Pubblichiamo il testo del discorso pronunciato giovedì 9 novembre dalla professoressa Maria Luisa Di Pietro, Presidente dell’Associazione “Scienza & Vita”, presso l’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” di Roma, in occasione della lezione inaugurale del Master di Bioetica.
[…]“Io senza volerlo ho donato il fuoco a certi animali”, aggiunse Kevin. “Ho scoperto per caso il modo di interscambiare alcune particelle di cromosomi, soprattutto il braccio corto del cromosoma 6, da una cellula all’altra e da una specie all’altra” […] “E quello che ottenevi in realtà”, continuò Jack, “era la perfetta fonte di un organo di trapianto per un determinato individuo”. “Esattamente. Non era quello che avevo in mente all’inizio. Io sono solo un ricercatore, un teorico. Ma il potenziale economico mi ha spinto a mettere in pratica la teoria”. “Geniale, straordinario!”, esclamò Jack. “Ma è una cosa che fa paura”. “Più che paura. Rischia di essere una tragedia”. Due i passaggi rilevanti di questo brano – “più che paura rischia di essere una tragedia” e “io sono solo un ricercatore, un teorico” -, sintomi, da una parte, di una situazione di disagio e, dall’altra, di un’erronea separazione tra la scienza pura e la scienza applicata. […]
Leggi il testo integrale dell’intervento della prof.ssa Di Pietro cliccando qui.
1. In un recente romanzo di Robert Cook, Cromosoma 6, si si narra la storia di un ricercatore – Kevin – che crea, modificando un segmento del braccio corto del cromosoma 6, animali transgenici e compatibili con il soggetto da cui derivano i geni. Gli animali, le scimmie bonobo, divengono così serbatoi di organi per xenotrapianti, esenti da rigetto. Il ritrovamento di un cadavere orribilmente mutilato di un boss della malavita e la successiva autopsia, che rivela un inspiegabile intervento di trapianto di fegato, portano alla luce loschi traffici: agli interessi economici e di potere di chi gestisce l’affare, si incrocia il timore del ricercatore di essere andato “oltre” con le sue manipolazioni genetiche, creando una razza di bonobi umanizzati. Leggiamo – a questo proposito – il dialogo tra Kevin e Jack, che chiede chiarimenti sulla ricerca del primo.
“Io senza volerlo ho donato il fuoco a certi animali”, aggiunse Kevin. “Ho scoperto per caso il modo di interscambiare alcune particelle di cromosomi, soprattutto il braccio corto del cromosoma 6, da una cellula all’altra e da una specie all’altra” […] “E quello che ottenevi in realtà”, continuò Jack, “era la perfetta fonte di un organo di trapianto per un determinato individuo”. “Esattamente. Non era quello che avevo in mente all’inizio. Io sono solo un ricercatore, un teorico. Ma il potenziale economico mi ha spinto a mettere in pratica la teoria”. “Geniale, straordinario!”, esclamò Jack. “Ma è una cosa che fa paura”. “Più che paura. Rischia di essere una tragedia”. Due i passaggi rilevanti di questo brano – “più che paura rischia di essere una tragedia” e “io sono solo un ricercatore, un teorico” -, sintomi, da una parte, di una situazione di disagio e, dall’altra, di un’erronea separazione tra la scienza pura e la scienza applicata.
2. “Più che paura rischia di essere una tragedia”. Non si può negare che la seconda metà del ventesimo secolo è stato ed è un periodo di grandi conquiste scientifiche e tecnologiche: scienza e tecnologia hanno consentito di conoscere la struttura, le funzioni e le dinamiche evolutive degli esseri viventi, e hanno aperto nuove strade per migliorare le condizioni di vita dell’uomo. Scienza e tecnologia: perché la tecnologia deve avvalersi di un sapere certo, di una “scienza” dell’operare della natura al fine di imitarla, riprodurla, correggerla, fornendo nel contempo gli strumenti per osservare, misurare o riprodurre artificialmente; e la scienza non può fare a meno del suo braccio operativo, la tecnica. Splendida testimonianza delle capacità, della tenacia e dell’intelligenza dell’uomo, la scienza e la tecnologia possono, però, ritorcersi contro l’uomo e contro la natura, creando anche delusione ed angoscia fino al timore di perdere il controllo sulla realtà circostante. E così dopo l’emergere dell’orgoglio prometeico dell’uomo che non accetta di essere fatto, si assiste alla vergogna prometeica dell’uomo che non aveva calcolato le conseguenze del proprio agire superbo e spensierato.
