Eppure nel 1999 il Consiglio d’Europa approvò una risoluzione per mantenere il divieto assoluto di eutanasia. Da ieri l’Olanda ha reso legale la morte sanitaria, anche per bambini dopo i 12 anni d’età. Le «risoluzioni» europee, si sa, non vincolano nessuno: si tocca qui con mano l’affannoso procedere dell’Unione in attesa di quella Convenzione sulla quale in tanti scommettono per dare visibilità ad un corpo di valori condivisi.
Nel frattempo l’Unione europea ha saputo «mettere sotto osservazione» l’Austria per «xenofobia», colpa inaccertabile e mai tradotta in atti esecutivi da quel Paese; e anche l’Italia è stata suo malgrado al centro di un dibattito continentale dai toni francamente inaccettabili. Intromissioni nei fatti interni dei Paesi membri, dunque, non mancano, e su temi che attizzano il favore dei media. L’Olanda unico Paese dell’eutanasia, il massimo produttore europeo di cannabis ed ecstasy, che attrae dai Paesi confinanti un sinistro «turismo tossico», non ha mai meritato la minima osservazione.E’ lo spirito dei tempi, lo Zeitgeist, a garantirle in anticipo l’«assoluzione» degli europei così pronti a invasioni di campo nelle altrui sovranità. Del resto, l’ultima quasi non è una novità: è dal ’94 che in Olanda la dolce morte è depenalizzata di fatto. Il salto di qualità che ha compiuto oggi può essere misurato solo da chi in Europa conosce ancora la differenza che passa fra il diritto e burocratiche «direttive» e «regolamenti» che formano nella sostanza il simil-diritto europeo. Sono pochi ormai. Pochi a capire che quando una legge positiva approva un delitto, fa del delitto un valore: specie in tempi di torpore etico, dove per molti diventa «morale» ciò che è solo «legale».
A che ripetere argomenti mille volte ripetuti contro l’eutanasia? Ippocrate non era cattolico. Se prescrisse a infinite generazioni di medici «non darai la morte, non prescriverai veleni», fu perché gli era chiara la conseguenza finale del minare il muro della difesa medica della vita: nell’Olanda d’oggi, tacitamente, l’eutanasia si pratica per liberare letti d’ospedale e alleviare i costi assicurativi e previdenziali. Si uccide, con la scusa della pietà, per motivi economici.
Ottenere il «consenso» di un sofferente, indebolito, non è difficile, basta fargli capire che è di peso. Che poi un diritto europeo possa fingere di accettare «il libero consenso» al suicidio di un bambino di 12 anni (a ragione riconosciuto giuridicamente incapace per tutto il resto, dalla firma di contratti al matrimonio) configura un regresso a un diritto da cavernicoli. I sistemi legali d’Europa si vantano di aver «ripudiato» la pena di morte. In realtà, l’Olanda ha dislocato il potere statale di morte dalla Giustizia alla Sanità, secondo una deriva ampiamente accettata altrove con l’aborto. Ovviamente la morte, trasferita a diverso competente ministero, non è più una «pena», s’è mutata in «somministrazione»: orrendo reg resso, perché colui cui la morte viene «prescritta» come «cura» estrema non ha diritto a pubblico processo, né avvocato difensore, né a una giuria.
Ciò configura non solo una tragica perdita di diritti per l’uomo europeo, ma addirittura la sua mutazione zoologica. Da cittadino responsabile (e perciò eventualmente punibile, anche con la pena più dura) ad animale amministrato; selezionato, manipolato come «materiale biologico» (vedi l’orrido utilizzo di embrioni umani), allevato e soppresso secondo le esigenze di bilancio ospedaliere e dei servizi sanitari nazionali. Non si ammazzano così anche i cavalli?.
Ma in Europa chi pensa ormai il diritto in questi termini umani? La gente, l’opinione pubblica, anziché inquietarsi e indignarsi, accetta per edonismo e buonismo pietistico questa deriva, forse anzi la reclama. Del resto, non si può fondare un diritto dell’uomo se si è smesso di credere a un compito superiore, a un destino ulteriore degli uomini. Persa questa nozione, lo jus scade a «regolamento» e «direttiva». Attenti, perché al fondo di questa strada c’è la perdita assoluta di ogni diritto, la gestione tecnica, ossia ad arbitrio del potere «legale», della vita che fu umana.
Maurizio Blondet Avvenire – 2 Aprile 2002