Il pregiudizio multiculturale
di Ernesto Galli Della Loggia
Nella città svedese di Sigtuna, a pochi chilometri dalla capitale, per rispettare le tradizioni delle minoranze locali, dal 2005 le scuole resteranno chiuse in occasione di alcune festività’ musulmane, cristiano ortodosse e persiane. Secondo quanto scrive il quotidiano “Dagens Nyheter”, nelle scuole non si farà’ lezione l’ultimo giorno della settimana del Ramadan, il giorno del Capodanno persiano e il Venerdì Santo ortodosso, dichiarati “giorni festivi multiculturali”. Anche in Italia, precisamente in Campania, le scuole potranno chiudere anche in occasione della fine del Ramadan e del Capodanno cinese, in segno di rispetto a studenti di altre confessioni religiose rispetto a quella cattolica. Una delibera della giunte regionale, infatti, autorizza i dirigenti scolastici a utilizzare quei giorni che ogni istituto può gestire autonomamente “per favorire l’integrazione etnica e religiosa”….
Dalla difesa dell’assessore Bruffardi una cosa emerge però limpidamente: il pesante tributo che su questi argomenti la classe politica, quale portavoce del senso comune, sente di dover pagare ai comandamenti del politicamente corretto. Se si parla di rapporto tra culture, guai cioè a non attenersi ai due principi-guida ai quali i tempi impongono di attenersi.
Il primo suona così: tutte le culture sono uguali, nel senso che le differenze pur evidentissime non possono mai essere considerate però come differenze valoriali; sulle culture, insomma, è vietato esprimere qualunque giudizio di valore. È dunque errato, e comunque sconsigliabile, sostenere, per esempio, che una cultura che ha elaborato la categoria della divisione dei poteri è migliore (sì, migliore) di una che non conosce questa categoria. Che una cultura, come quella occidentale, che prevede l’esistenza di tribunali in grado di dichiarare (e che dichiarano) illegale una decisione del governo, è migliore (non solo dal nostro punto di vista ma, guarda caso, anche da quello per esempio dei palestinesi o degli iracheni) di una come quella islamica nella quale, almeno a mia memoria, un fatto del genere non è mai avvenuto.
Conseguenza diretta del principio ora detto è il secondo, ovvero: ogni affermazione di identità culturale è pericolosa, e dunque sconsigliabile, dal momento che essa può costituire la premessa dell’intolleranza, anzi contiene già in sé un quid di esclusivo e dunque di potenzialmente intollerante. Ecco allora i controveleni del caso, così come li evoca con inappuntabile solerzia ideologica l’assessore Bruffardi: il “dialogo”, il “confronto”, lo “scambio”, e il tutto – come poteva essere diversamente? – al fine del “riconoscimento e valorizzazione reciproca”. La scuola deve sì – essa riconosce a denti stretti – trasmettere “anche” il patrimonio storico-culturale italiano, ma soprattutto deve essere la palestra di questi virtuosi esercizi multiculturali: non lo impone del resto la – anch’essa puntualmente evocata – “globalizzazione”? Non basta una scuola semplicemente aperta e tollerante come è giusto che sia, la quale stabilisca per esempio di considerare senz’altro giustificata ogni assenza dovuta a ragioni di ordine cultural-religioso; no, è necessaria, secondo l’assessore Bruffardi, niente di meno che “la convivenza paritaria tra diversi”.
Cosa ciò voglia dire e cosa debba intendersi nell’ambito della scuola per “dialogo tra le culture” se poi si insegnano la Divina Commedia , Machiavelli e Freud – cioè solo la cultura nostra, italiana e occidentale – ce lo dirà, ne sono sicuro, la giunta regionale della Campania alla prossima puntata.
Il Corriere della sera, 9 luglio 2004