Dopo aver considerato la natura come “materiale” inerte e dai percorsi prevedibili, da ripensare e ricostruire, da manipolare e schiavizzare, l’uomo rischia di divenire egli stesso “schiavo” delle proprie conquiste. Incapace, però, di rendersi conto della propria schiavitù. L’uomo “schiavo” e “padrone”, capace di ridurre in schiavitù anche altri esseri umani, di discriminarli in base alle loro qualità, di trattarli come “cosa”, fino al punto di giustificarne la soppressione. D’altra parte se – come scrive Guardini – “la proibizione di uccidere l’uomo rappresenta il coronamento della proibizione di trattarlo come una cosa”, considerare l’uomo una “cosa” significa poterlo utilizzare come mezzo per raggiungere fini ad esso estranei. Ed in questo caso l’orgoglio e la vergogna si vengono a mescolare, di necessità, con la menzogna.
La menzogna è, d’altra parte, un modo per lenire la vergogna. Ad esempio, parlare di embrioni umani e negare che, pur avendo natura umana, siano trattare come “persone”, significa cercare una giustificazione per poterli privare – senza rimorsi – di quella tutela a cui hanno diritto. Un’operazione tutto sommato semplice: è sufficiente utilizzare il termine “persona” non come sostantivo ma come aggettivo qualificativo. Ed allora, la “persona” non si identifica più con l’essere umano, nella globalità delle sue dimensioni fisica, psichica e spirituale dal concepimento alla morte, ma solo con quell’ente umano o non umano che possiede determinate caratteristiche biologiche (individualità, attività unificante del sistema nervoso, capacità di sentire dolore) o psico-sociali (razionalità, coscienza autocosciente, relazionalità, capacità di comunicazione, capacità, etc.).
La divisione tra essere umano ed essere personale ha portato, poi, come logica conseguenza al riduzionismo biologico dell’essere umano: considerato un agglomerato di cellule e di geni, privato della sua natura d’essere, l’uomo può essere trattato come qualsiasi altra specie vivente, anche di un livello molto basso di evoluzione. Ne sono una prova i tentativi di clonazione, di partenogenesi, di ectogenesi, che non fanno parte tra l’altro dei modelli riproduttivi di nessun mammifero: modalità di sviluppo e strumenti pensati e utilizzati per specie animali a bassi livelli di evoluzione vengono ora proposti e applicati all’uomo.
Un riduzionismo, la cui eziologia si può, forse, rintracciare, nelle modalità approccio della scienze sperimentali e della tecnologia al reale. Il metodo sperimentale (osservazione dei fenomeni, ipotesi interpretativa, verifica sperimentale, valutazione dei risultati ) ha, infatti, una sua validità intrinseca e consente l’accumulo di conoscenze, ma ha anche un suo limite intrinseco: deve poggiarsi – per forza – su dati empirici, suscettibili di essere osservati, computati, comparati, senza riuscire a guardare “al di là”. Nell’ottica del metodo sperimentale, si cerca di comprendere il corpo umano attraverso lo studio della struttura (anatomia), delle funzioni (fisiologia), della struttura cellulare (biologia e biochimica), dei meccanismi regolatori e attivatori (neurologia e immunologia), della struttura degli organi e delle loro funzioni e di una varietà di malattie, menomazioni: una conoscenza che riduce l’uomo ad un insieme di manifestazioni estrinseche: “La strabiliante ipotesi – scrive Crick – è che tu, le tue gioie, i tuoi ricordi, le tue ambizioni, il tuo senso di identità personale e libera volontà, in realtà non sono altro che il comportamento di un vasto insieme di cellule nervose e delle molecole ad esse associate”.
Da parte sua, l’approccio tecnologico tende a frammentare e a parcelizzare il corpo nelle sue componenti, scorporandolo nelle sue singole funzioni fino a perderne la visione unitaria: questo perché lo “sguardo” della tecnologia, ovvero del sapere che accompagna la tecnica, è lo sguardo del dominio, dell’utilità e dell’efficienza.
3. “Io sono solo un ricercatore, un teorico”. L’orgoglio prometeico ha portato l’uomo a considerare il progresso scientifico e tecnologico solo fine a se stesso: un progresso che ha come unica norma quella della sua stessa affermazione e crescita, quasi si trattasse di una realtà avulsa dalla realtà propriamente umana; un progresso che si impone all’uomo per la realizzazione delle sue sempre nuove possibilità come se si dovesse far sempre ciò che è tecnicamente possibile; un progresso che è asservito all’utilità economica secondo la logica del profitto e senza alcuna preoccupazione per il vero bene dell’umanità; un progresso che ha causato una profonda divisione tra la scienza pura e la scienza applicata.
