Corsera e Foglio ospitano dibattito a distanza tra due canonisti …
Perché il diritto canonico è piú duro con l’aborto che con l’omicidio
“Non chiamatelo omicidio”, ha detto, a proposito dell’aborto, il cardinale Mario Pompedda, intervistato dal Corriere della Sera e ha continuato: «Omicidio si dice in riferimento all’uomo, mentre qui il riferimento è all’embrione. Il diritto e la morale hanno sempre distinto tra l’omicidio, l’infanticidio e l’aborto. Proprio oggi dobbiamo annullare quelle distinzioni?…». Monsignor Velasio De Paolis, giurista vaticano e Segretario del Supremo tribunale della Segnatura apostolica, sul Foglio: «Se nel linguaggio giuridico del diritto canonico la distinzione tra aborto e omicidio è non solo plausibile ma anche praticata, questo non vale però sul piano e nel linguaggio della morale, almeno della morale cristiana»…
1. Perché il diritto canonico è piú duro con l’aborto che con l’omicidio, Il Foglio
2. «Votare chi sostiene la 194? Si può se è il male minore», Corriere della Sera
Perché il diritto canonico è più duro con l’aborto che con l’omicidio
ROMA. “Non chiamatelo omicidio”, ha detto, a proposito dell’aborto, il cardinale Mario Pompedda, intervistato ieri dal Corriere della Sera. E ha aggiunto: “Omicidio si dice in riferimento all’uomo, mentre qui il riferimento è all’embrione. Il diritto e la morale hanno sempre distinto tra l’omicidio, l’infanticidio e l’aborto”. Monsignor Velasio De Paolis, giurista vaticano e Segretario del Supremo tribunale della Segnatura apostolica, dice al Foglio che “da un punto di vista legale, il codice di diritto canonico distingue l’omicidio dall’aborto. Il canone 1398 dice ‘chi procura l’aborto’, il canone 397 parla di ‘chi compie un omicidio’. La distinzione, quindi, da un punto di vista giuridico c’è, così come nella legislazione civile. Non è tuttavia una distinzione che vale sul piano morale. La legge tiene presenti certi aspetti e la morale altri. I due piani possono non coincidere ma non dovrebbero contrapporsi, piuttosto completarsi, almeno nella visione antropologica del cristianesimo. Sotto il profilo giuridico, l’aborto è l’uccisione di un uomo ancora non nato, e non usiamo la parola ‘omicidio’. Ma da un punto di vista morale l’aborto è condannato proprio perché a essere ucciso nel grembo materno è un uomo. L’aspetto giuridico e quello morale si ricongiungono nell’unità della motivazione di condanna: si tratta sempre della soppressione di una vita umana. C’è di più. Nella nostra percezione e nell’esperienza immediata, ci colpisce maggiormente l’uccisione di una persona che vive tra noi, rispetto all’uccisione di un essere umano ancora nel grembo materno, ed è proprio questa differenza che induce la Chiesa a punire più rigorosamente l’aborto dell’omicidio: per il primo c’è la scomunica, per il secondo ci sono punizioni diversificate”. Non è paradossale questa diversità che sembra andare contro il senso comune? Monsignor De Paolis risponde che “il bambino nel grembo materno è più indifeso e la sensibilità nei suoi confronti è meno forte, e per questo ha più bisogno di protezione giuridica. Sulla soppressione della vita di un uomo nato, la Chiesa non deve dire molto di più di quello che già è nella sensibilità comune e nella legislazione degli Stati. L’aspetto canonistico è quindi più urgente nella punizione dell’aborto, che non è punito nella legge civile ed è anzi da questa stessa legge permesso”. Se nel linguaggio giuridico del diritto canonico la distinzione tra aborto e omicidio è non solo plausibile ma anche praticata, questo non vale però sul piano e nel linguaggio della morale, almeno della morale cristiana, dice monsignor De Paolis. Che interviene anche sul tema del voto dei cattolici a chi sostiene le leggi che consentono l’aborto, affrontato nell’ultimo Sinodo dei vescovi (e ancora dal cardinale Pompedda sul Corriere). Sostiene il giurista vaticano che “l’aborto per un credente cattolico è comunque un delitto, un peccato, un’azione che non si deve commettere, punita dalla legge della Chiesa. In linea di principio, se sono coerente con me stesso, dovrò dare il voto a candidati che abbiano la mia visione antropologica e religiosa. Ma, a livello politico, quante cose devono essere valutate? L’aborto è certamente una di queste, ma non è l’unica. Darò allora il mio voto ponderando il giudizio. E non ci si deve scandalizzare se per me, cattolico, la questione dell’aborto è molto più importante di quella sociale”. Riguardo all’Eucaristia per i divorziati e risposati, conclude monsignor De Paolis, “non dimentichiamo che la comunione con Cristo presente nel Pane e nel Vino è un atto d’amore, da vivere in uno stato d’amore e non di inimicizia con la Chiesa. Posso accedere all’Eucaristia se non violo lo stato di amicizia con Dio. La Chiesa in parte si affida all’individuo e alla sua coscienza, ma quando è in gioco un fatto pubblico si assume la responsabilità di evitare lo scandalo”.
