Distruttore o liberatore? Il cristianesimo in America Latina
In margine al dialogo Ratzinger-Galli della Loggia, appunto sui sanguinari mores maiorum di Maya e Aztechi: grazie agli spagnoli e alla predicazione cattolica in America Latina sono scomparsi i sacrifici umani che al ritmo di decine di migliaia all’anno sconvolgevano la vita delle popolazioni indigene.
di Angela Pellicciari
“La distruzione culturale operata dal cristianesimo non è stata seconda a nessuno. Se oggi il Sud America è un continente integralmente cristiano, è perché i mores maiorum degli incas o degli aztechi sono stati fatti a pezzi”. Così Galli della Loggia nell’incontro col Cardinal Ratzinger organizzato a Roma dal Centro di orientamento politico (pubblicato sul Foglio del 26 e 27 ottobre). L’espressione non poteva essere più dura.
Quali mores maiorum sono stati “fatti a pezzi” dalla Chiesa cattolica?
Per capire le caratteristiche della colonizzazione dell’America latina conviene partire da una considerazione banale: gli spagnoli arrivavano via mare non conoscendo nulla del territorio e delle popolazioni che avrebbero incontrato. Erano pochissimi (si parla di 27.787 uomini nei cinquant’anni che vanno dal 1509 al 1559) a fronte di un continente abitato da milioni di persone. Ma, si dice, avevano i cavalli e gli archibugi. E allora? Come poteva un pugno di uomini con qualche cavallo e qualche archibugio conquistare un continente? Questa domanda la storiografia dell’Ottocento e del Novecento non se l’è posta. La crudeltà dei cattolici spagnoli (e della Chiesa che li benediceva e accompagnava) è stata considerata una spiegazione necessaria e sufficiente. Forse, per capire, conviene dare un’occhiata al tipo di cultura in cui gli spagnoli si sono imbattuti.
Per farlo ricordiamo cosa scriveva sulla Stampa del 25 novembre 1998 il professor Aldo Rullini. In un articolo a tutta pagina dal titolo “Maya, cannibali per necessità”, leggiamo che in Messico e dintorni “mancavano le proteine” dal momento che “c’erano pochi animali domestici e commestibili”. E maya e aztechi “per soddisfare il loro bisogno fisiologico dovevano immolare moltissimi prigionieri e per far ciò dovevano organizzare incursioni e guerre […] La fine di ogni razzia veniva celebrata con grandi feste popolari che prevedevano l’uccisione di centinaia o anche migliaia di prigionieri sugli altari posti in cima alle piramidi”. Strappato alle decine di migliaia di vittime il cuore ancora palpitante, i corpi, decapitati, venivano “smembrati per essere distribuiti e mangiati”. Rullini scrive che “questi sacrifici di massa per quanto numerosi e frequenti, non potevano far fronte al fabbisogno proteico di tutto il popolo”. Ma, aggiunge, “conta invece che la classe dirigente, i sacerdoti e i militari, potessero usufruire di queste proteine”. In un altro articolo (settembre 1998, sul domenicale del Sole 24 ore), Eduardo Matos Moctezuma si chiedeva a proposito del frate Diego de Landa, se fosse stato “angelo o demonio”. “Propendo per la seconda ipotesi, senza dimenticare che, in fin dei conti, anche i diavoli furono angeli”, scriveva l’articolista. Veniamo ai fatti: frate Diego arriva nello Yucatan nel 1549 e nel 1556 diventa Custode, ovvero massima autorità religiosa della provincia.
Nel 1562 i francescani si macchiano di “eccessi francamente riprovevoli”: torturano alcuni indios colpevoli di aver compiuto sacrifici in onore di divinità autoctone e bruciano un buon numero di “codici e oggetti antichi”. Un simile crimine viene condannato dal francescano Francisco de Toral, nel frattempo nominato vescovo dello Yucatán. De Landa parte per la Spagna dove, per far valere le proprie ragioni, compila una “Relación de las cosas de Yucatán”, strumento “indispensabile per comprendere molte delle caratteristiche di quei popoli”. Quasi per inciso, e solo dopo aver descritto il riprovevole comportamento del Custode dello Yucatán, il direttore del museo del Templo Mayor di Città del Messico, dottor Moctezuma, ci informa del dettaglio che aveva scatenato la crudeltà di padre Landa: “Si seppe che non solo venivano seguiti certi rituali, ma si continuava a praticare anche il sacrificio umano come si faceva prima dell’arrivo degli spagnoli, ma ora in un modo che era il prodotto dell’influenza cristiana: giovani e bambini venivano crocifissi nelle chiese alla presenza delle antiche divinità”.
Chi ha visitato l’interessante mostra organizzata lo scorso anno a Roma sulla civiltà messicana precolombiana, ha potuto constatare come la vulgata anticattolica abbia permeato di sé la psicopatologia della nostra vita quotidiana. Secondo la brava guida che accompagnava gli ammirati visitatori, la qualità delle opere d’arte messe in mostra a palazzo Ruspoli (fra l’altro coltelli sacrificali e un’interessantissima statuetta in terracotta dipinta raffigurante la divinità Xipe Totec, rivestita della vera pelle di una vera vittima sacrificale), provava nel modo più inconfutabile la barbarie della cattolica Spagna che tanti ne aveva distrutti. La stessa cosa scriveva sulla Stampa del 18 marzo 2004 Maurizio Assalto. Dopo aver descritto i rituali degli aztechi (appena estratto, il cuore della vittima era parzialmente divorato dal sacerdote, mentre la pelle dell’immolato “veniva riposta, dopo essere stata indossata per venti giorni dall’officiante”, in speciali contenitori), dopo aver lamentato le dure condizioni di vita degli abitanti dell’America centrale “circondati da vulcani, minacciati dalla siccità, dagli uragani, dai terremoti”, termina con l’amaro rimpianto per quella cultura distrutta: “Ecco la fine [si riferisce alla fusione di oggetti d’oro per trasportarli in Europa più agevolmente] di quei tesori, dell’arte atzeca, della loro cultura. La fine (una delle tante) della civiltà”.
Ho citato alcuni articoli di giornale perché mi sembra il modo più semplice e più evidente insieme per provare a quale scarso uso della razionalità siamo stati educati. Per vedere la differenza fra l’America precolombiana e quella cattolica, ha ragione l’Arnold Toynbee di “An historian’s approach to religion” (1956), basta dare un’occhiata all’arte. Basta guardare i colori e i soggetti delle raffigurazioni. Tanto il sangue, le stragi, gli squartamenti, l’orrore, la crudeltà dominano nella prima, quanto i colori pastello, la luce, l’oro, la delicatezza, l’allegria dominano nella seconda. Per vedere se è vero basta fare un giretto in Sud America ed entrare nelle chiese, nelle cattedrali e nei conventi (quelli che non sono stati distrutti dalla furia illuminata dei libertadores di inizio Ottocento). Basta vedere l’arte popolare. Basta guardare quelle oasi di cultura, operosità, religione e pietà che sono le missioni francescane della costa californiana.
Non riuscendo più a distinguere il bene dal male, diamo al crimine il nome di cultura.
E’ vero che grazie agli spagnoli e alla predicazione cattolica in America Latina sono scomparsi i sacrifici umani che al ritmo di decine di migliaia all’anno sconvolgevano la vita delle popolazioni indigene.
E’ vero che grazie alla cattolica Spagna tanta povera gente è stata liberata da un incubo (e questo contribuisce a spiegare la facilità della conquista spagnola).
Il Foglio 18 nov. 2004