Identificato lo scopo del progresso con l’opera tecnologica, la scienza “pura” viene intesa come ricerca di quei processi che conducono ad un successo di tipo tecnico, facendo allontanare l’uomo dalla ricerca della verità. Anzi, la verità diviene superflua e, talora, esplicitamente rifiutata: solo il successo tecnico è la “verità”, è l’orizzonte conoscitivo esclusivo e autoreferenziale, e la grandezza umana viene misurata solo in base al progresso scientifico e tecnologico. Una divisione tra scienza e tecnica non è, però, possibile: perché la tecnologia deve avvalersi di un sapere certo, di una “scienza” dell’operare della natura al fine di imitarla, riprodurla, correggerla, fornendo nel contempo gli strumenti per osservare, misurare o riprodurre artificialmente; e la scienza non può fare a meno del suo braccio operativo, la tecnica.
La divisione tra scienza pura e applicata alimenta, poi, l’idea che vi sia una scienza (pura) che – in quanto “conoscenza” – va sempre giustificata e lasciata alla libertà del ricercatore, e una scienza (tecnologia) che – in quanto “applicata” – può essere oggetto di riflessione per le sue implicazioni etiche, sociali, legali. Solo quest’ultima richiederebbe – qualora si ravvisassero conseguenze preoccupanti – un’attenta regolamentazione. La scienza, basata sul metodo sperimentale, non è – però – neutra: non solo perché, per conoscere, la scienza deve modificare in misura maggiore o minore la realtà, ma anche perché, ponendo di fronte alla scelta, solleva una domanda di natura etica. La riflessione morale riguarda l’agire umano libero e consapevole e, quindi, include anche l’agire tecnico. In questa ottica, dire che la tecnica non è neutra significa mettere in evidenza che vi è un rapporto tra l’agire umano e la valutazione morale.
Anche quando è ridotta a strumento, la scienza non è mai neutra: un microscopio può essere “neutro” in quanto strumento, ma cessa di esserlo nel momento in cui viene usato per un determinato scopo. La semplice conoscenza può, così, divenire una forma di dominio e gli strumenti servirebbero solo per raggiungerlo più facilmente. Certamente, affermare la non neutralità della scienza e di alcuni suoi prodotti, non si significa formulare un giudizio negativo quanto piuttosto richiamare la necessità di valutare con attenzione determinate attività umane e determinati “mezzi” che le rendono possibili, anche quando sono “pensate” e “volute” per scopi buoni.
4. Se le conquiste scientifiche rappresentano anche un rischio, sarebbe, allora, meglio non conoscere? Certamente no: la conoscenza è sempre preferibile all’ignoranza e il progresso è una ricchezza per l’uomo, ma è urgente interrogarsi sulla strada che si vuole seguire e sulla qualità della verità che si vuole cercare. Questo perché la scienza sperimentale – in quanto attività non neutra – non può limitarsi a guardare solo all’aspetto tecnico, all’utilità, senza interrogarsi sui fini, sugli obiettivi, sulla metodologia, sui mezzi, sulla realtà sulla quale si sta sperimentando.
In quale fase si rende, allora, necessaria la domanda di senso e di limite? La risposta che appare più ovvia è il momento applicativo, partendo – come già detto – dal presupposto che la ricerca sia di per sé neutra, mentre le applicazioni richiedono una previa analisi sulle conseguenze e sui rischi. Dire che questo non è sufficiente non significa, però, negare la necessità di una domanda sui fini, sulle conseguenze, sui rischi del momento applicativo, quanto piuttosto affermare che vi sono altre dimensioni da tenere presenti. Allo stesso modo non si possono negare l’esistenza e l’importanza di un’etica intrinseca alla ricerca scientifica, ma questa si concretizza solo nella fedeltà ai canoni della ricerca (lo scrupolo metodologico, l’esattezza della comunicazione dei risultati, la trasparenza dei procedimenti in modo che siano suscettibili di controllo da parte del mondo scientifico).
L’etica propria della ricerca non si può, però, limitare a questi codici di correttezza. Ad esempio, che si sappia eseguire alla perfezione la tecnica della clonazione per trasferimento di nucleo è un necessario requisito di eticità professionale, ma non è sufficiente perché si possa dire che il suo intervento sia etico in tutto e per tutto: diverso è applicare la tecnica per clonare un individuo umano o un animale o una pianta e, nel caso degli animali e delle piante, si dovranno valutare le conseguenze per la specie e per tutto l’ecosistema.