Il Foglio 7 ottobre 2005
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«Votare chi sostiene la 194? Si può se è il male minore»
di Luigi Accattoli
CITTA’ DEL VATICANO – «La gravità dell’aborto è fuori discussione: c’è un canone del diritto canonico – il 1398 – che prevede la scomunica per chi lo “procura”. Ma una cosa è l’aborto, un’altra la legge che lo prevede. Riguardo alla legge diretta è la responsabilità del parlamentare che la vota, mentre solo indiretta è quella dell’elettore che l’ha eletto. In situazioni limite, il voto a un candidato “abortista” potrebbe anche costituire un male minore»: così il cardinale giurista Mario Pompedda interviene nella discussione sul voto «cattolico» a politici favorevoli a leggi d’aborto, di cui l’arcivescovo Levada ha parlato al Sinodo dei vescovi.
Eminenza lei dunque non sottoscrive l’affermazione che «fa peccato chi vota un candidato che ammette leggi d’aborto»?
«Premetto che l’arcivescovo Levada non ha fatto quell’affermazione, ma ha posto l’interrogativo sulla sua sostenibilità. Sarei cauto nell’uso del concetto di peccato, che implica intenzionalità. Sarebbe più corretto parlare di rischio o imprudenza. Certo chi vota un candidato “abortista” si assume una responsabilità, ma non è detto che si tratti immediatamente di peccato».
Come farà fronte a quella responsabilità?
«Può essersi trovato senza alternative e aver scelto quel candidato come male minore, in mancanza di candidature meglio rispondenti alla sua scala di valori. L’avrà scelto, poniamo, per altri aspetti del programma che sostiene. Potrebbe far fronte alla sua responsabilità agendo contro l’aborto nella società civile, con l’azione culturale o di volontariato, combattendo anche politicamente l’aborto, magari con un referendum».
Ma sapeva bene che con quel voto favoriva quella legge…
«Credo che raramente, o mai, si dia un candidato che si qualifica solo per il sostegno alla legge d’aborto. E credo che sia ben difficile che un elettore lo voti solo per questo. Se lo vota per altre ragioni, purché siano ragioni serie, paragonabili alla questione dell’aborto, dovremo dire che compie sì una cooperazione al male, ma solo materiale, senza diretta intenzione».
E che dice di politici cattolici che si trovano a firmare, o controfirmare leggi «imperfette» dal punto di vista della loro morale?
«E’ una materia delicatissima. Non è sufficiente, o non è sempre accettabile la distinzione tra il cattolico in quanto persona privata e in quanto portatore di ruoli pubblici. Perché è ovvio che anche nello svolgimento di responsabilità pubbliche egli deve farsi guidare dalla sua coscienza. Ma si possono distinguere i momenti: quando il politico cattolico è chiamato a legiferare la responsabilità è piena, quando firma o controfirma compie un atto dovuto, la cui responsabilità ricade su chi ha legiferato».
La condanna totale dell’aborto lei la applica anche alla pillola Ru 486, detta del «giorno dopo»?
«Senza dubbio. E’ posizione costante della Chiesa che l’inizio della vita umana e dunque dell’esistenza dell’essere umano si ha con il concepimento. Sopprimere il frutto del concepimento con strumenti chirurgici o con un farmaco sono solo due modalità per ottenere lo stesso effetto».
Lo chiamerebbe omicidio?
«No, lo chiamo aborto. Lo stesso rispetto per le parole – e per la vita umana alla quale si riferiscono – che mi induce a chiamarlo aborto mi trattiene dal chiamarlo omicidio».
Perché questo scrupolo?
«Omicidio si dice in riferimento all’uomo, mentre qui il riferimento è all’embrione. Il diritto e la morale hanno sempre distinto tra l’omicidio, l’infanticidio e l’aborto. Proprio oggi dobbiamo annullare quelle distinzioni? Credo che possiamo difendere pienamente il diritto dell’embrione alla vita senza drammatizzare ad arte il confronto con le opinioni diverse dalla nostra».
Ma anche in ambito ecclesiastico qualche volta risuona la parola «omicidio» per parlare dell’aborto…
«Lo so e si è pure sentito il paragone delle stragi di embrioni con la Shoah. Ma io inviterei a un linguaggio misurato. Non è già abbastanza dire aborto?».
Corriere della Sera 6 ottobre 2005