chiesa.
In terzo luogo, perché sia negata la Comunione una persona deve insistere (perseverantes) nel suo comportamento apertamente peccatore. Dire che una persona persevera in un peccato pubblico significa che in qualche modo mostra di voler continuare a tenere questo comportamento.
Il Codice, infine, parla di perseveranza ostinata (ostinate). L’avverbio latino ostinate in questo caso significa che la persona è stata debitamente informata del fatto che il suo comportamento è sbagliato, ma sceglie deliberatamente di perseverare. Se si continua a tenere un comportamento negativo essendo inconsapevoli del fatto che esso costituisca un peccato, non si può dire che ci sia una vera colpa, ma una volta che si è consci della negatività del comportamento il persistervi si qualifica come ostinato.
In base a quanto si è detto, risulta chiaro che un politico che non sostiene le vite umane innocenti, e afferma chiaramente di voler continuare a non farlo nonostante gli avvertimenti delle autorità ecclesiastiche, persiste ostinatamente in un comportamento oggettivamente negativo di natura pubblica, realizzando le condizioni richieste dal canone 915.
Nell’ordinanza resa nota nel gennaio scorso, il vescovo Burke parla di scandalo. Fallire nel “difendere la legge divina e naturale relativa alla dignità inviolabile di ogni vita umana”, scrive, “è un peccato pubblico grave e dà scandalo a tutti i fedeli”. Come entra lo scandalo in questo problema?
Padre Williams: Anche se nel linguaggio comune la parola “scandalo” si riferisce spesso a qualcosa di scioccante o di terribile, la parola deriva dal greco skandalon e letteralmente consiste nell’”atteggiamento o il comportamento che induce altri a compiere il male” (CCC 2284).
In virtù della loro grande visibilità pubblica e della loro autorità morale, i politici, con il loro esempio, possono indurre gli altri a compiere il bene o il male. Secondo il Catechismo, “lo scandalo è grave quando a provocarlo sono coloro che, per natura o per funzione, sono tenuti ad insegnare e ad educare gli altri” (CCC 2285). Più avanti si legge che “si rendono colpevoli di scandalo coloro che promuovono leggi o strutture sociali che portano alla degradazione dei costumi e alla corruzione della vita religiosa” (CCC 2286).
Insieme al compito di rendere certe azioni punibili o ammissibili dalla legge, la legislazione civile ha anche un ruolo pedagogico, contribuendo così alla formazione dell’opinione pubblica e della coscienza personale. La criminalizzazione o la legalizzazione di certe attività influenza il modo in cui la gente ne considera la moralità, perché rappresenta un giudizio sociale su questi comportamenti. Ancor di più di altre figure pubbliche, quindi, i legislatori sono chiamati ad un grado di responsabilità superiore in virtù della loro autorità morale e dell’influenza che le loro decisioni hanno sugli altri.
Nelle sue dichiarazioni di venerdì scorso, il cardinal Arinze aveva risposto ad un giornalista: “La regola della Chiesa è chiara”. “La Chiesa cattolica è presente ed ha dei vescovi negli Stati Uniti. Lasci che siano loro ad interpretarla”. Se la regola è chiara, perché è necessaria una sua interpretazione?
Padre Williams: Una cosa è la norma oggettiva, un’altra la sua applicazione ai casi specifici. Secondo il Codice, è compito del vescovo locale (“ordinario”) stabilire quando si presentano queste situazioni e prendere i provvedimenti necessari per correggerne le cause. Il canone 1339 stabilisce: “L’Ordinario può (…) anche riprendere, in modo appropriato alle condizioni della persona e del fatto, chi con il proprio comportamento faccia sorgere scandalo o turbi gravemente l’ordine”. Sta, quindi, al vescovo applicare queste sanzioni.
Le sanzioni non saranno considerate elementi di una politica faziosa?
Padre Williams: Nel caso specifico di politici cattolici che dissentono pubblicamente dall’orientamento della Chiesa sulla vita bisogna essere particolarmente prudenti. Soprattutto ora che i partiti politici più importanti si differenziano per questi motivi, bisogna stare molto attenti a far sì che non sembri che si sta applicando una politica faziosa, dando allo stesso tempo un messaggio inequivocabile sulla posizione della Chiesa relativamente all’aborto e sull’importanza che essa dà a questo argomento, in ragione della sua centralità nel contesto del bene comune.
Quando un partito politico assume un orientamento contrario alla vita come componente fondamentale del suo programma, la Chiesa non ha altra scelta che denunciarlo. Se i pastori della Chiesa mostrassero chiaramente ai politici che l’aborto è una questione su cui non ci possono essere negoziati e su cui sono pronti a battersi, eserciterebbero una considerevole pressione morale (e politica) su tutti i politici per dare al problema il peso che merita.
A volte è necessaria una voce profetica per scuotere la gente dal suo letargo morale, soprattutto quando deve accettare come “normale” qualcosa che a rigor di logica dovrebbe provocare sdegno. Se il sostenere pubblicamente l’aborto non costituisce una ragione pastorale sufficiente per giustificare la negazione della Santa Comunione, è difficile immaginare quando sarebbe appropriato il ricorso ad una misura di questo tipo.
Questo problema è veramente importante? I vescovi dovrebbero davvero mettere a rischio la loro autorità morale sulla questione dei legislatori favorevoli all’aborto?
Padre Williams: Uno sguardo al passato può essere molto utile. La storia tende ad essere severa nel giudicare i leader della Chiesa che hanno fallito nell’utilizzare tutti i mezzi a loro disposizione per porre fine a peccati gravi contro i diritti umani. Basta ricordare avvenimenti dei secoli scorsi come il traffico degli schiavi africani o l’apartheid, oppure come la Germania di Hitler. Situazioni che all’epoca apparivano complicate e sfaccettate diventano desolatamente semplici se considerate col senno di poi.
Un’analisi obiettiva dei fatti potrebbe mostrare come la situazione attuale che vede l’aborto legalizzato non è meno grave delle grandi questioni sui diritti umani del passato. Anche se possiamo essere ormai abituati alla terribile realtà dell’aborto, è possibile che, una volta che la civiltà sarà tornata in sé, le generazioni future considereranno la nostra epoca come una delle più barbare della storia, non solo per le guerre ed il terrorismo, ma soprattutto per lo sterminio dei membri più indifesi della nostra società, i più poveri tra i poveri, proprio perché non hanno voce.
Inoltre, le dimensioni della crisi – più di 40 milioni di morti programmate negli Stati Uniti da quando l’aborto è stato legalizzato nel 1973 – sono sufficienti a rendere l’aborto la più grande questione sociale di tutti i tempi.
ZI04042609
© ZENIT – Il mondo visto da Roma
Servizio quotidiano – 26 Aprile 2004
http://www.zenit.org/