Le norme della Legge 194 contrastano, ad avviso del Tribunale di Udine, anzitutto con l’art. 2 della Costituzione che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo. Due autorevoli interventi illustrano questa presa di posizione «politicamente scorretta».
di DANILO MORINI, Commissario straordinario Istituti ortopedici Rizzoli
Il Tribunale di Udine ha rinviato all’esame della Corte Costituzionale l’art. 6 della Legge 194 che disciplina l’interruzione volontaria della gravidanza e consente l’aborto nel caso che l’accertamento di «rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, determini un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna».
Nel 1988 veniva alla luce J.S., affetto da ipoplasia del femore sinistro. Nel ’94 i genitori avviavano una causa civile contro la competente Asl per ottenere la condanna al risarcimento di tutti i danni sofferti conseguentemente all’inadempimento dell’obbligo di esatta informazione in tempo utile che il sanitario era tenuto ad adempiere in ordine alle possibili anomalie o malformazioni del nascituro. La causa si è trascinata sino al 21 luglio 2003, allorché il Tribunale ha sospeso la decisione nel merito e ha richiesto l’intervento della Corte Costituzionale. Le norme della 194 contrastano, ad avviso del Tribunale, anzitutto con l’art. 2 della Costituzione che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo. Il primo diritto di ogni uomo è quello alla vita ed appare quindi incongruo e contrastante con detto articolo la possibilità che una persona, ancorché si tratti d’un bambino non ancora nato, venga soppressa per la possibilità che la sua nascita, fisicamente imperfetta, arrechi una sofferenza psicologica alla madre, costituente altro e diverso soggetto avente la medesima dignità del bambino. Gli interrogativi del Tribunale alla Corte sono posti anche all’attenzione della coscienza di tutti noi, tenendo presenti le modalità concrete di applicazione della Legge: non essendo state previste dal legislatore regole oggettive per determinare la «rilevanza» e procedere o meno all’aborto, esso in buona sostanza diventa eugenetico. L’ipoplasia del femore è un difetto d’accrescimento dell’osso che può esser curato e consentire lo svolgimento di attività professionali e lavorative. L’accertamento di tale malformazione può consentire di sopprimere questa vita?
di ALDO MAZZONI, Coordinatore Centro di consulenza bioetica «A.Degli Esposti»
Trovo assai interessante l’episodio riferito dal dottor Morini e pertinenti le sue osservazioni. Fa piacere comunque che almeno a Udine esista un giudice disposto ad affrontare problemi politicamente scorretti. Ancora più interessante sarà conoscere l’esito della pronuncia della Corte Costituzionale, ma fin d’ora è importante, anche a mio avviso, cominciare a riflettere su temi che puzzano di eugenetica e che sono troppo spesso ipocriticamente risolti con la manipolazione strumentale del significato delle parole. Vorrei vedere come si possa escludere che un feto, cui sia già stato possibile riscontrare visivamente (ecograficamente) un difetto di sviluppo (ipoplasia) di un femore, sia un «individuo» della specie umana, cioè un «uomo», al quale solo per questo deve essere assicurata vita e tutela della salute, come esige la Costituzione. Forse uccidendolo, per trarre altri di imbarazzo? Dove potrà «cominciare» un difetto fisico che gli «altri» possano considerare sufficientemente serio da giustificare, in assenza di possibilità di cura, l’esecuzione del non colpevole? Qualora la gestazione sia oltre il terzo mese, sarà poi così banale per uno psicologo certificare in coscienza che, in quella determinata donna e in quella situazione, un tale difetto di sviluppo possa rappresentare un reale pericolo per la salute fisica o psichica della madre, così grave da essere insostenibile, come la legge richiede? Per il nascituro sarà poi realmente meglio essere ucciso, che vivere eventualmente zoppicando? In questa società garantista, a quanto sembra per tutti meno che per i sicuramente innocenti, come si farà a chiederglielo?
Duole infine pensare che si chiedano i danni per un figlio comunque… sopravvissuto!
Mi auguro non venga mai a saperlo. I figli sono così curiosi.
Avvenire –BolognaSette, 18 aprile 2004