No, non torni la rupe tarpea

Giuseppe Anzani


L’estate scorsa, quando si diffuse la notizia che in Olanda era stata messa a punto un’intesa fra la giustizia di quello Stato e una clinica universitaria di Groningen, per l’eutanasia dei bambini, il mondo fu percorso da un brivido. I protocolli erano severi, si parlava di malattie incurabili, di sofferenze intollerabili; ma l’immagine della violenza della morte in luogo della cura e della solidarietà negata feriva le coscienze.


Ora il Comitato nazionale di Bioetica del nostro Paese ha approvato in seduta plenaria, nei giorni scorsi, una mozione sulla «assistenza ai neonati e ai bambini affetti da handicap ad altissima gravità e sull’eutanasia pediatrica».
Il documento è breve e merita integrale lettura. Ma vi è un punto dove viene scrutato l’incrocio fra le ragioni della vita, della dignità e del rispetto di ogni vivente, e le ragioni che i fautori della morte mettono in conto alla pietà, parlando di «qualità della vita». L’immagine di un bimbo malato, piagato da un handicap, infragilito dal dolore, è di quelle che stringono il cuore e percuotono la mente. La sofferenza innocente manda in pezzi i teoremi della vagheggiata giustizia del cosmo, bussa il cielo. Ma se in luogo di un sovrappiù di amore, di cura e di lenimento, di vicinanza e di condivisione, la loro malattia evoca il pensiero di farli morire, perché è compromessa la «qualità della vita», in quell’attimo si compie un implicito confronto fra la loro vita concreta e il paradigma di una vita «degna d’esser vissuta».
Avviene così, esattamente, di fronte al setaccio della «qualità della vita» da altri disegnata, una «squalificazione» dei bambini più malati e più sofferenti; la loro vita viene “bocciata”, e da mano adulta sono consegnati alla morte perché per loro & #171;esser morti è meglio che esser vivi». Il nostro Comitato di Bioetica dice un no chiaro e forte. Non è giusto, non è etico, è contro il diritto. Una particolare condanna merita l’eutanasia a carico di bambini nati con handicap, anche particolarmente severi.
E il lettore comprende che l’handicap infantile accende la passione verso trattamenti terapeutici e ricerche della medicina più recente che trovano nuovi soccorsi, nuovi sollievi; mentre la soppressione dei bambini disabili è una violenza che contiene anche il disumano insulto di una selezione. Di contro a questo orrore, viene alla mente la sapienza struggente che pervade l’indimenticabile libro di Giuseppe Pontiggia, Nati due volte. La qualità di un figlio è l’identica qualità umana che non muta né trascolora secondo la prestanza o la debilitazione del corpo.
Chi possiede il diritto di giudicare della qualità della vita, e di decidere se quella di un bambino affetto da disabilità anche gravissima merita d’essere continuata o soppressa? Chi detta gli standard delle felicità pubblicizzate, a guisa di griglie dove la vita vale o non vale, si gode o si scarta? No, il fremito che dà l’immagine dell’eutanasia “pediatrica” è rivoltante. Solo in Olanda? È vero, da noi e nel mondo è diverso. Ma la civiltà è un cammino discontinuo; persino dai lidi raggiunti dei diritti umani “proclamati” per tutti («every human being» – Onu 1948), si può scivolare all’indietro riverniciando la vergogna della rupe Tarpea, se i bambini disabili sono ombra, peso e zavorra di una società cannibalizzante. Non sia così.


Avvenire 10 febbraio 2005