Prospettive più dinamiche nella scelta del non-voto
Luca Diotallevi
Il dibattito in vista del referendum sulla legge 40 (relativa al complesso fenomeno della fecondazione assistita) si va progressivamente avviando, e – salvo in alcuni episodi – su livelli mediamente elevati.
Al centro di questo confronto è finito anche l’invito al non-voto che molti osservatori hanno còlto nelle parole pronunciate a Bari dal cardinale Ruini nel corso dei lavori del Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana. Anzi, si può dire che questa ipotesi sta attirando un notevole volume di attenzioni, e di critiche, in parte attese in parte inattese.
È allora il caso di chiedersi quale sia il valore aggiunto del non andare al voto rispetto al “no” che si può scrivere sulle schede, visto che tanto un affermarsi del “no” quanto un affermarsi dell’astensione avrebbero come effetto la sconfitta dei “sì”. Posto che il non andare a votare garantisce al referendum l’essenziale di quello che il “no” ottiene, c’è qualcosa che il non-voto consente e che il “no” invece non garantisce? Se al referendum vince l’astensione non solo si evita che sia consentita la fecondazione eterologa, la illimitata produzione e manipolazione di embrioni della specie umana, la riduzione ulteriore del numero e della qualità di diritti riconosciuti all’embrione, ma si ottiene qualcosa in più. Qualcosa che con il “no” non si può ottenere.
In primo luogo, la vittoria del non-voto, a differenza della vittoria del “no” (o del “sì”) giuridicamente equivale ad un annullamento del referendum. In altre parole, non recandosi alle urne la maggioranza dei cittadini e delle cittadine rifiuta che su questa specifica materia la questione venga chiusa nei termini semplificanti di un referendum. Si eviterebbe così non solo il ritorno al far west del “tutto è possibile con l’embrione” ma si eviterebbe anche una sorta di sacralizzazione di questa legge non priva di limiti. Non possiamo dimenticare, infatti, che per effetto di un referendum, in cui certo non vinse l’astensione, la legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza risultò di fatto “intoccabile”, nonostante a difenderla così com’è oggi resti solo una minoranza mentre una larghissima parte della opinione pubblica (laici e cattolici) sarebbe favorevole a qualche correzione.
In secondo luogo, attraverso la proposta del non-voto si introduce chiarezza e distinzione tra dinamiche ecclesiali e dinamiche politiche. La testimonianza cristiana, che non mancherebbe comunque di accendersi, si troverebbe chiamata al realismo, secondo un orientamento che bene esprime il recente richiamo alla ricerca del “male minore” da parte della Congregazione per la Dottrina delle Fede. La testimonianza cristiana (in politica come altrove) non è spettacolo ma ricerca coraggiosa e saggia dell’affermazione di valori positivi e di maggiori possibilità.
Infine, un importante valore aggiunto del non-voto rispetto al “no”, non dimentichiamolo, è che l’astensione pare avere più possibilità di vittoria. Il realismo cristiano, a differenza del mero cinismo, non può ridursi a questo tipo di valutazioni, ma senz’altro non ne può prescindere. I sostenitori del “no comunque”, tra l’altro, sembrano mostrare una ingenuità che desta persino qualche sospetto.
Almeno per le suddette ragioni, dunque, il non-voto offre un valore aggiunto notevole, soprattutto per chi vorrebbe evitare che una legge non perfetta venga peggiorata. Nel contempo si presenta come una soluzione che, senza drammatizzare il confronto, lo mantiene aperto, anche in presenza di una evoluzione della ricerca scientifica che continuamente indebolisce alcune delle apparenti ragioni del “sì”. Insomma, lungi dall’assomigliare ad una neutralità, l’astensione così intesa è foriera di significati nuovi e di prospettive più dinamiche.
Avvenire 04/02/2005