Editoriale di Davide Rondoni
Tratto da Avvenire del 14 giugno 2006
Arriva l’estate. E con essa si mostrano, vari tipi di “plebe”. Ovvero di miseria. La si vede nelle scelte per le vacanze o no. Una plebe anziana, ad esempio, che non può andare da nessuna parte. Per povertà, o per solitudine. Ma io vorrei gridare che c’è una nuova plebe. La chiamerò plebe del corpo. Una plebe qualificata non tanto per differenze di soldi, o di status rispetto alla “nobiltà”. Mi riferisco allo spettacolo così invadente di questa esibizione dei corpi. Di questo svestimento o peggio ancora di questa trascuratezza. C’è una nudità che vaga per le nostre strade – nei corpi di ragazzine, di donne e di uomini – che non è di nessuna seduzione. Anzi. Che è, letteralmente, impudica. Cioè solo mancanza di pudore. Non è più nemmeno una sfida al pudore, poiché esso non c’è più. Il comune senso del pudore è un fantasma già atterrato da tempo. Chi ritiene di sfidarlo è patetico. Ha smesso di esistere sia come categoria morale che come categoria estetica. E questi ragazzi non si offrono così conciati per una sfida. No, a quasi nessuno gliene frega di sfidare niente. Non è un atto di sfida a chi può velare le nudità estive con la grazia e l’eleganza facilitate dalla ricchezza. No, stanno coi loro corpi buttati nell’aria, in un esser trasandati che riguarda qualcosa di più dei vestiti. Il loro esser “plebe” dipende da tante cose. La mancanza di gusto è sempre la mancanza di qualcosa d’altro. E c’è la responsabilità che chiunque ha nel decidere come vestirsi. Ma quella loro povertà, che spegne la possibile bellezza di una presenza, di un portamento, e anche di una seduzione, viene da qualcosa di buio. Li vedi, le vedi, questi ragazzini, queste ragazzine, abbruttite nella loro ingenua, spavalda e ripetitiva mostra di se stessi: ombelichi, fianchi, gambe, tutto. Cinture, cerniere, guaine, biancherie. Senza quasi mai grazia. In modo inerte, spento. Come cose. Come la buccia di un “io” sempre più ritirato chissà dove, e perciò quasi distante, indifferente all’uso che di quella buccia si può fare, o ne possono fare altri. Buccia bella, possibilmente, ma in ogni caso da esibire pure orrenda. Non è una democrazia del corpo, anzi. E’ una nuova tremenda oppressione a plebe. Una diseducazione dell’io a cercare il senso di tutto, e perciò anche del corpo, determina questo buttarsi via, cosciente o no. La offerta di sé intesa soprattutto come esibizione della propria “esteriorità” ha toccato il culmine in questi decenni. Tu sei quel che di te appare, è lo slogan scritto o invisibile che domina sui muri delle nostre città e sulle pagine delle riviste. Regna ovunque. Ha “infettato” tutti i campi, fino allo sport e alla politica. Il “presentarsi” bene è divenuto motivo di merito maggiore di tanti altri, più importanti. E ora, come accade ad ogni perversione della verità, si giunge al paradossale, tremendo contrario. Poiché se è vero che “presentarsi bene” ha un valore legato al motivo per cui occorre farlo, è pur vero che l’enfatizzazione di questo aspetto produce mostruosità. Come quelle che vediamo. Dove esibizione e orrore si toccano, e il secondo domina. Sulla pelle dei nostri ragazzi. In questi giorni, dove l’estate chiama i corpi a cercar l’aria e la luce, la estrema storia di Cristina Nicol, la bambina cresciuta nel corpo della madre ormai spento e vissuto solo per dare la vita a lei, è un colpo di spada contro la riduzione dei ragazzi a plebe fisica. Quel corpo silenzioso e impresentabile, secondo alcuni, in quanto già toccato da morte, è stata la bellissima custodia della vita. Lei, la madre era tutta nel suo corpo. In quel che accadeva. Misteriosamente compiendosi. Questi ragazzi, il loro io, dove sono mentre i loro corpi bruciano acidamente nelle sere d’estate?