Accanto ad un’etica del momento applicativo e un’etica della metodologia della ricerca, vi è anche un’etica dei fini e dei mezzi. Etica dei fini: l’impostazione di una ricerca parte sempre da un progetto e rivela o nasconde finalità strategiche che potrebbero essere positive o negative. La scelta degli indirizzi di ricerca può, infatti, attingere a criteri che non trovano nella pura conoscenza della verità – ovvero nel sapere qualcosa – il presunto sommo criterio, perché altrimenti sarebbe impossibile stabilire una gerarchia di studio. Senz’altro non è da dimenticare il riferimento ad un criterio utilitaristico fosse solo per gli interessi economici che ad essi soggiacciono. L’etica dei fini deve, poi, coniugarsi con l’etica dei mezzi e dei metodi: anche quando i fini sono buoni, non sempre possono essere leciti i procedimenti scelti. Inoltre, in molti casi, l’esito finale si ottiene attraverso diversi varie tappe, le quali – pur essendo state pensate come mezzi – sono sempre anche fini pur se intermedi: anche qualora l’esito non venisse raggiunto, i mezzi rimarrebbero dei fini.
Ed ancora, non bisogna dimenticare l’etica della comunicazione: la ricerca scientifica dovrebbe essere ricerca della verità che – in quanto valore – esige fedeltà, anche nella comunicazione agli altri ( i ricercatori, l’opinione pubblica, etc.). Nel lavoro scientifico la fedeltà alla verità esige di distinguere le conoscenze consolidate dalle ipotesi o dalle opinioni e di manifestare correttamente non solo il contenuto di ogni acquisizione e conoscenza scientifica, ma anche il suo grado di verità e di affidabilità. Conoscenze e informazioni devono essere, poi, comunicate con prudenza.
Vi è, però, un legame più profondo e comprensivo di tutti precedenti, che hanno a che fare con l’aspetto operativo (i fini, le procedure, la metodologia, l’applicazione): si tratta della cosiddetta “dimensione integrativa” dell’etica. Come già detto, le scienze sperimentali sono riduttive del reale, poiché ne considerano solo la dimensione quantitativa: la sola scienza sperimentale – secondo Karl Jaspers – con i suoi metodi non può percepire né tantomeno conoscere gli aspetti qualitativi della realtà, né il significato e il valore profondo della natura. L’aspetto più profondo e comprensivo, la natura d’essere e il valore assiologico del reale sfuggono, quindi, ai procedimenti del metodo sperimentale, per cui se il ricercatore ha come “oggetto” di studio l’embrione umano, egli non si può limitare a osservare gli esiti e la correttezza metodologica della procedura utilizzata o porsi la domanda dell’applicazione dei risultati, ma deve chiedersi che cosa è l’embrione umano, se è un essere umano, se ha il valore di persona umana o no. Ed è dalla risposta a questa domanda che si chiariscono tutte le altre risposte sui fini, sulle metodologie, sulle applicazioni.
5. Se la scienza sperimentale non può non interpellare l’etica, la domanda che inevitabilmente si pone è: a quali valori fare riferimento perché tutto non si riduca ad un mero tecnicismo? I valori di riferimento dovrebbero essere la logica conseguenza del significato e dei fini della stessa scienza sperimentale: essa non si contrappone alla persona e alla natura, ma si misura e si giustifica in base al servizio che reca all’uomo e alla vita tutta. Ed è la persona che interviene su un bene che non ha posto nel mondo e su leggi ed equilibri che la precedono e la coinvolgono; è la persona che, qualora il suo operare coinvolga altri esseri viventi, ha una responsabilità che non può essere assoggettata soltanto alle leggi dell’avere, del produrre e del mercato; è la persona che deve ridivenire capace di “vedere” la natura, di “sentirla”, uscendo dall’attuale visione tecnomorfica.
La scienza sperimentale appartiene alla persona e ne rispecchia dignità e responsabilità; le conseguenze possono ricadere sulla persona stessa e, comunque, toccare gli equilibri dell’ecosistema e il bene delle generazioni future. La domanda si seno e di limite, la riflessione etica, sono, dunque, necessarie e giustificate in nome della dignità della persona umana e delle sue responsabilità. Lasciarsi guidare da una immagine integrale dell’uomo, che rispetti tutte le dimensioni del suo essere, è il vero modo di vivere la libertà: se si perde questa consapevolezza, si corre il grande rischio di arrivare alla negazione e alla distruzione della stessa umanità.
Maria Luisa Di Pietro
Associato di Bioetica, Università Cattolica S. Cuore, Roma
Presidente nazionale Associazione Scienza & vita
Fonte: http://www.upra.org/archivio_pdf/di_pietro_relazione.pdf